N. 390 ORDINANZA (Atto di promovimento) 14 febbraio 2003
Ordinanza emessa il 14 febbraio 2003 dal tribunale di Lodi nel procedimento civile vertente tra Bernardelli Cinzia ed altri e Bernardelli Anna ed altri Procedimento civile - Intervento volontario del terzo - Intervento principale o litisconsortile successivo alla scadenza dei termini per le deduzioni istruttorie di cui all'art. 184 cod. proc. civ. - Poteri delle parti originarie rispetto alla nuova domanda formulata con l'atto di intervento - Facolta' di depositare documenti e indicare nuovi mezzi di prova - Mancata previsione - Violazione del diritto di agire in giudizio, comprensivo del diritto alla prova - Contrasto con il principio secondo cui «il processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parita» - Irragionevolezza. - Codice di procedura civile, art. 268, comma secondo. - Costituzione, artt. 3, 24 e 111. Procedimento civile - Intervento volontario del terzo - Intervento principale o litisconsortile - Potere-dovere del giudice di fissare (nel rispetto dei termini per comparire, di cui all'art. 163-bis cod. proc. civ.) una nuova udienza, almeno venti giorni prima della quale le parti originarie potranno depositare memorie, nonche' di disporre che ad esse sia notificato il provvedimento di fissazione - Mancata previsione - Alterazione della parita' delle parti nel processo - Sostanziale attribuzione al terzo di un «vantaggio processuale» - Lesione del diritto di azione e difesa delle parti originarie - Richiamo alla sentenza n. 193/1983 della Corte costituzionale. - Codice di procedura civile, art. 268. - Costituzione, artt. 3, 24 e 111. In subordine: Procedimento civile - Intervento volontario del terzo - Intervento principale o litisconsortile - Fissazione da parte del giudice istruttore (ferme per le parti le preclusioni ricollegate alla prima udienza di trattazione) del termine eventuale di cui all'art. 183, ultimo comma, cod. proc. civ. nella udienza di comparizione del terzo, e decorrenza dei termini di cui all'art. 184 cod. proc. civ. con riferimento alla udienza successiva a quella di comparizione - Mancata previsione - Diversita' di disciplina rispetto all'ipotesi di chiamata in causa del terzo chiesta al giudice dall'attore a seguito delle difese svolte dal convenuto (art. 269, comma quinto, cod. proc. civ.) - Violazione del diritto di difesa delle parti originarie del processo. - Codice di procedura civile, art. 268. - Costituzione, artt. 3, 24 e 111.(GU n.26 del 2-7-2003 )
IL TRIBUNALE Nel procedimento N.R.G. 603/2000 promosso da: Bernardelli Cinzia, Bernardelli Carlo e Bernardelli Giuseppe, rappresentati e difesi dagli avv. Giuseppe Gueli e Piero Barcellesi - attori; Contro: Bernardelli Anna, Barbiano Di Belgiojoso Carlo, Barbiano Di Belgiojoso Pio in proprio e quale procuratore di Barbiano Di Belgiojoso Agnese, Barbiano Di Belgiojoso Maria, Barbiano Di Belgiojoso Guido, Barbiano Di Belgiojoso Teresa, rappresentati e difesi dagli avv.ti Luigi Garbagnati e Andrea Maisano - convenuti; Con l'intervento di Telli Giovanni Carlo, rappresentato e difeso dagli avv.ti Giacinto Marchesi e Valter Spagliardi - interveniente; Letti gli atti e i documenti di causa ha pronunciato la seguente ordinanza. Bernardelli Cinzia, Bernardelli Carlo e Bernardelli Giuseppe, con atto di citazione notificato in data 28 aprile 2000 convenivano in giudizio Bernardelli Anna, Barbiano Di Belgiojoso Carlo, Barbiano Di Belgiojoso Pio, Barbiano Di Belgiojoso Agnese, Barbiano Di Belgiojoso Maria, Barbiano Di Belgiojoso Guido e Barbiano Di Belgiojoso Teresa, chiedendo di accertare nei loro confronti l'acquisto in parti uguali per usucapione ultraventennale della proprieta' del fabbricato con corti annesse sito nel comune di San Fiorano identificato catastalmente al foglio 4 mappale 6, partita NCEU n. 4 del comune di San Fiorano. A fondamento della domanda gli attori deducevano che la famiglia Bernardelli, di cui loro sono gli ultimi esponenti, conduce sin dal 1912 l'azienda agricola Corradina e che all'interno dell'azienda e' posto il fabbricato che si pretende usucapito non compreso tra quelli oggetto del contratto di affitto ma ugualmente posseduto dagli stessi e prima dai loro genitori almeno dal 1969 con «animo di proprietari». Si costituivano in giudizio i convenuti i quali chiedevano il rigetto della domanda eccependo che il bene oggetto del giudizio era stato posseduto dagli attori e prima dai loro genitori in virtu' di contratto di affitto del 29 giugno 1969. Alla prima udienza di trattazione i procuratori delle parti chiedevano la concessione dei termini di cui all'art. 184 c.p.c. Con ordinanza del 3 aprile 2001 il g.i. dott. Conti ammetteva la prova richiesta dagli attori per interrogatorio formale dei convenuti e testimoni e rinviava la causa per gli interrogatori formali all'udienza successiva del 3 ottobre 2001. Con comparsa di intervento volontario depositata in cancelleria il 18 luglio 2001 interveniva in giudizio Carlo Giovanni Telli chiedendo di accertare, previo rigetto della domandata usucapione, che il fabbricato oggetto del giudizio e' di sua esclusiva proprieta' per averlo acquistato dai convenuti Barbiano Di Belgiojoso con atto del notaio Squitani di Lodi. A sostegno della domanda Telli depositava in cancelleria n. 21 documenti tra cui il contratto di compravendita immobiliare del 21 dicembre 1993, le mappe a colori facenti parte dei contratti di affitto rispettivamente del 29 giugno 1969 e del 2 gennaio 1984, la dichiarazione di successione di Paolo Barbiano Di Belgiojoso. All'udienza del 3 ottobre 2002 non era presente nessuno dei convenuti e i procuratori degli attori, con riferimento all'intervento di Telli, chiedevano lo stralcio dei documenti dallo stesso prodotti in epoca successiva al termine concesso alle parti originarie del giudizio per articolare mezzi di prova e depositare documenti; chiedevano altresi' di deferire interrogatorio formale anche a Telli (inizialmente indicato come testimone) e di ammettere un ulteriore capitolo di prova dedotto a verbale; depositavano altresi' lettera del 27 dicembre 1993 loro indirizzata da Telli. Il g.i. dott. Conti assegnava alle parti un termine «per articolare definitivamente ogni deduzione, istanza o richiesta sino al 20 dicembre 2001 e per repliche fino al 20 gennaio 2002, salva e impregiudicata ogni valutazione in ordine alla tempestivita' e ritualita' delle istanze formulate e formulande». Unitamente alle memorie gli attori depositavano una lettera del 31 gennaio 1994 spedita dell'avv. Garbagnati all'avv. Gueli mentre i convenuti n. 4 documenti tra cui una lettera del 28 dicembre 1993 spedita dall'avv. Gueli ai signori Belgiojoso e Telli. Successivamente la causa era assegnata al sottoscritto, che, ritenuta la stessa matura per la decisione, rinviava per la precisazione delle conclusioni. Alla successiva udienza del 19 luglio 2002 gli attori chiedevano di produrre ulteriore documentazione. Il giudice ritenuta tardiva la produzione invitava i procuratori delle parti a precisare le conclusioni e tratteneva la causa in decisione. Il presente giudizio si e' sviluppato in maniera lineare fino all'intervento in causa di Telli Carlo Giovanni che con la sua domanda e con i documenti prodotti ha determinato nelle parti originarie del processo l'esigenza di replicare, eccepire, dedurre nuovi fatti e articolare nuovi mezzi di prova e depositare nuovi documenti. L'intervento in causa di Telli comporta per il giudice la risoluzione di alcuni problemi interpretativi e la valutazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 268 c.p.c. per violazione degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione. La formulazione dell'art. 268 c.p.c., in relazione agli artt. 163, 183 e 184 c.p.c. sembra, infatti, limitare eccessivamente sia l'esercizio delle facolta' probatorie del terzo, sia la necessaria attivita' difensiva delle parti originarie del processo (sotto il profilo della facolta' di eccepire, allegare nuovi fatti e provare) nei cui confronti il terzo propone una domanda. A) L'istituto dell'intervento volontario nel processo - disciplinato nei presupposti dall'art. 105 c.p.c. e nei modi e negli effetti rispettivamente dagli artt. 267 e 268 c.p.c. - provoca, difatti, in relazione al regime delle preclusioni introdotte con la legge n. 353 del 1990, problemi interpretativi particolarmente significativi nei casi di intervento c.d. principale e di intervento c.d. litisconsortile o adesivo autonomo. Sia in caso di intervento principale che litisconsortile, invero, il terzo introduce nel processo una domanda nuova che non ha formato oggetto, fino a quel momento, del processo instaurato dalle parti originarie. Nel primo caso, quindi, il terzo fa valere un proprio diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto in giudizio nei confronti di entrambe le parti originarie mentre nel secondo caso il diritto che sostiene l'intervento e' azionato nei confronti di taluna soltanto di esse. Il problema che l'attuale giudizio presenta, quindi, e' costituito dalla valutazione dei poteri che devono essere riconosciuti al terzo intervenuto e, di conseguenza, dei poteri che devono essere riconosciuti alle altre parti, considerato che l'intervento (principale) in causa e' stato effettuato dopo lo spirare del termine, concesso alle originarie parti del processo, per articolare i mezzi di prova e depositare documenti. L'art. 268 c.p.c., infatti, pur consentendo l'intervento del terzo fino al momento della precisazione delle conclusioni, dispone che «il terzo non puo' compiere atti che al momento dell'intervento non sono piu' consentiti ad alcuna altra parte». Bisogna stabilire, quindi, quali sono i poteri che l'ordinamento attribuisce all'interveniente - principale o litisconsortile - che innova il thema decidendum in relazione al momento in cui l'intervento e' compiuto e di coordinare, pertanto, il principio dell'accettazione della lite in statu et terminis con le preclusioni processuali dei novellati artt. 167, 183 e 184 c.p.c. Il primo problema, tuttavia, che deve essere risolto e' quello dell'ammissibilita' dell'intervento principale o litisconsortile dopo il termine di costituzione del convenuto. Una prima opzione interpretativa - sostenuta da parte della dottrina e della giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Monza 12 settembre 1998, est. Lapertosa; Trib. Milano 29 ottobre 1998, est. Spera), in applicazione del principio dell'accettazione della lite in statu et terminis, include nelle attivita' soggette a preclusioni lo stesso potere di proporre domanda giudiziale nei confronti delle parti originarie. Il terzo che intervenisse dopo il termine fissato per la costituzione del convenuto (come nel caso sottoposto al presente giudizio) non potrebbe piu', secondo tale interpretazione, proporre neppure la domanda di intervento, in ragione del fatto che le parti originarie sarebbero gia' decadute dal potere di introdurre in giudizio un diritto nuovo. Poiche', quindi, intervenire in via principale o litisconsortile significa proporre una domanda nuova nei confronti di tutte o di alcune soltanto delle parti originarie, il nuovo assetto preclusivo impedirebbe addirittura l'intervento volontario una volta decorso il termine per la costituzione del convenuto a norma dell'art. 166 c.p.c., ultimo momento utile per le parti, o meglio per il convenuto, per proporre domande nuove. Il terzo, dunque potrebbe - secondo il citato orientamento - nelle ipotesi menzionate esperire unicamente un intervento adesivo dipendente cio' per il motivo che un intervento tardivo senza la possibilita' di far valere il proprio diritto non avrebbe senso. In sostanza, cio' che non e' piu' consentito compiere alle parti originarie al tempo dell'intervento sarebbe non consentito all'interveniente, nonostante l'articolo 268 c.p.c. preveda espressamente che l'intervento possa avvenire fino all'udienza di precisazione delle conclusioni. Ebbene, tale opzione interpretativa appare poco condivisibile poiche', in contrasto con una chiara disposizione normativa, conduce alla sostanziale abrogazione dell'istituto dell'intervento nel processo civile. In realta' il termine di cui all'art. 166 c.p.c. e' un termine perentorio che si riferisce esclusivamente al convenuto rispetto alla domanda formulata in atto di citazione e non puo' essere arbitrariamente esteso - per via interpretativa ed in contrasto con il dato normativo - ad un terzo che propone nel processo una domanda nuova nei confronti di una o di entrambe le parti originarie. E' facile rilevare che la volonta' del legislatore con la riforma del 1990 non e' stata quella di limitare il diritto di intervento ad un momento anteriore a quello della precisazione delle conclusioni poiche' se questa fosse stata la voluntas legis, sarebbe stata espressa in maniera chiara conformemente a quanto previsto dall'art. 419 c.p.c. che fa coincidere il termine per l'intervento volontario con il termine fissato per la costituzione del convenuto. Non puo' superarsi, inoltre, il dato che il legislatore e' intervenuto modificando il testo dell'art. 268 c.p.c. proprio con la legge n. 353/1990 che ha introdotto il menzionato regime delle preclusioni e, quindi, se avesse voluto introdurre un termine diverso da quello originario della rimessione della causa al collegio, lo avrebbe potuto fare espressamente. Invece, il legislatore ha semplicemente modificato l'articolo in esame indicando il termine per l'intervento in quello fissato per la precisazione delle conclusioni. A questo dato, che gia' di per se' appare assorbente, si deve aggiungere che l'art. 268 c.p.c e' stato modificato anche nel secondo comma. La disposizione normativa infatti disponeva: «Se l'intervento ha luogo dopo la prima udienza il terzo non puo' compiere atti che non sono piu' consentiti alle altre parti». L'eliminazione dell'inciso «se l'intervento ha luogo dopo la prima udienza» esclude proprio cio' che i fautori della tesi non condivisa vorrebbero affermare e cioe' che l'intervento non e' piu' ammissibile dopo la prima udienza, anzi prima ancora; dopo il decorso dei venti giorni antecedenti all'udienza di prima comparizione. Sarebbe stato facile modificare questa parte della norma sostituendo alle parole «dopo la prima udienza» quelle «dopo il termine per la costituzione del convenuto» oppure «dopo il termine indicato all'art. 166 c.p.c.». Le considerazioni che precedono inducono a ritenere ammissibile l'intervento principale e litisconsortile del terzo fino al momento della precisazione delle conclusioni in conformita' all'insuperabile dato normativo. Non ha, infatti, alcun senso ammettere l'intervento fino al momento della precisazione delle conclusioni e contestualmente escludere il potere di far valere il diritto; la lettura piu' rigorosa della norma non e', quindi, condivisibile perche' (dopo il termine di costituzione del convenuto) se giudica ammissibile l'intervento considera inammissibile la domanda formulata dall'interveniente. Da quanto detto discende che, nell'ammettere l'intervento principale o litisconsortile fino al momento della precisazione delle conclusioni, l'art. 268 c.p.c. ammette che, fino a tale momento, e' possibile fare valere in confronto di taluna delle parti o di ciascuna di esse un proprio diritto relativo all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo. In altri termini, l'introduzione nel processo di una domanda giudiziale da parte del terzo interverveniente ed in genere lo svolgimento della necessaria attivita' assertiva debbono ritenersi ammissibili, in quanto tale domanda e tale attivita' costituiscono l'essenza stessa dell'intervento principale e litisconsortile. Questa e' la soluzione prescelta dalla piu' recente giurisprudenza della Corte di cassazione che con sentenza 14 maggio 1999, n. 4771 ha chiarito che «ammesso ogni tipo di intervento lungo l'intero sviluppo della trattazione istruttoria («... finche' la causa non sia rimessa dal giudice istruttore al collegio»: art. 268, primo comma, ante riforma), con cio' stesso e' riconosciuta - entro quel limite - la estensibilita' della materia del processo alla pretesa del terzo interveniente (e se, al contrario, si negasse la proponibilita' della domanda oltre la prima udienza, ne risulterebbe precluso l'intervento stesso oltre quel termine in contrasto con il disposto del primo comma dell'art. 268 c.p.c.)». Ammessa, quindi, la possibilita' per il terzo di proporre anche l'intervento principale e litisconsortile, oltre a quello adesivo dipendente, fino al momento della precisazione delle conclusioni bisogna stabilire quale attivita' sia consentita al terzo e quali siano i poteri riconosciuti alle altre parti per reagire alla domanda proposta nei loro confronti. L'esame delle facolta' probatorie riconosciute al terzo ed i poteri di reazione delle parti originarie del processo introducono, tuttavia, altrettanti problemi di costituzionalita' che sembra opportuno rimettere all'esame della Corte costituzionale. Sara' esaminato prima il profilo inerente ai poteri probatori del terzo (e delle altre parti) - sia per continuita' nell'esame dell'art. 268 c.p.c. sia perche' la possibilita' di articolare nuovi mezzi di prova o depositare documenti ha costituito l'unico motivo di confronto, sul piano processuale, tra le parti - e di seguito l'ulteriore profilo della limitazione del diritto di difesa delle parti originarie del processo rispetto alla domanda proposta nei loro confronti dal terzo. B) L'art. 268 c.p.c. stabilendo che «il terzo non puo' compiere atti che al momento dell'intervento non sono piu' consentiti ad alcuna parte», limita, evidentemente, le facolta' probatorie del terzo a quelle ancora consentite alle altre parti. In un caso come quello in esame in cui il terzo e' intervenuto dopo il termine concesso alle parti per articolare mezzi di prova e depositare documenti si deve concludere che il terzo non abbia piu' tale possibilita'. Tale soluzione e' stata propugnata dalla Corte di cassazione nella citata sentenza n. 4771/1999 dove si legge: «E percio' i soggetti che intervengono con la legittimazione di cui all'art. 105 c.p.c. debbono accettare il processo nello stato in cui si trova, operando anche nei loro confronti le preclusioni connesse funzionalmente alle fasi di sviluppo del procedimento. Cio', appunto, significa il disposto dell'art. 268 c.p.c. che ammette l'intervento volontario («a norma dell'art. 105 c.p.c.»: art. 267 c.p.c.) «finche' la causa non sia rimessa dal giudice istruttore al collegio» (primo comma, rimasto sostanzialmente inalterato con la riforma del 1990 che pone il medesimo limite con la espressione: «... sino a che non vengano precisate le conclusioni») e preclude al terzo intervenuto quella attivita' istruttoria, preliminare e probatoria, che la fase in ipotesi avanzata del procedimento non consenta «alle altre parti» (secondo comma)». Tale soluzione e' stata giustificata considerando che se l'ampliamento - sotto il profilo soggettivo - del processo e' giustificato dalla esigenza di economia dei giudizi, volendosi assecondare l'esaurimento contestuale delle controversie connesse in ragione dei medesimi oggetto o titolo dei contrapposti diritti e ridurre cosi' il rischio della contraddittorieta' dei giudicati, questa esigenza non puo', tuttavia, «entrare in conflitto con quella di economia interna al processo tra le parti originarie, dovendo trovare tutela l'interesse di esse a una sollecita decisione». In definitiva la Corte di cassazione 4771/1999 ammette, come detto, l'intervento del terzo fino al momento della precisazione delle conclusioni, ammette la possibilita' per il terzo di proporre domande nuove ma gli nega la possibilita' di provare i fatti che sono a fondamento di tali domande. La soluzione e' inaccettabile poiche', pur fondata sull'insopprimibile dato normativo viola, a parere del sottoscritto giudice, il precetto costituzionale dell'art. 24, che consente il diritto di agire in giudizio provando ed il precetto dell'art. 111 che afferma che il «processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita». Tale aspetto assume rilevanza nel presente giudizio in quanto il terzo intervenuto, a sostegno della sua domanda, ha depositato diversi documenti, tra cui il contratto di compravendita immobiliare, e tali documenti giustificano anche la propria legittimazione al giudizio. Non poterne tenere conto potrebbe comportare il rigetto della domanda del terzo. Anche l'attivita' di produzione documentale, a seguito del nuovo sistema introdotto dalla novella 26 novembre 1990, n. 353, e', infatti, assoggettato ad un regime preclusivo che si realizza in via definitiva in coincidenza con la formazione della barriera decadenziale riconducibile in generale alla proposizione delle deduzioni istruttorie che trova il suo riferimento, nell'ambito dello svolgimento dell'articolazione delle distinte fasi processuali, nella disciplina dell'innovato art. 184 c.p.c. (cfr. Cass. 4 marzo 1998, n. 2399; Trib. Brindisi, ord. 25 maggio 1997 e Pret. Firenze, ord. 18 maggio 1998 in Foro It., 1998, I, p. 2585). Tale soluzione risponde proprio alla finalita' di uno svolgimento ordinato del processo, caratterizzato da uno sviluppo per fasi successive logicamente concatenate e scandite secondo una severa disciplina. In particolare, non vi osta il regime di tendenziale liberta' della produzione in appello, visto che il legislatore ha chiaramente voluto un grado di concentrazione interna al processo di primo grado maggiore di quella complessivamente conferita al giudizio nel suo articolarsi tra i vari gradi. Del resto, a fronte di una produzione documentale tardiva, potrebbe sorgere l'esigenza dell'altra parte (ed in concreto e' sorta) di articolare prova contraria ormai preclusa. In ogni caso, il rilievo di intempestivita' di una determinata produzione documentale comporta, non l'eliminazione materiale dell'atto dalla privata produzione, ma esclusivamente la sanzione processuale della sua inutilizzabiita' ai fini del decidere e questo e' il motivo per il quale il giudice - come avrebbe voluto l'attore, che ne ha chiesto lo stralcio - non si e' pronunciato sui documenti prodotti dal terzo. La produzione documentale del terzo, infine, pur a prescindere dalla concreta utilizzabilita' dei documenti, appare legittima poiche' consentita dall'art. 267 c.p.c. che dispone che «il terzo deve costituirsi presentando in udienza o depositando in cancelleria una comparsa formata a norma dell'art. 167 con le copie per le altre parti, i documenti e la procura». Non sarebbe applicabile, inoltre, per superare la menzionata barriera preclusiva neppure l'art. 184-bis (in senso contrario Trib. Milano, Ord. 1° luglio 1997, est. Fabiani) poiche' la remissione in termini opera soltanto per le decadenze in cui sono incorse le parti del processo ma «non e' invocabile per le situazioni esterne allo svolgimento del giudizio, per le quali vige la regola della improrogabilita' dei termini perentori (art. 153 c.p.c.), che impedisce di utilizzare l'istituto stesso anche per le decadenze relative al compimento del termine perentorio per instaurare il giudizio» (cfr. Cass. 15 ottobre 1997, n. 10094). A parere del sottoscritto giudice i poteri del terzo, in caso di intervento principale o litisconsortile, devono subire in misura minima le preclusioni che si sono gia' verificate per le parti: se si ammette l'ingresso dell'interveniente fino alla precisazione delle conclusioni, come testualmente prevede l'art. 268 c.p.c. e, quindi, la proposizione, da parte sua, di una domanda nuova, il terzo dovra' essere ammesso anche alle allegazioni necessarie, sia in fatto, sia probatorie, relative alla sua domanda, in quanto non avrebbe senso consentire la proposizione della domanda se poi non fosse possibile provarne i fatti posti a fondamento. Quindi, come sostenuto convincentemente in dottrina, le preclusioni possono colpire il terzo solo in quanto egli voglia compiere atti riferibili alla situazione sostanziale dedotta dalle parti originarie, mentre non possono colpirlo in quanto egli voglia compiere atti riferibili alla situazione sostanziale da lui dedotta in giudizio con la domanda d'intervento, in relazione alla quale devono essergli riconosciuti pieni poteri di allegazione ed istruttori. Prendendo spunto da una risalente decisione della Corte costituzionale 3 giugno 1966, n. 53, e' stato giustamente affermato che la tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche garantite dall'ordinamento e' incostituzionalmente rifiutata o limitata «se si nega o si limita alla parte il potere processuale di rappresentare al giudice la realta' dei fatti ad essa favorevoli». Il diritto alla prova, quindi, non solo e' espressione costituzionale del diritto di difesa ma ancor prima del diritto di azione. Il problema del diritto alla prova del terzo volontariamente intervenuto non puo' neppure essere frettolosamente risolto affermando che il terzo intervenendo volontariamente deve subire le preclusioni gia' maturate per le altre parti e che e' rimessa alla sua insindacabile scelta la convenienza dell'intervento in relazione alla fase processuale durante la quale interviene. In realta' l'istituto dell'intervento volontario assolve alla fondamentale esigenza di evitare contrasti di giudicati e all'altrettanto importante principio di economia processuale. Non puo' farsi a meno di notare, infatti, che il sistema processuale e' permeato dal favor per il processo cumulativo (cfr. artt. 31-33, 36, 40, 103, 104, 106, 107, 274, 344), che resterebbe mortificato nella sua espressione piu' classica se si seguisse l'orientamento criticato. Inoltre, bisogna rilevare che il terzo potrebbe attivare un processo autonomo nei confronti delle attuali parti del giudizio ovvero potrebbe intervenire in appello (art. 344 c.p.c.) oppure potrebbe proporre opposizione di terzo (art. 404 c.p.c) e in questi casi il suo diritto alla prova non sarebbe in alcun modo compromesso. Non si puo' neppure superficialmente affermare che consentendo al terzo di provare i fatti che sono a fondamento delle sue domande si rallenterebbe l'esito del giudizio tra le parti originarie, perche' se il terzo fosse costretto ad azionare un autonomo giudizio, esigenze di speditezza non potrebbero facilmente impedire, a fronte dell'esigenza di evitare contrasti di giudicati, la riunione del nuovo giudizio a quello originario con conseguente rallentamento del processo originario e con il riaffiorare dei problemi di coordinamento del regime delle preclusioni diversamente operanti nei procedimenti da riunire. A cio' deve aggiungersi che per le parti originarie sarebbe piu' svantaggioso doversi difendere in un nuovo autonomo giudizio dovendo affrontare le spese dello stesso a fronte dell'inutilita' delle spese sostenute nel precedente processo. Anche per l'amministrazione della giustizia dover affrontare un nuovo processo per lo stesso oggetto sarebbe poco conveniente. Analoghe considerazioni possono essere compiute nel caso in cui il terzo decida di restare inizialmente nell'ombra per proporre successivamente opposizione di terzo. L'art. 404 c.p.c., infatti, consente al terzo di fare opposizione contro la sentenza passata in giudicato o comunque esecutiva pronunciata tra altre persone quando pregiudica i suoi diritti. La ratio sottesa all'istituto dell'intervento del terzo nel processo e' proprio quella di evitare da un lato l'onere per le parti originarie di difendersi in un nuovo processo e altresi' di evitare che si formi una sentenza esecutiva o addirittura passata in giudicato che sia posta in discussione nel giudizio promosso dal terzo ex art. 404 c.p.c. L'art. 268 c.p.c. appare, quindi, nell'attuale formulazione sospetto di illegittimita' costituzionale non solo per violazione degli artt. 24 e 111 della Costituzione ma, altresi', per violazione dell'art. 3 della Costituzione stante la irragionevolezza della disposizione al cospetto degli artt. 274, 344 e 404 c.p.c. che non precludono al terzo il diritto di proporre la medesima domanda che potrebbe proporre con l'atto di intervento senza limitazione del diritto alla prova. L'esigenza di garantire il diritto alla prova, tuttavia, non riguarda soltanto il terzo interveniente ma riguarda anche le parti originarie del processo. Gli attori, infatti, per reagire alla domanda proposta nei loro confronti da Telli hanno, come sopra accennato, dedotto un capitolo di prova a verbale ed hanno chiesto, sul capitoli di prova gia' ammessi, l'interrogatorio formale dell'intervenuto. I Bernardelli hanno, inoltre, prodotto diversi documenti ed hanno, altresi', chiesto nell'udienza di precisazione delle conclusioni di produrne altri. L'attuale sistema rigido delle preclusioni istruttorie ha impedito al giudice di valutare la rilevanza delle prove costituende dedotte dagli attori e l'utilizzabilita' dei documenti depositati (particolarmente significativi per la definizione del giudizio analogamente a quelli prodotti da Teli) incontra gli stessi limiti di quelli prodotti dal terzo. Anche nei loro confronti, quindi, si rileva una lesione del diritto alla prova come surrogato del diritto di difesa. Sia l'attore che il convenuto, infatti, assumono rispetto alla domanda svolta dal terzo la condizione sostanziale di convenuti ai quali, quindi, a parere del sottoscritto giudice, devono essere riconosciuti adeguati strumenti processuali che gli consentano di contrastare, almeno sotto il profilo probatorio, la domanda proposta nei loro confronti. Appare, quindi, rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 268, comma 2, c.p.c. nella parte in cui non consente alle parti in caso di intervento di terzo principale o litisconsortile, successivo allo scadere dei termini cui all'art. 184 c.p.c., di depositare documenti e indicare nuovi mezzi di prova rispetto alla domanda formulata con l'atto di intervento. C) L'attuale sistema normativo presenta, inoltre, a parere del remittente, il sospetto di un ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale sotto l'aspetto della lesione del diritto di azione e difesa delle parti originarie del processo che subiscono l'intervento principale o litisconsortile del terzo, sebbene cio' non abbia costituito oggetto di confronto tra le parti. Sia l'attore che il convenuto, infatti, se l'intervento del terzo non avviene entro il termine per la costituzione del convenuto non hanno la possibilita' di proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda svolta dal terzo, ne' possono precisare o modificare le domande, le eccezioni o le conclusioni gia' proposte (art. 183, comma 5, c.p.c.) ne' hanno la possibilita', come visto, di articolare mezzi di prova o depositare documenti. Il problema appare rilevante per la definizione del presente giudizio poiche' gli attori, dopo la costituzione del terzo (successiva rispetto al termine per articolare mezzi di prova e produrre documenti), hanno depositato memorie - in cui hanno sollevato eccezioni e allegato nuovi fatti - e documenti; hanno sollecitato, come gia' esposto, l'ammissione di un capitolo di prova dedotto a verbale nonche' l'interrogatorio formale del terzo, ed hanno chiesto, all'udienza di precisazione delle conclusioni, di depositare ulteriore documentazione. Sull'ammissibilita' delle prove costituende e sull'utilizzabilita' dei documenti prodotti si e' gia' detto. Prima ancora dei limiti probatori, tuttavia, l'attore ed il convenuto non hanno avuto la possibilita' (perche' preclusa dalla fase processuale) di proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda svolta dal terzo (salvo quanto dedotto ed eccepito a verbale e con memoria ma con gli insuperabili limiti di ammissibilita' per intervenuta preclusione connessa alla fase), ne' hanno potuto precisare o modificare le domande, le eccezioni o le conclusioni gia' proposte. La domanda proposta dal terzo ha, chiaramente, alterato l'impostazione originaria della causa che l'attore ed il convenuto avevano iniziato, generando, soprattutto negli attori, l'esigenza di allegare nuove circostanze per contrastare la pretesa di Telli. Anche i documenti prodotti, in realta', sostengono altrettante eccezioni alla pretesa del terzo. Il problema dei poteri delle parti originarie rispetto alle domande formulate dal terzo e' gia' stato esaminato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 193 del 1983, con la quale ha dichiarato illegittimo l'art. 419 c.p.c. nella parte in cui, ove un terzo spieghi intervento volontario, non attribuisce al giudice il potere dovere di fissare - con il rispetto del termine di cui all'art. 415, comma 5, c.p.c. - una nuova udienza, non meno di dieci giorni prima della quale potranno le parti originarie depositare memoria, e di disporre che, entro cinque giorni, siano notificati alle parti originarie il provvedimento di fissazione e la memoria dell'interveniente, e che sia notificato a quest'ultimo il provvedimento di fissazione della nuova udienza. Nella circostanza la Corte ha operato un confronto tra l'art. 420, comma 9, c.p.c., che prescrive che «nel caso di chiamata in causa a norma degli artt., 102, secondo comma, 106 e 107, il giudice fissa una nuova udienza e dispone che, entro cinque giorni, siano notificati al terzo il provvedimento nonche' il ricorso introduttivo e l'atto di costituzione del convenuto», e l'art. 419 c.p.c. (intervento volontario) che non prevedeva lo spostamento dell'udienza. La Corte ha, quindi, osservato che «Se si riflette sulla ampliatio della cognizione propria della originaria lite provocata non solo nelle ipotesi di litisconsorzio necessario, di comunanza obiettiva tra parti originarie e terzo e di chiamata in garanzia, ma anche nelle aree in cui affondano le radici degli interventi volontari principale e adesivo autonomo (...) nonche' dello stesso intervento adesivo dipendente non si vede perche' il diritto di difesa delle parti originarie, contro le quali si appuntano le pretese degli intervenienti volontari e dell'avversario del coadiuvato dall'interveniente adesivo dipendente, debbano essere garantite in guisa diversa e meno incisiva del modo con cui al legislatore e' parso giusto assicurarlo allorquando ha plasmato il nono e il decimo comma dell'art. 420 c.p.c. Come al terzo, di cui agli artt. 102, 106 e 107, debbono essere notificati il provvedimento di fissazione di una nuova udienza nonche' il ricorso introduttivo e l'atto di costituzione del convenuto e, in primis et ante omnia e' d'uopo fissare una nuova udienza, nella quale parti originarie e interveniente, anche sulla base della memoria del terzo, siano posti in grado di discutere, nelle nuove sue dimensioni, la causa, cosi' allorquando un terzo spiega intervento volontario e' da attribuire al giudice il potere dovere di fissare ... una nuova udienza». Ebbene, l'art. 420, comma 9, c.p.c., disciplina l'ipotesi di chiamata in causa del terzo in maniera sostanzialmente identica a quanto prescrive l'art. 269, comma 2, c.p.c., con riferimento alla chiamata in causa del terzo su istanza del convenuto. Anche in tal caso, infatti, «il giudice istruttore, entro cinque giorni dalla richiesta, provvede con decreto a fissare la data della nuova udienza. Il decreto e' comunicato dal cancelliere alle parti costituite. La citazione e' notificata al terzo a cura del convenuto». Anche nel rito civile ordinario, quindi, l'art. 268 c.p.c. non prevede la fissazione di una nuova udienza cosi' come non lo prevedeva l'art. 419 c.p.c. La motivazione adottata dalla Corte costituzionale con riferimento all'art. 419 c.p.c. e' ripetibile anche rispetto all'art. 268 c.p.c. stante la sostanziale identita' tra l'art. 420, comma 9, c.p.c., e l'art. 269, comma 2, c.p.c. In motivazione la Corte ha anche replicato ad un'eccezione che potrebbe essere riproposta in questa sede, cioe' che non «giova ripetere quel che da taluno si e' opposto, e cioe' che nulla vieterebbe al giudice, avanti il quale e' stato spiegato intervento, di fissare motu proprio altra udienza perche' le ipotesi di fissazione di altra udienza sono tassative [anche nel rito civile la sequenza delle udienze e' scandita in maniera precisa dal codice di rito] e al diritto di difesa dell'interveniente e delle altre parti non puo' sopperirsi con le normali tecniche applicative delle norme ordinarie o - peggio - con la violazione delle stesse». Il giudice comunque non potrebbe consentire alle parti di proporre domande nuove o eccezioni se i termini di cui all'art. 183 c.p.c. sono decorsi al momento dell'intervento del terzo. Se da un lato, quindi, si riconosce al terzo di proporre, fino al momento della precisazione delle conclusioni, una domanda in un processo iniziato da altre parti, dall'altro bisogna riconoscere a queste - salvo alterare irrimediabilmente il principio della parita' delle parti nel processo - di esercitare appieno il loro diritto di difesa, riconoscendogli tutti gli strumenti che il processo civile attribuisce, se non al convenuto, almeno, all'attore che reagisce alla domanda riconvenzionale. Orbene, se l'intervento del terzo e' ammissibile fino al momento della precisazione delle conclusioni, cio' non deve trasformarsi per esso in un «vantaggio processuale» e ritorcersi contro il diritto di difesa delle parti originarie del processo che attualmente appare eccessivamente compromesso. In definitiva appare rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 268 c.p.c., per violazione degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, nella parte in cui in caso di intervento volontario principale o litisconsortile non attribuisce al giudice il potere dovere di fissare - con il rispetto del termine di cui all'art. 163-bis, c.p.c. - una nuova udienza, non meno di venti giorni prima della quale le parti originarie potranno depositare memoria e di disporre che sia notificato a queste ultime il provvedimento di fissazione. In tal modo alle parti originarie sarebbe data la possibilita' di proporre le eventuali domande ed eccezioni che sono conseguenza della domanda svolta dal terzo, nonche' di ottenere i termini di cui all'art. 183, comma 5, c.p.c. D) Giova ricordare, infine, che il legislatore anche con riferimento al rito civile ha previsto espressamente di tutelare il diritto di difesa delle parti originarie rispetto all'attivita' difensiva svolta dal terzo non chiamato in causa inizialmente dall'attore ne' dal convenuto. Ci si riferisce al caso in cui la chiamata in causa del terzo sia stata chiesta al giudice dall'attore a seguito delle difese svolte dal convenuto. Anche in tal caso, quindi, la partecipazione al giudizio del terzo (analogamente all'ipotesi di intervento volontario) non era stata prevista dall'attore ne' era stata richiesta dal convenuto. In tal caso, tuttavia, proprio per tutelare a pieno il diritto di difesa delle parti originarie il legislatore, ha previsto all'art. 269, comma 5, c.p.c., che «restano ferme per le parti le preclusioni ricollegate alla prima udienza di trattazione, ma il termine eventuale di cui all'ultimo comma dell'art. 183 e' fissato dal giudice istruttore nella udienza di comparizione del terzo, e i termini di cui all'art. 184 decorrono con riferimento alla udienza successiva a quella di comparizione». Pare, quindi, che l'art. 268 c.p.c. disciplini in maniera differente a quella prevista dall'art. 269, comma 5, c.p.c., una situazione sostanzialmente analoga. Secondo il sottoscritto giudice nel caso di intervento volontario principale o litisconsortile in causa di un terzo deve essere riconosciuta alla parti originarie, conformemente a quanto previsto dall'art. 269, comma 5, c.p.c., e con riferimento alle domande svolte dal terzo, almeno la possibilita' di chiedere il termine di cui all'art. 183, comma 5, c.p.c., e all'udienza successiva il termine di cui all'art. 184, c.p.c. L'accoglimento di tale questione, subordinata al mancato accoglimento della precedente, avrebbe il vantaggio di non prevedere lo spostamento dell'udienza, con conseguente risparmio di tempo - cio' anche al fine di interventi volontari con finalita' esclusivamente dilatorie - e al contempo di assicurare alle parti originarie ed al terzo la possibilita', rispetto alle domande svolte dal terzo, almeno di precisare o modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni gia' proposte e di articolare mezzi di prova e depositare documenti, ferme restando le decadenze maturate tra le parti originarie del giudizio rispetto alle originarie pretese. Appare, quindi, rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 268 c.p.c., per violazione degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che, ferme per le parti le preclusioni ricollegate alla prima udienza di trattazione, il termine eventuale di cui all'ultimo comma dell'art. 183 e' fissato dal giudice istruttore nella udienza di comparizione del terzo, e i termini di cui all'art. 184 decorrono con riferimento alla udienza successiva a quella di comparizione».
P. Q. M. Letto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87. Ritenuta rilevante e non manifestamente infondata, solleva d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 268, comma 2, c.p.c., per violazione degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, nella parte in cui non consente alle parti, in caso di intervento di terzo principale o litisconsortile, successivo allo scadere dei termini di cui all'articolo 184, c.p.c., di depositare documenti e indicare nuovi mezzi di prova rispetto alla domanda formulata con l'atto di intervento. Ritenuta rilevante e non manifestamente infondata, solleva d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 268, c.p.c., per violazione degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, nella parte in cui, in caso di intervento volontario principale o litisconsortile, non attribuisce al giudice il potere dovere di fissare - con il rispetto del termine di cui all'art. 163-bis, c.p.c. - una nuova udienza, non meno di venti giorni prima della quale le parti originarie potranno depositare memoria e di disporre che sia notificato a queste ultime il provvedimento di fissazione. In subordine, solleva d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 268, c.p.c., per violazione degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che ferme per le parti le preclusioni ricollegate alla prima udienza di trattazione, il termine eventuale di cui all'ultimo comma dell'art. 183, c.p.c., e' fissato dal giudice istruttore nella udienza di comparizione del terzo, e i termini di cui all'art. 184, c.p.c., decorrono con riferimento alla udienza successiva a quella di comparizione. Sospende il processo. Dispone che la presente ordinanza sia integralmente notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. La cancelleria curera' tali adempimenti. Lodi, addi' 10 febbraio 2003 Il giudice: Gargiulo 03C00641