N. 261 ORDINANZA (Atto di promovimento) 9 gennaio 2001

Ordinanza  emessa il 9 gennaio 2001 dalla Corte di appello di Bologna
nel procedimento penale a carico di Erbacci Massimo

Processo  penale  -  Casi di appello - Possibilita' per l'imputato di
  proporre  appello  per  gli interessi civili avverso la sentenza di
  condanna  relativa  a  reati per i quali e' stata applicata la sola
  pena   pecuniaria   -  Preclusione  -  Regime  differenziato  delle
  impugnazioni,  a parita' di fattispecie di reato, con irragionevole
  deteriore trattamento dell'imputato soccombente rispetto alla parte
  civile  soccombente  o  all'imputato  soccombente  non  nelgiudizio
  penale, ma rispetto a sue pretese civilistiche.
- Combinato disposto degli artt. 574 e 593, comma 3, cod. proc. pen.
- Costituzione, art. 3.
(GU n.15 del 11-4-2001 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento conseguente
all'impugnazione  proposta  da  Erbacci Massimo, nato a Savignano sul
Rubicone il 18 maggio 1959, avverso la sentenza del pretore di Forli'
in data 30 dicembre 1999, n. 1258.

                             Motivazione

    Imputato  di  tre  reati,  Erbacci Massimo e' stato giudicato dal
pretore di Forli' il 30 dicembre 1999.
    Con  la sentenza in tale data il pretore ha assolto l'imputato da
due  reati  e  l'ha  condannato  per  il  terzo,  riqualificando come
minaccia  il fatto gia' rubricato come violenza privata ed applicando
la pena di lire 100.000 di multa.
    Ha  condannato, inoltre, l'Erbacci a risarcire alla parte civile,
Ricci  Andrea,  il  danno,  la cui liquidazione ha rimesso al giudice
civile.  Ha  condannato,  infine,  il  medesimo  Erbacci a pagare una
provvisionale  alla parte civile ed a rifondere a questa le spese del
giudizio.  L'imputato  ha  impugnato la sentenza, chiedendo di essere
assolto  dal reato di minaccia ed ha chiesto in subordine, in caso di
conferma  della  condanna,  l'applicazione  di  una  pena minore e la
riduzione della provvisionale assegnata alla parte civile.
    L'imputato  ha  denominato  appello  la  sua impugnazione e dalla
cancelleria  del giudice di primo grado gli atti sono stati trasmessi
a questa corte d'appello.
    All'udienza  del  9  gennaio 2001, alla quale e' stato fissato il
dibattimento  di  secondo  grado,  il pubblico ministero ha chiesto a
questa   corte  di  dichiarare  inammissibile  l'appello,  in  quanto
proposto avverso una sentenza di condanna relativa ad un reato per il
quale e' stata applicata la sola pena pecuniaria.
    Il  pubblico  ministero ha indicato il fondamento normativo della
sua  richiesta  nel terzo comma dell'art. 593 c.p.p., come sostituito
dall'art. 18 della legge 24 novembre 1999, n. 468.
    Va  ricordato,  per  quanto  qui  ora  interessa, che la predetta
norma,  che  ha  una  seconda parte, della quale si dira' in seguito,
relativa all'inappellabilita' di talune sentenze di proscioglimento e
di  non  luogo  a  procedere, nella precedente formulazione della sua
prima  parte  disponeva l'inappellabilita' delle sentenze di condanna
relative  a  contravvenzioni,  per  le quali fosse stata applicata la
sola pena dell'ammenda.
    Nella  formulazione  novellata  essa  prevede  l'inappellabilita'
delle  sentenze  relative  a reati per i quali sia stata applicata la
sola pena pecuniaria.
    L'inappellabilita'  e'  stata  estesa,  dunque,  alle sentenze di
condanna  relative  a delitti per i quali sia stata applicata la sola
multa.
    La  nuova  norma,  poiche'  la  legge  n. 468  del  1999 e' stata
pubblicata  nella Gazzetta Ufficiale del 15 dicembre 1999, e' entrata
in  vigore  il  30  dicembre  1999, proprio il giorno in cui e' stata
emessa la sentenza a carico dell'Erbacci.
    Tale sentenza e' stata, comunque, pronunciata nella vigenza della
norma  novellata  e  siccome infligge all'imputato la pena della sola
multa,  e'  tra  quelle  soggette  al  ricorso per cassazione, ma non
all'appello.
    A  norma  dell'ultimo  comma  dell'art. 568 c.p.p., questa corte,
quale   giudice   incompetente  a  trattare  il  processo  a  seguito
dell'impugnazione  proposta,  dovrebbe disporre la trasmissione degli
atti alla Corte di cassazione.
    Questa, esaminata l'impugnazione, potrebbe, tuttavia, dichiararla
inammissibile,  a  norma  dell'art. 606  c.p.p., anche quale ricorso,
riscontrando  in  essa  solo  motivi non consentiti in relazione allo
specifico mezzo.
    L'impugnazione   proposta  dall'Erbacci,  fondata  essenzialmente
sull'assunto  di  avere  agito  per  legittima difesa a seguito di un
comportamento  aggressivo  del  Ricci,  pare  contenere, invero, solo
motivi  di  merito,  cioe'  non  rientranti  fra  quelli previsti dal
menzionato art. 606.
    A  causa  di  cio'  sono ovvie le sfavorevoli prospettive davanti
alla  Corte  di  cassazione,  indipendentemente  dall'eventuale  buon
fondamento dei motivi di merito, deducibili con l'appello, ma non con
il ricorso.
    Va  rilevato  che  l'impugnazione  proposta  dall'Erbacci associa
domande di natura penale e domande relative agli interessi civili.
    L'assoluzione richiesta riguarderebbe, infatti, sia l'imputazione
penale  sia la domanda della parte civile di risarcimento del danno e
di rifusione delle spese del giudizio.
    In  ogni  caso, va tenuto presente che in subordine l'imputato ha
chiesto  una  riduzione  della  provvisionale  assegnata  alla  parte
civile.  Quanto  ora  detto circa la duplice natura dell'impugnazione
proposta dall'Erbacci si pone sulla linea dell'esplicito disposto del
quarto   comma   dell'art. 574   c.p.p.,   per   il  quale,  appunto,
l'impugnazione  dell'imputato  contro la pronuncia di condanna penale
estende i suoi effetti alla pronuncia di condanna al risarcimento dei
danni  ed alla rifusione delle spese processuali, se questa pronuncia
dipende dal capo o dal punto impugnato.
    Nel  caso  in  esame  il  rapporto di dipendenza, richiesto dalla
norma,   risulta   evidente:  l'assoluzione  dal  reato  di  minaccia
escluderebbe  la condanna al risarcimento del danno ed alla rifusione
delle spese alla parte civile (artt. 538 e 541 c.p.p.).
    Il   menzionato   art. 574,  che  regola  nei  primi  due  commi,
affermandola,  la facolta' dell'imputato di proporre impugnazioni per
gli  interessi  civili,  dispone al terzo comma che l'impugnazione e'
proposta   col  mezzo  previsto  per  le  disposizioni  penali  della
sentenza.
    Da  questa disposizione deriva che la possibilita' per l'imputato
di  proporre  l'appello per gli interessi civili e' esclusa, se dalla
legge  l'appello  e' escluso con riferimento alle disposizioni penali
della sentenza da impugnare, dato che la disposizione stessa, secondo
la  sua  formulazione,  trova  il  suo  completamento nel terzo comma
dell'art. 593,  col  quale  forma  un  combinato  disposto,  per cui,
appunto,  l'imputato  non  puo'  proporre  appello  per gli interessi
civili   se  le  statuizioni  penali,  per  lui  di  condanna,  hanno
comportato l'applicazione di una pena solo pecuniaria.
    Ne deriva che all'imputato la possibilita' di ottenere in tema di
interessi  civili  un secondo giudizio anche di merito, quale si ha a
seguito  dell'appello, e' preclusa non in considerazione della natura
del  fatto  illecito attribuitogli ne' in base all'entita' del danno,
che  l'illecito stesso avrebbe prodotto, ma e' preclusa, salvo i casi
di  reati  puniti  con  la  sola  pena  pecuniaria,  per  i  quali la
preclusione deriva dalla previsione edittale, dal tipo di pena scelta
in concreto dal giudice, nel pronunciare condanna .
    In    pratica,    e'   l'esercizio   del   potere   discrezionale
nell'applicazione  della pena da parte del giudice di primo grado che
determina  il  corso  ulteriore  del  processo,  tanto per la materia
penale quanto per quella civile, ove oggetto di esso sia un reato dal
quale  possa  derivare  l'applicazione di una pena detentiva o di una
pecuniaria.
    Attraverso  l'esercizio  del  suo potere discrezionale in tema di
pena  il  giudice  stabilisce  implicitamente  se la sua sentenza sia
suscettibile  di un riesame anche nel merito in grado di appello o se
sia  suscettibile  solo  del  controllo,  limitato alla legittimita',
ottenibile col ricorso per cassazione.
    La  determinazione  ad  opera  del  primo  giudice, attraverso la
scelta della pena, del tipo di impugnazione proponibile contro la sua
sentenza  si  avra'  non solo nel caso di fattispecie di reato per le
quali  sia  prevista  alternativamente  la  pena  detentiva  o quella
pecuniaria, come per il reato di percosse (art. 581 c.p.), per quello
di lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) o per quelli di ingiuria
e  di  diffamazione (artt. 594 e 595 c.p., ma si avra' anche nel caso
di fattispecie nelle quali l'ipotesi base del reato sia punita con la
pena  pecuniaria mentre le ipotesi aggravate siano punite con la pena
detentiva .
    Fra  queste  ultime  fattispecie rientra il reato di minaccia, di
cui  il  pretore  ha  giudicato colpevole l'Erbacci, che nell'ipotesi
base,  prevista  dal primo comma dell'art. 612 c.p., e' punito con la
sola  multa e nell'ipotesi aggravata prevista dal secondo comma dello
stesso  articolo  e'  punito  con  la  sola reclusione (il pretore ha
ritenuto  sussistente l'ipotesi aggravata commessa con arma, prevista
dal  predetto  secondo comma, ma ha concesso le attenuanti generiche,
ha  valutato  queste  equivalenti  all'aggravante  ed ha applicato in
concreto  all'imputato  la  sola  multa,  prevista dal predetto primo
comma).
    Si puo' osservare che il regime delle impugnazioni, differenziato
per  effetto  della  specie di pena inflitta, quale risulta dal terzo
comma   dell'art. 593  c.p.p.,  proietta  un'ombra,  che  contraddice
l'apparente favore per l'imputato, sul motivo per il quale il giudice
scelga   la   pena   pecuniaria  quando  potrebbe  infliggere  quella
detentiva.
    Tale  ombra  si riconnette all'interesse, attribuibile al giudice
stesso,  di  sottrarre la propria sentenza al riesame, potenzialmente
illimitato, ottenibile attraverso l'appello.
    Ad   ogni  modo,  appare  come  singolare  anomalia,  nell'ambito
dell'ordinamento  processuale,  che  sia  un  elemento  accessorio  e
quantitativo, determinato dall'esercizio di un'ampia discrezionalita'
del  giudice,  e  non  il  tipo di giudizio (assoluzione o condanna a
determinare i rimedi esperibili dalle parti.
    Ma  va  rilevato,  soprattutto,  che il terzo comma dell'art. 593
c.p.p.  contiene  una  norma che contrasta con la scelta generale del
processo  con  due  gradi  di merito, che caratterizza sia il settore
penale che quello civile della giurisdizione.
    La  norma,  inoltre,  non  pare  abbia altro fine che una modesta
economia processuale, modesta perche' relativamente scarso e' gia' in
primo  grado  il  numero  dei  processi  aventi  ad  oggetto reati in
concreto  punibili  con la sola pena pecuniaria ed ancora piu' scarso
e',  ovviamente, il numero di quei processi che puo' avere seguito in
appello.
    In  un  sistema  che  continua  ad  avere  come  regola il doppio
giudizio  di  merito  e che si conforma in cio' alla tradizione ed ai
fattori  di  razionalita'  ed  esperienza,  che  l'hanno determinata,
l'inappellabilita'   delle   sentenze  individuate  dal  terzo  comma
dell'art. 593  appare  il  frutto  di  una  scelta di compromesso che
sacrifica,  nei casi di reati di minore rilievo, l'interesse pubblico
e dei singoli a decisioni giuste .
    Quel  compromesso ha un aspetto negativo nel rischio, gia' detto,
che  il  giudice  scelga  la  pena  minore  per  sottrarre la propria
sentenza all'appello.
    Ma esso manifesta il suo difetto, come si dovra' considerare piu'
dettagliatamente  in  seguito,  soprattutto  quando  pare che tra gli
effetti  del reato tenga in conto solo la pena per valutare l'entita'
degli interessi sacrificati con la preclusione dell'appello.
    Ci   si  tratterra',  ancora  non  a  lungo,  sulle  implicazioni
normative   piu'  strettamente  attinenti  agli  aspetti  processuali
penalistici.
    La  Corte  di  cassazione, chiamata a delibare, in relazione alla
disparita'  di  trattamento,  la  costituzionalita'  del  terzo comma
dell'art. 593 del c.p.p. nella sua originaria formulazione escludente
l'appello  avverso sentenze di condanna relative a contravvenzioni ed
applicative  solo dell'ammenda, ha giudicato manifestamente infondata
la  questione,  perche'  l'istituto  dell'appello  non  e' oggetto di
previsione costituzionale, a differenza del ricorso per cassazione, e
perche'  il  regime  restrittivo,  stabilito  dalla  predetta  norma,
sarebbe  giustificato  dalla  diversa  valutazione  giudiziaria della
gravita' del reato (Cass. pen. III, 8 aprile 1993, n. 3433, Mosca).
    In  altra  decisione,  pure  affermante la manifesta infondatezza
della   stessa  questione,  la  Corte  suprema  ha  ritenuto  che  e'
perfettamente    conforme    alla    Carta    fondamentale   ancorare
l'appellabilita'  o  meno delle sentenze non alla gravita' tipica, ma
alla  gravita' concreta del reato, la quale non puo' essere accertata
che  dal  giudice  attraverso  la  determinazione  della  pena (Cass.
pen. III, 6 maggio 1993, n. 4621, Serra).
    Si  puo'  osservare  che  il principio di ragionevolezza, desunto
dall'art. 3  della  Costituzione, non tanto viene in questione quando
casi  identici  siano  trattati  in  modo diverso, giacche' ogni caso
singolo  ha elementi che esclusivamente lo individuano, bensi' quando
il diverso trattamento sia ancorato ad elementi marginali o secondari
di diversita' mentre esistono elementi uguali di primario rilievo, in
relazione   ai   quali  il  trattamento  differenziato  si  manifesta
discriminatorio.
    Del  resto,  il  predetto articolo, quando espressamente menziona
alcuni  fattori  che  non  devono  essere  motivo  di  disparita'  di
condizione  giuridica, non fa che valutare irrilevanti le differenze,
riferibili  a  quei  fattori, rispetto a cio' che deve rendere uguali
tutti i cittadini di fronte alla legge.
    La  Corte  di  cassazione  nelle  sue citate decisioni indica con
facilita', perche' esso e indicato gia' dalla norma, l'elemento della
minore  gravita'  in concreto dei reati giudicati come caratteristico
delle  sentenze,  contro  le  quali  non  e' ammesso l'appello, ma la
stessa Corte non si trattiene ad esaminare l'aspetto della questione,
che  pare essenziale, cioe' se quell'elemento abbia carattere tale da
giustificare   la   diversita'  di  trattamento  (su  cio'  l'assunto
affermativo resta apodittico).
    L'appello  con  il  suo  carattere  di  secondo giudizio anche di
merito,  finche'  continuera'  ad  essere  consentito  di  regola nei
processi   penali  e  civili,  dovra'  essere  considerato  strumento
recepito  nell'ordinamento  come idoneo a realizzare il fine primario
della giustezza delle sentenze, anche perche', con la prospettiva del
successivo   controllo,  disincentiva  nei  giudici  gli  effetti  di
eventuali fattori di parzialita'.
    Resta, quindi, quantomeno da stabilire se il minore rilievo della
pena, o del reato valutato in relazione alla concreta applicazione di
essa, sia elemento tale da giustificare, in relazione al principio di
ragionevolezza,  la previsione normativa di un corso del processo con
possibilita'  piu'  limitate, perche' l'appello non e' consentito, di
approdo alla giustezza della decisione di quanto avvenga di regola.
    Il   fatto   che   l'appello   non   sia  oggetto  di  previsione
costituzionale  come  il  ricorso  per  cassazione  non pare basti ad
esentare  da  ogni  censura  di  costituzionalita' ogni criterio, per
quanto   estemporaneo,   in   base   al   quale   la   legge  escluda
l'appellabilita'  di  certe  sentenze,  mentre  continua a consentire
l'appello come ordinario mezzo di impugnazione di esse.
    Deve, poi, ammettersi che in certi casi l'applicazione della pena
pecuniaria,  invece  di  quella  detentiva,  possa derivare da errate
valutazioni  anche  di  merito  del  giudice  e che la decisione sia,
quindi, bisognevole di emenda.
    In  tali  casi  la  previsione  di inappellabilita' e la connessa
impossibilita'  di  riesame  del  merito  farebbero  si'  che proprio
l'errata decisione sarebbe causa della propria inemendabilita'. Anche
questo pare considerabile ai fini della valutazione di ragionevolezza
del regime differenziato delle impugnazioni, di cui si tratta.
    Da  cio'  si  puo'  trarre  spunto  per  notare, inoltre, come la
Cassazione,  nella  sua  decisione  del  6 maggio 1993 ritenga che il
principio  di  legalita' penale di cui all'art. 25 della Costituzione
(...)  non  impedisce evidentemente la scelta giurisprudenziale della
pena  fra quelle previste alternativamente dalla legge, ne' impedisce
che  attraverso  questa  scelta  si determini l'appellabilita' o meno
della sentenza.
    Per  la Cassazione e' chiaro, dunque, che e' la scelta della pena
da  parte  del  giudice  a  determinare, nell'ambito del congegno del
terzo comma dell'art. 593, l'appellabilita' o meno della sentenza.
    La suprema Corte non considera, pero', quello che necessariamente
discende  da  cio'  che  le risulta chiaro, cioe' che l'effetto della
scelta   della   pena   sull'appellabilita'   della   sentenza   puo'
condizionare il giudice nella scelta stessa.
    Questo,  che  nel  1993  avrebbe  potuto  forse piu' mediatamente
assumere  rilievo  nella  valutazione  della  costituzionalita' della
norma,  assume  ora  un  diretto  rilievo in relazione al nuovo testo
dell'art. 111  della  Costituzione,  che al secondo comma dispone che
ogni processo si svolge davanti ad un giudice terzo ed imparziale.
    Con questa disposizione viene a confliggere ogni norma, che ponga
le  premesse  per  cui  il  giudice  risulti  anche  solo  potenziale
portatore di un interesse proprio nel processo.
    Le precedenti considerazioni delineano il quadro di riferimento e
rendono  piu'  chiari  i  termini  della  piu' specifica questione di
costituzionalita',   che  questa  corte  ritiene  non  manifestamente
infondata,  questione  che  si ricollega al gia' sottolineato duplice
oggetto dell'impugnazione proposta dall'Erbacci.
    Si  e'  detto che la sentenza di primo grado ha pronunciato anche
la  condanna dell'Erbacci al risarcimento del danno ed alla rifusione
della  spesa  del giudizio alla parte civile, alla quale ha assegnato
una provvisionale.
    Si  e'  detto  che  l'impugnazione  dell'Erbacci  investe  sia la
condanna  penale  sia  la dipendente condanna relativa agli interessi
patrimoniali.
    Per  quanto  diretta  ad  ottenere  il  rigetto  della domanda di
risarcimento e di rifusione delle spese, proposta dalla parte civile,
l'impugnazione dell'Erbacci e', secondo l'intitolazione dell'art. 574
del c.p.p., impugnazione dell'imputato per gli interessi civili.
    Si  e'  visto  che  per  il disposto del terzo comma del predetto
articolo tale impugnazione puo' essere proposta con il mezzo previsto
per  le  disposizioni  penali  della  sentenza  e  si e' visto che la
sentenza  contro  l'Erbacci,  a  norma  del terzo comma dell'art. 593
c.p.p.,  e'  inappellabile  in  relazione  alle  statuizioni penali e
risulta,  di  conseguenza,  inappellabile  anche  per  gli  interessi
civili.
    E'  bene rendere esplicito che la sentenza in questione, come per
l'imputato,  e' inappellabile anche per il pubblico ministero nonche'
per  la  parte  civile,  le  cui impugnazioni, regolate dall'art. 576
c.p.p.,  sono  le  stesse  esperibili contro la sentenza dal pubblico
ministero.
    Emerge che il codice di procedura penale, che in generale tende a
consentire  a  tutte le parti, che contendono di interessi civili nel
processo  penale,  ampia facolta' di impugnare le statuizioni civili,
che  eventualmente  accompagnino  nelle sentenze quelle penali, tanto
che  in  esso  trova  collocazione  una norma, quella del primo comma
dell'art. 573,  secondo la quale in fase di impugnazione la forma del
processo  penale  serve  per  la  trattazione  anche  di controversie
esclusivamente  civilistiche  (l'impugnazione  per  i  soli interessi
civili  e'  proposta,  trattata  e  decisa con le forme ordinarie del
processo  penale),  quel codice - si diceva - prevede una limitazione
dell'impugnabilita'  delle statuizioni civili proprio attraverso quel
collegamento   normativo,  per  cui  tanto  la  parte  civile  quanto
l'imputato,  per  impugnare  capi  della  sentenza  solo civilistici,
possono  esperire  non altro che i mezzi consentiti in relazione alle
statuizioni penali.
    Cosi',  la  scelta  del  giudice  relativa alla specie di pena da
applicare    in    concreto    all'imputato    non   solo   determina
l'appellabilita'  o  meno  dei  capi  penali  della sentenza ma anche
l'appellabilita'  o meno dei capi di esclusivo rilievo civilistico di
essa.
    Si  puo'  accreditare,  in  ipotesi,  il punto di vista, espresso
nelle  decisioni della Cassazione, prima richiamate, secondo il quale
il  minore  rilievo  del  fatto  penale,  quale  risulta non dal dato
normativo  ma  dalla  valutazione  espressa dal giudice attraverso la
scelta   della   pena,   puo'   dare   non  irragionevole  fondamento
all'oggettiva disparita' di trattamento derivante dalla previsione di
inappellabilita'  di  certe  sentenze,  ma  non  si  puo' omettere di
osservare, allora, che quel minore rilievo attiene ad un aspetto solo
penalistico,   che   sotto  nessun  riguardo  puo'  fare  considerare
affievolito  e  sacrificabile l'interesse pubblico e dei privati, per
la  giustezza  della  decisione, al doppio grado di merito in tema di
interessi civili.
    Il   terzo   comma  dell'art.  593  contiene  una  previsione  di
inappellabita' di statuizioni penali ma, attraverso i richiami che ne
fanno  altre  norme,  esso  finisce  per  stabilire  il  criterio  di
inappellabilita'  di  una  serie di statuizioni che non riguardano il
reato  o  che  non  riguardano  le  due parti essenziali del processo
penale.
    Si  consideri  l'art.  575 c.p.p. e si consideri che esso, per il
collegamento che ha col terzo comma dell'art. 593 attraverso il terzo
comma  dell'art. 574,  a  chi  sia  stato  ritenuto dal primo giudice
responsabile  civile,  oltre  che a chi sia stato ritenuto civilmente
obbligato   per   la   pena  pecuniaria,  preclude  la  deducibilita'
attraverso   l'appello   di  motivi  di  merito  relativi  all'errata
decisione di detto giudice.
    Anche  con  riferimento  a  cio'  in  precedenza  si e' detto del
difetto  manifestato  dall'art. 593  col considerare solo la pena per
valutare  l'entita'  degli  interessi  sacrificati con la preclusione
dell'appello.
    Chi  si  trova  a  partecipare al processo penale, perche' citato
dalla  parte  civile  quale  responsabile civile, e tale ritenuto dal
giudice  e  come  tale condannato al pagamento eventualmente anche di
ingenti somme, si vede precluso un secondo grado di merito, nel quale
vorrebbe  far  valere che non ha la qualita' di responsabile, che gli
e'  stata  attribuita,  esclusivamente  perche'  l'imputato invece di
essere  stato  condannato  a  pochi  giorni di pena detentiva, magari
sostituita  con la pena pecuniaria di specie corrispondente, e' stato
condannato solo a pena pecuniaria.
    A  questa corte pare troppo evidente, cosicche' sull'argomento si
puo'  non  aggiungere  altro,  che il trattamento discriminatorio, in
ordine  alla  sua  difesa,  che  il  preteso responsabile civile deve
subire, per quell'esile, eppure determinante, collegamento che ha con
il tipo di pena inflitta all'imputato, e del tutto irragionevole.
    Ma  il  caso  estremo  del trattamento del responsabile civile e'
solo  poco  dissimile  da quello del trattamento della parte civile e
dell'imputato  relativo  alla  preclusione  dell'appello  a tutela di
interessi solo civili.
    Certo, non e' che al minore rilievo del fatto penale corrisponda,
neppure  di  regola,  una minore dannosita' patrimoniale e morale del
fatto stesso.
    Si  consideri anche solo il caso delle lesioni personali colpose,
che  possono essere connotate da un lieve grado della colpa e possono
essere   commesse   da   persona  esente  da  qualsiasi  connotazione
delinquenziale.
    Per  quel  reato  in concreto puo' ben risultare adeguata la sola
multa,  consentita dalla previsione normativa, almeno per effetto del
giudizio di valenza tra gli opposti elementi circostanziali .
    Evento  del  reato  di  lesioni personali colpose possono essere,
pero',  menomazioni  che  riducono  una  o  piu'  persone ad una vita
meramente vegetativa.
    In  casi del genere il danno civilistico e' tra i maggiori che si
possano ipotizzare come derivanti da un reato.
    Di  conseguenza,  il  processo  penale,  nel quale si inserisce a
seguito  della  costituzione  di  parte  civile  un  giudizio civile,
seppure   risulti   per   l'imputato  non  grave  in  relazione  alla
prospettiva  della  sanzione penale, puo' risultare enormemente grave
negli  effetti  patrimoniali  per  lui  nonche'  per  altri,  come il
responsabile  civile,  che  col  reato e col magistero punitivo hanno
rapporto solo indiretto ed occasionale.
    Ora,  pero', va individuato un caso particolare, del quale quello
dell'Erbacci  e' un esempio concreto, nel quale il combinato disposto
del  terzo comma dell'art. 574 e del terzo comma dell'art. 593 riesce
a  creare un trattamento dell'imputato rispetto agli interessi civili
immotivatamente  differenziato  e  discriminatorio  in  confronto del
trattamento  della  parte  civile.  E' il caso in cui il reato non e'
edittalmente  punito  con  la  sola pena pecuniaria ma e edittalmente
punito  con pena pecuniaria nell'ipotesi base e con la pena detentiva
nelle ipotesi aggravate.
    In  tali  casi, in relazione al medesimo reato, se la sentenza e'
di condanna con applicazione della sola pena pecuniaria, essa risulta
inappellabile  per gli interessi civili sia per l'imputato che per la
parte civile e per le altre parti eventuali, mentre se la sentenza e'
di  proscioglimento  o  di non luogo a procedere, essa e' appellabile
dalla  parte civile nel caso in cui all'imputato sia stata contestata
un'ipotesi aggravata del reato punita con la pena detentiva.
    Questa  disparita'  di  trattamento  si pone anche tra imputato e
pubblico  ministero  ai  fini  dell'impugnabilita'  delle statuizioni
penali,  ma  questa  disparita'  di  trattamento  non  e direttamente
denunciata, ed e' una manchevolezza, con questa ordinanza.
    A   cio'   potra',   eventualmente,   porre   riparo   la   Corte
costituzionale estendendo la sua pronuncia per consequenzialita'.
    Proprio,  quindi,  nei  casi  dei  reati, come quello di minaccia
attribuito  all'Erbacci,  per i quali la pena puo' essere in concreto
quella  solo  pecuniaria  non  per effetto di una previsione edittale
alternativa  ma  per  effetto  del  giudizio  di  valenza tra opposte
circostanze,  giacche'  la  pena  edittale  e'  solo  pecuniaria  per
l'ipotesi  base  e solo detentiva per le ipotesi aggravate, a parita'
di  reato  la  sentenza  e'  inappellabile,  ove  sia di condanna, ed
appellabile per la parte civile agli effetti civili, oltre che per il
pubblico  ministero agli effetti penali, ove sia di proscioglimento o
di non luogo a procedere.
    In  questi  casi,  infatti,  mancando la condanna, manca anche la
pena  in  concreto,  cui fare riferimento, ed il reato, se contestato
secondo l'ipotesi aggravata, non fa parte ne' di quelli puniti con la
sola  pena  pecuniaria ne' di quelli puniti con pena alternativa, cui
fa  riferimento  la  seconda  parte del terzo comma dell'art. 593 per
stabilire  quali siano le sentenze inappellabili di proscioglimento o
di non luogo a procedere.
    Inoltre,  seppure in un ambito piu' ristretto che per il pubblico
ministero  e per la parte civile, le sentenze di proscioglimento e di
non  luogo  a procedere risultano appellabili anche dall'imputato, se
relative  a  reati  puniti  con  pena  solo  detentiva  nelle ipotesi
aggravate.
    Oltre  che  per questioni, quando consentite, di formula relativa
al  reato,  l'imputato potra' appellare la sentenza per gli interessi
civili,  ad esempio nel caso che non abbiano trovato accoglimento sue
domande  per  il  risarcimento  del danno e per la rifusione di spese
processuali.
    Quanto  detto  fa rilevare che l'originario testo del terzo comma
dell'art. 593  c.p.p.,  riguardante solo le contravvenzioni, oltre ad
avere  un piu' limitato ambito di applicabilita' per la piu' limitata
categoria  di  reati,  cui  si  riferiva,  in  concreto  creava  poco
probabili  prospettive  di  un  regime  complesso delle impugnazioni,
quale  deriva,  invece,  secondo  cio'  che  si  e'  mostrato,  dalla
formulazione dello stesso comma, come novellata nel 1999.
    C'e'  da chiedersi se in occasione della modifica legislativa del
1999  vi sia stata consapevolezza che la norma avrebbe riguardato non
solo  i  reati  edittalmente puniti con la sola pena pecuniaria o con
quella  alternativa, espressamente considerati dalla norma stessa, ma
anche  la categoria dei reati, nella quale rientrano forse sporadiche
fattispecie    contravvenzionali   ma   sicuramente   non   marginali
fattispecie  di  delitti, nelle quali l'ipotesi base e' punita con la
sola  pena  pecuniaria  e  le  ipotesi  aggravate  con  la  sola pena
detentiva.
    Ad  ogni  modo, certo e' che la sentenza contro l'Erbacci rientra
fra quelle che, a parita' di fattispecie di reato, risultano:
        appellabili   da  tutte  le  parti  se  di  condanna  a  pena
detentiva,
        inappellabili  per  tutte  le  parti,  se  di condanna a pena
pecuniaria,
        appellabili  dal  pubblico ministero e dalla parte civile, se
di proscioglimento o di non luogo a procedere,
        appellabili  dall'imputato,  se  di  proscioglimento o di non
luogo  a procedere, ai fini della formula, quando consentito, ed agli
effetti  civili  in  caso  di  rigetto  o di parziale accoglimento di
domande  dell'imputato  stesso  relative  al risarcimento del danno o
alla rifusione di spese del giudizio.
    Questo  schema,  consentirebbe  anche  altre  osservazioni, sulle
quali  non  ci  si  trattiene,  perche'  ormai  si  e' nell'evidenza,
riguardo  alla  irrazionale  casualita'  del complessivo regime delle
impugnazioni  creato  dal  terzo comma dell'art. 593 c.p.p., in se' e
nel coordinamento con altri articoli, come il 574, il 575 e il 576.
    L'esame   dello   schema   mostra,  comunque,  la  disparita'  di
trattamento che discrimina immotivatamente l'imputato soccombente con
un  trattamento  deteriore  rispetto alla parte civile soccombente e,
paradossalmente, rispetto a se stesso ove non soccombente rispetto al
giudizio penale ma soccombente rispetto a sue pretese civilistiche.
    Risulta  evidente,  infatti,  che  le  diverse parti della stessa
controversia  civile, inserita nel processo penale, hanno prospettive
diversificate di tutela giurisdizionale in caso di soccombenza.
    L'imputato,  in  caso  di  accoglimento delle domande della parte
civile,  non  potra'  proporre  appello  neppure per i soli interessi
civili  e si vedra', quindi, precluse tutte le possibili doglianze di
merito  relative  alla  sentenza  di primo grado per il solo fattore,
occasionale  ed  irrilevante  rispetto  alla  controversia civile, di
essere stato condannato alla sola pena pecuniaria.
    La  parte  civile potra' invece appellare la sentenza, in caso di
proscioglimento   dell'imputato   o  di  pronuncia  di  non  luogo  a
procedere, in relazione al fattore, anch'esso del tutto estrinseco ed
irrilevante  rispetto  alla controversia civile, costituito dal fatto
che  all'imputato sia stata contestata un'ipotesi aggravata di reato,
edittalmente punita con la reclusione.
    Si  tenga  presente  che l'appello della sola parte civile lascia
intatto il giudicato assolutorio penale e che l'aggravante del reato,
originariamente  contestata,  e' irrilevante rispetto alla riproposta
pretesa risarcitoria.
    E', cosi', individuata una disparita' di trattamento tra la parte
civile e l'imputato, discriminatoria per questo, che non puo', almeno
con  riferimento  a  sentenze  relative  a  reati  puniti con la pena
pecuniaria  nell'ipotesi  base  e  con  la  reclusione  nelle ipotesi
aggravate, proporre appello, ove sia stato condannato alla pena della
multa,  neppure  al  solo  fine  civilistico  di essere assolto dalla
domanda  di  risarcimento  del  danno  o di rifusione delle spese del
giudizio.
    E'  appena  il caso di precisare che puo' avvenire che l'imputato
faccia  acquiescenza  alla  condanna  penale  e  proponga  ugualmente
impugnazione  avverso  la  sentenza solo per gli interessi civili, ad
esempio  sostenendo,  cosa  che  non  interferisce con le statuizioni
penali,  che  chi  si  e' costituito parte civile non ha subito alcun
danno  o  che  il  risarcimento  era  avvenuto  prima del giudizio, o
sostenendo  che  alla  parte  civile  e'  stato liquidato il danno in
misura eccessiva o che eccessiva e' stata la provvisionale assegnata.
    La  parte civile puo', invece, proporre appello per gli interessi
civili avverso le sentenze relative alla predetta categoria di reati,
ove  il reato sia stato contestato secondo la fattispecie aggravata e
le  sentenze  stesse  abbiano  prosciolto l'imputato o dichiarato non
luogo a procedere nei suoi confronti.
    La  disparita'  di  trattamento  e'  ancorata  solo  al  rilevato
elemento  del  tipo di pena inflitta, che ove pure fosse idoneo, cosa
dalla quale si dissente per motivi gia' espressi, a fondare un regime
differenziato  di  impugnabilita'  delle  statuizioni  penali,  resta
assolutamente  occasionale ed estrinseco e percio' inidoneo a fondare
un  razionale  trattamento  differenziato  della impugnabilita' delle
statuizioni civili della sentenza.
    E'   questa  una  prima  e  piu'  limitata  configurazione  della
questione  di  incostituzionalita',  che  questa  corte  ritiene  non
manifestamente  infondata,  del  combinato  disposto  del terzo comma
dell'art. 574 e del terzo comma dell'art. 593 c.p.p. per contrarieta'
con  l'art. 3  della  Costituzione e del principio di ragionevolezza,
che esso esprime.
    L'ipotesi,   prima  configurata  astrattamente  e  sospettata  di
incostituzionalita',   corrisponde   al   caso  concreto  riguardante
l'Erbacci,  la  cui impugnazione, proposta come appello, risulta come
tale  inammissibile,  mentre risulterebbe ammissibile ove la facolta'
di  impugnazione  dell'imputato  fosse  resa  omogenea,  a seguito di
pronuncia della Corte costituzionale, con la facolta' di impugnazione
riconosciuta dalla legge alla parte civile.
    Secondo  la  normativa  attuale  questa  corte  dovrebbe ritenere
inammissibile   l'appello  e  trasmettere  gli  atti  alla  Corte  di
cassazione,  in  relazione  alla  proponibilita'  avverso la sentenza
impugnata solo del ricorso.
    A   seguito   di   una   pronuncia   della  Corte  costituzionale
dichiarativa  della  denunciata  incostituzionalita',  l'impugnazione
proposta  dall'Erbacci risulterebbe ammissibile come appello e questa
corte dovrebbe trattarla.
    Con  cio'  resta affermativamente verificato che questa corte non
puo'  definire  il  giudizio sull'impugnazione proposta dall'Erbacci,
del  quale  e'  investita,  indipendentemente dalla risoluzione della
questione di legittimita' costituzionale .
    Nella    configurazione,   prima   esposta,   la   questione   di
costituzionalita'  si  riferisce solo al trattamento differenziato ed
immotivatamente  deteriore,  rispetto  a  quello  della parte civile,
riservato   all'imputato   agli   effetti  dell'appellabilita'  delle
sentenze  relative  a  reati puniti con la sola pena pecuniaria nella
fattispecie   base  e  con  la  sola  pena  detentiva  nelle  ipotesi
aggravate.
    In  questa  configurazione  si  ha  una  disparita' irrazionale e
discriminatoria  del  tutto  uguale  a  quella che si avrebbe ove nel
processo civile si consentisse all'attore soccombente l'appello ed al
convenuto soccombente solo il ricorso per cassazione .
    Questa  corte ritiene, pero', che il combinato disposto del terzo
comma  dell'art. 574 e del terzo comma dell'art. 593 sia sospettabile
di  incostituzionalita'  nella  sua  intera  portata,  cioe' non solo
perche'  in  relazione a particolari ipotesi di reato differenzia tra
la parte civile e l'imputato il regime delle impugnazioni proponibili
per  i  soli interessi civili ma anche perche' senza un fondamento di
razionalita'  non consente di proporre appello avverso certe sentenze
anche  per  i  soli  interessi civili ne' all'imputato ne' alla parte
civile.
    Al  riguardo  bisogna  richiamare  cio'  che si e' detto circa il
fatto  che il disposto relativo all'esclusione dell'appellabilita' di
certe  sentenze  nei  capi  relativi  agli interessi civili, disposto
eccezionale  rispetto a quanto di regola e' previsto sia nel processo
civile  che  nel  processo  penale, individua quelle sentenze solo in
base  ad  un  elemento  del tutto irrilevante ed estrinseco, rispetto
alla  controversia civile, un elemento che non riguarda ne' la natura
del fatto dannoso ne' l'entita' del danno prodotto.
    Infatti,  le  sentenze  risultano inappellabili per gli interessi
civili  in  relazione  al  tipo  di  pena in concreto inflitta per il
reato,  se  di  condanna,  e,  se di proscioglimento e di non luogo a
procedere,  in  relazione  alla  previsione  edittale,  per  il reato
contestato, della sola pena pecuniaria o di pena alternativa.
    Si   e'   visto   che   secondo  il  regime  in  esame  risultano
inappellabili  sentenze,  che alle parti risultano gravosissime o per
il   debito,   che   creano,  o  per  la  pretesa  risarcitoria,  che
disattendono,  e  cio'  mentre  sono  appellabili  per  gli interessi
civili,  solo perche' nella parte penale relative a reati in concreto
puniti  o  astrattamente  punibili  con  pena  detentiva, sentenze di
uguale o di molto minore rilievo patrimoniale.
    La  stessa  controversia,  fra  le  stesse  parti e con lo stesso
oggetto,  ha  la  prospettiva di due gradi di giudizio di merito e di
uno di legittimita', se trattata in sede civile.
    La  stessa  controversia,  fra  le  stesse  parti e con lo stesso
oggetto,  ha di regola la prospettiva di due gradi di merito e di una
di legittimita' anche se inserita nel processo penale.
    Ma  quella  stessa  controversia,  fra  le  stesse parti e con lo
stesso oggetto, ha la diversa prospettiva di un solo grado di merito,
oltre  al grado di legittimita', se inserita nel processo penale, nel
caso  in  cui il primo grado di questo si concluda con l'applicazione
della pena pecuniaria, invece che della possibile pena detentiva.
    La  previsione  normativa,  gia'  discriminatoria  nei  confronti
dell'imputato, lo e' ancora di piu' nei confronti della parte civile,
che  puo' proporre l'appello, ove siano state rigettate in tutto o in
parte  le  sue  domandedi risarcimento o di rifusione delle spese del
giudizio,   se   la  sentenza  di  primo  grado  e'  di  condanna  ed
haapplicato,  tra  le pene astrattamente possibili, quella detentiva,
mentre  non  puo'  proporre  appello  se  la  decisione  penale e' di
proscioglimento  o  di  non  luogo a procedere e la pena edittalmente
prevista per il reato siaalternativa.
    Questa  situazione  si  ribalta nel caso, in rapporto al quale e'
stata  elaborata  la  prima  e  piu'  restrittiva  configurazione  di
illegittimita' costituzionale della normativa, in cui la sentenza sia
di  proscioglimento o di non luogo a procedere ed il reato contestato
sia  un'ipotesi  aggravata,  punita con la sola pena detentiva, di un
reato punito con la sola pena pecuniaria nell'ipotesi base.
    L'analisi  svolta,  nel corso della quale non e' riuscito evitare
fastidiose  ripetizioni,  e' anche intesa a fare emergere con qualche
chiarezza  la molteplicita' delle implicazioni del combinato disposto
in  esame  e  delle  irragionevoli disparita' di trattamento che esso
crea.
    Cio'  si  ritiene  che  serva  non  solo  a  meglio  definire  le
specifiche  questioni  di  legittimita'  costituzionale,  che vengono
sollevate, ma anche a fornire lo spunto per eventuali declaratorie di
incostituzionalita'   che  la  Corte  ritenesse  di  pronunciare  per
rapporto di consequenzialita'.
    In    effetti,    pare    che    l'eventuale    declaratoria   di
incostituzionalita'  di  una  parte  del  combinato disposto in esame
implichi l'estensione a varie altre parti di esso.
    Prima  di  concludere,  pare  opportuna un'ultima considerazione,
intesa a rilevare un ulteriore aspetto della irragionevole disparita'
di trattamento, deteriore per l'imputato.
    Mentre  per  il  danneggiato  dal  reato  l'esercizio dell'azione
civile  nel processo penale e' oggetto di scelta, l'imputato, preteso
danneggiante, non puo' che subire la scelta della parte civile.
    Questa  puo'  scegliere  la  sede  penale  proprio  perche' vuole
precludere  alla  controparte  la  possibilita'  dell'appello,  o che
faccia  certe  previsioni circa l'esito del giudizio di primo grado o
che comunque abbia, anche senza motivo, quella preferenza.
    La  parte  civile avra', quindi, un processo con un solo grado di
merito solo se lo sceglie, l'imputato avra' un processo in materia di
interessi  civili con un solo grado di merito perche' la parte civile
glielo impone.
    Sono  molteplici,  quindi,  gli  elementi  di  contrarieta' delle
disparita'   di   trattamento,   derivanti   dal  combinato  disposto
esaminato,  al  principio di ragionevolezza sancito dall'art. 3 della
Costituzione.
    Anche  nella  seconda e piu' ampia configurazione la questione di
legittimita'  costituzionale  sollevata  e' pregiudiziale rispetto ad
ogni   ulteriore   decisione   relativa   all'impugnazione   proposta
dall'Erbacci,  perche'  gli  effetti  della  eventuale  pronuncia  di
incostituzionalita'   sarebbero   gli   stessi   gia'  in  precedenza
precisati.
    Per   completezza   si   puo'   aggiungere  che  l'ammissibilita'
dell'appello   per   gli  interessi  civili  comporterebbe,  a  norma
dell'art. 580   c.p.p.,   che   anche   la   parte  dell'impugnazione
dell'Erbacci,  relativa  al  capo  penale  della  sentenza,  andrebbe
trattata in sede di appello.
    Sono  noti  i lavori parlamentari in corso, concretatisi anche in
una  recente  votazione  approvativa  del  Senato,  per  una modifica
legislativa  con  effetti comprendenti quelli che deriverebbero dalla
pronuncia  di  incostituzionalita',  che  questa  ordinanza  potrebbe
provocare.
    Pare  che  anche  nel caso in cui la modifica legislativa venisse
approvata,  per  la  mancanza di una retroattivita' capace di rendere
ammissibile  come appello l'impugnazione dell'Erbacci, l'intesse alla
decisione della questione sollevata permarrebbe.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale del combinato disposto degli articoli 574
e   593,  terzo  comma,  c.p.p.  nella  parte  in  cui  non  consente
all'imputato  di  proporre  appello  nemmeno per gli interessi civili
avverso la sentenza di condanna relativa a reati per i quali e' stata
applicata  la  sola  pena  pecuniaria  e cio' in relazione all'art. 3
della Costituzione;
    Sospende  il  procedimento penale in corso e dispone trasmettersi
gli atti alla Corte costituzionale;
    Ordina  che  a  cura  della cancelleria la presente ordinanza sia
notificata  al  Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai
presidenti delle due Camere del Parlamento.
      Bologna, addi' 9 gennaio 2000
                        Il Presidente: Romeo
                Il consigliere estensore: Terranova
01C10348