N. 390 ORDINANZA (Atto di promovimento) 14 febbraio 2003

Ordinanza  emessa  il  14  febbraio  2003  dal  tribunale di Lodi nel
procedimento  civile  vertente  tra  Bernardelli  Cinzia  ed  altri e
Bernardelli Anna ed altri

Procedimento  civile  -  Intervento volontario del terzo - Intervento
  principale  o  litisconsortile successivo alla scadenza dei termini
  per  le deduzioni istruttorie di cui all'art. 184 cod. proc. civ. -
  Poteri delle parti originarie rispetto alla nuova domanda formulata
  con  l'atto  di  intervento  -  Facolta'  di depositare documenti e
  indicare nuovi mezzi di prova - Mancata previsione - Violazione del
  diritto  di agire in giudizio, comprensivo del diritto alla prova -
  Contrasto  con  il principio secondo cui «il processo si svolge nel
  contraddittorio   delle   parti,   in   condizioni   di  parita»  -
  Irragionevolezza.
- Codice di procedura civile, art. 268, comma secondo.
- Costituzione, artt. 3, 24 e 111.
Procedimento  civile  -  Intervento volontario del terzo - Intervento
  principale o litisconsortile - Potere-dovere del giudice di fissare
  (nel  rispetto  dei  termini per comparire, di cui all'art. 163-bis
  cod. proc. civ.) una nuova udienza, almeno venti giorni prima della
  quale  le  parti originarie potranno depositare memorie, nonche' di
  disporre  che ad esse sia notificato il provvedimento di fissazione
  -  Mancata  previsione  - Alterazione della parita' delle parti nel
  processo  -  Sostanziale  attribuzione  al  terzo  di un «vantaggio
  processuale»  -  Lesione del diritto di azione e difesa delle parti
  originarie   -  Richiamo  alla  sentenza  n. 193/1983  della  Corte
  costituzionale.
- Codice di procedura civile, art. 268.
- Costituzione, artt. 3, 24 e 111.
In subordine: Procedimento civile - Intervento volontario del terzo -
  Intervento  principale  o litisconsortile - Fissazione da parte del
  giudice  istruttore  (ferme per le parti le preclusioni ricollegate
  alla  prima  udienza  di  trattazione) del termine eventuale di cui
  all'art. 183,  ultimo  comma,  cod.  proc.  civ.  nella  udienza di
  comparizione   del   terzo,   e   decorrenza  dei  termini  di  cui
  all'art. 184   cod.   proc.   civ.  con  riferimento  alla  udienza
  successiva   a  quella  di  comparizione  -  Mancata  previsione  -
  Diversita'  di disciplina rispetto all'ipotesi di chiamata in causa
  del  terzo  chiesta  al  giudice dall'attore a seguito delle difese
  svolte  dal  convenuto  (art. 269, comma quinto, cod. proc. civ.) -
  Violazione  del  diritto  di  difesa  delle  parti  originarie  del
  processo.
- Codice di procedura civile, art. 268.
- Costituzione, artt. 3, 24 e 111.
(GU n.26 del 2-7-2003 )
                            IL TRIBUNALE

    Nel procedimento N.R.G. 603/2000 promosso da: Bernardelli Cinzia,
Bernardelli  Carlo  e  Bernardelli  Giuseppe,  rappresentati e difesi
dagli avv. Giuseppe Gueli e Piero Barcellesi - attori;
    Contro:  Bernardelli Anna, Barbiano Di Belgiojoso Carlo, Barbiano
Di  Belgiojoso  Pio  in  proprio  e  quale procuratore di Barbiano Di
Belgiojoso   Agnese,   Barbiano  Di  Belgiojoso  Maria,  Barbiano  Di
Belgiojoso  Guido,  Barbiano  Di  Belgiojoso  Teresa, rappresentati e
difesi dagli avv.ti Luigi Garbagnati e Andrea Maisano - convenuti;
    Con  l'intervento di Telli Giovanni Carlo, rappresentato e difeso
dagli avv.ti Giacinto Marchesi e Valter Spagliardi - interveniente;
    Letti  gli atti e i documenti di causa ha pronunciato la seguente
ordinanza.
    Bernardelli Cinzia, Bernardelli Carlo e Bernardelli Giuseppe, con
atto  di  citazione  notificato in data 28 aprile 2000 convenivano in
giudizio  Bernardelli Anna, Barbiano Di Belgiojoso Carlo, Barbiano Di
Belgiojoso Pio, Barbiano Di Belgiojoso Agnese, Barbiano Di Belgiojoso
Maria,  Barbiano Di Belgiojoso Guido e Barbiano Di Belgiojoso Teresa,
chiedendo  di accertare nei loro confronti l'acquisto in parti uguali
per  usucapione  ultraventennale  della proprieta' del fabbricato con
corti   annesse   sito   nel   comune  di  San  Fiorano  identificato
catastalmente  al foglio 4 mappale 6, partita NCEU n. 4 del comune di
San Fiorano.
    A  fondamento della domanda gli attori deducevano che la famiglia
Bernardelli,  di  cui loro sono gli ultimi esponenti, conduce sin dal
1912  l'azienda  agricola Corradina e che all'interno dell'azienda e'
posto il fabbricato che si pretende usucapito non compreso tra quelli
oggetto del contratto di affitto ma ugualmente posseduto dagli stessi
e prima dai loro genitori almeno dal 1969 con «animo di proprietari».
    Si  costituivano  in  giudizio  i convenuti i quali chiedevano il
rigetto  della domanda eccependo che il bene oggetto del giudizio era
stato  posseduto  dagli attori e prima dai loro genitori in virtu' di
contratto di affitto del 29 giugno 1969.
    Alla  prima  udienza  di  trattazione  i  procuratori delle parti
chiedevano  la concessione dei termini di cui all'art. 184 c.p.c. Con
ordinanza  del  3  aprile 2001 il g.i. dott. Conti ammetteva la prova
richiesta  dagli  attori  per  interrogatorio formale dei convenuti e
testimoni   e   rinviava  la  causa  per  gli  interrogatori  formali
all'udienza successiva del 3 ottobre 2001.
    Con  comparsa  di intervento volontario depositata in cancelleria
il  18  luglio  2001  interveniva  in  giudizio  Carlo Giovanni Telli
chiedendo  di  accertare,  previo rigetto della domandata usucapione,
che il fabbricato oggetto del giudizio e' di sua esclusiva proprieta'
per  averlo  acquistato dai convenuti Barbiano Di Belgiojoso con atto
del   notaio  Squitani  di  Lodi.  A  sostegno  della  domanda  Telli
depositava  in  cancelleria  n. 21  documenti tra cui il contratto di
compravendita  immobiliare  del  21  dicembre 1993, le mappe a colori
facenti  parte dei contratti di affitto rispettivamente del 29 giugno
1969  e  del 2 gennaio 1984, la dichiarazione di successione di Paolo
Barbiano Di Belgiojoso.
    All'udienza  del  3  ottobre  2002  non  era presente nessuno dei
convenuti   e   i   procuratori   degli   attori,   con   riferimento
all'intervento  di  Telli, chiedevano lo stralcio dei documenti dallo
stesso  prodotti  in  epoca successiva al termine concesso alle parti
originarie  del  giudizio  per articolare mezzi di prova e depositare
documenti;  chiedevano  altresi'  di  deferire interrogatorio formale
anche  a  Telli (inizialmente indicato come testimone) e di ammettere
un  ulteriore  capitolo  di  prova  dedotto  a  verbale; depositavano
altresi'  lettera  del 27 dicembre 1993 loro indirizzata da Telli. Il
g.i.  dott.  Conti  assegnava  alle  parti un termine «per articolare
definitivamente  ogni  deduzione,  istanza  o  richiesta  sino  al 20
dicembre  2001  e  per  repliche  fino  al  20  gennaio 2002, salva e
impregiudicata  ogni  valutazione  in  ordine  alla  tempestivita'  e
ritualita' delle istanze formulate e formulande».
    Unitamente  alle  memorie gli attori depositavano una lettera del
31  gennaio 1994 spedita dell'avv. Garbagnati all'avv. Gueli mentre i
convenuti  n. 4  documenti  tra  cui una lettera del 28 dicembre 1993
spedita dall'avv. Gueli ai signori Belgiojoso e Telli.
    Successivamente  la  causa  era  assegnata  al sottoscritto, che,
ritenuta   la  stessa  matura  per  la  decisione,  rinviava  per  la
precisazione delle conclusioni.
    Alla  successiva udienza del 19 luglio 2002 gli attori chiedevano
di  produrre ulteriore documentazione. Il giudice ritenuta tardiva la
produzione   invitava  i  procuratori  delle  parti  a  precisare  le
conclusioni e tratteneva la causa in decisione.
    Il  presente  giudizio  si  e' sviluppato in maniera lineare fino
all'intervento  in  causa  di  Telli  Carlo  Giovanni  che con la sua
domanda  e  con  i  documenti  prodotti  ha  determinato  nelle parti
originarie  del  processo  l'esigenza di replicare, eccepire, dedurre
nuovi  fatti  e  articolare  nuovi  mezzi di prova e depositare nuovi
documenti.  L'intervento in causa di Telli comporta per il giudice la
risoluzione  di alcuni problemi interpretativi e la valutazione della
non   manifesta   infondatezza   della   questione   di  legittimita'
costituzionale  dell'art. 268 c.p.c. per violazione degli artt. 3, 24
e 111 della Costituzione.
    La  formulazione  dell'art.  268  c.p.c., in relazione agli artt.
163,  183  e  184 c.p.c. sembra, infatti, limitare eccessivamente sia
l'esercizio  delle  facolta'  probatorie del terzo, sia la necessaria
attivita'  difensiva  delle  parti  originarie del processo (sotto il
profilo  della  facolta' di eccepire, allegare nuovi fatti e provare)
nei cui confronti il terzo propone una domanda.
    A)   L'istituto   dell'intervento   volontario   nel  processo  -
disciplinato  nei presupposti dall'art. 105 c.p.c. e nei modi e negli
effetti  rispettivamente  dagli  artt.  267  e  268 c.p.c. - provoca,
difatti,  in  relazione al regime delle preclusioni introdotte con la
legge   n. 353  del  1990,  problemi  interpretativi  particolarmente
significativi  nei casi di intervento c.d. principale e di intervento
c.d.  litisconsortile  o  adesivo autonomo. Sia in caso di intervento
principale  che  litisconsortile,  invero,  il  terzo  introduce  nel
processo  una  domanda  nuova che non ha formato oggetto, fino a quel
momento,  del  processo  instaurato dalle parti originarie. Nel primo
caso,  quindi,  il  terzo  fa  valere  un  proprio  diritto  relativo
all'oggetto o dipendente dal titolo dedotto in giudizio nei confronti
di  entrambe  le  parti originarie mentre nel secondo caso il diritto
che  sostiene  l'intervento  e'  azionato  nei  confronti  di  taluna
soltanto di esse.
    Il   problema   che   l'attuale  giudizio  presenta,  quindi,  e'
costituito   dalla   valutazione   dei   poteri   che  devono  essere
riconosciuti  al  terzo intervenuto e, di conseguenza, dei poteri che
devono   essere   riconosciuti  alle  altre  parti,  considerato  che
l'intervento  (principale)  in  causa  e'  stato  effettuato  dopo lo
spirare del termine, concesso alle originarie parti del processo, per
articolare i mezzi di prova e depositare documenti.
    L'art.  268  c.p.c.,  infatti,  pur  consentendo l'intervento del
terzo  fino  al momento della precisazione delle conclusioni, dispone
che  «il  terzo non puo' compiere atti che al momento dell'intervento
non sono piu' consentiti ad alcuna altra parte».
    Bisogna  stabilire, quindi, quali sono i poteri che l'ordinamento
attribuisce  all'interveniente  -  principale o litisconsortile - che
innova   il   thema   decidendum  in  relazione  al  momento  in  cui
l'intervento  e'  compiuto  e  di  coordinare, pertanto, il principio
dell'accettazione  della lite in statu et terminis con le preclusioni
processuali dei novellati artt. 167, 183 e 184 c.p.c.
    Il  primo  problema,  tuttavia, che deve essere risolto e' quello
dell'ammissibilita' dell'intervento principale o litisconsortile dopo
il termine di costituzione del convenuto.
    Una  prima  opzione  interpretativa  -  sostenuta  da parte della
dottrina  e  della  giurisprudenza  di  merito  (cfr.  Trib. Monza 12
settembre  1998,  est.  Lapertosa; Trib. Milano 29 ottobre 1998, est.
Spera), in applicazione del principio dell'accettazione della lite in
statu  et terminis, include nelle attivita' soggette a preclusioni lo
stesso  potere  di  proporre  domanda  giudiziale nei confronti delle
parti  originarie.  Il terzo che intervenisse dopo il termine fissato
per  la  costituzione  del  convenuto  (come  nel  caso sottoposto al
presente  giudizio)  non potrebbe piu', secondo tale interpretazione,
proporre  neppure  la domanda di intervento, in ragione del fatto che
le  parti originarie sarebbero gia' decadute dal potere di introdurre
in  giudizio  un  diritto  nuovo. Poiche', quindi, intervenire in via
principale o litisconsortile significa proporre una domanda nuova nei
confronti  di  tutte  o di alcune soltanto delle parti originarie, il
nuovo   assetto   preclusivo   impedirebbe  addirittura  l'intervento
volontario  una  volta  decorso  il  termine  per la costituzione del
convenuto  a  norma dell'art. 166 c.p.c., ultimo momento utile per le
parti,  o  meglio  per  il  convenuto, per proporre domande nuove. Il
terzo,  dunque  potrebbe  -  secondo  il  citato orientamento - nelle
ipotesi   menzionate   esperire   unicamente  un  intervento  adesivo
dipendente  cio'  per  il  motivo  che un intervento tardivo senza la
possibilita'  di  far valere il proprio diritto non avrebbe senso. In
sostanza,  cio'  che  non  e'  piu'  consentito  compiere  alle parti
originarie   al   tempo   dell'intervento   sarebbe   non  consentito
all'interveniente,   nonostante   l'articolo   268   c.p.c.   preveda
espressamente  che  l'intervento  possa  avvenire fino all'udienza di
precisazione delle conclusioni.
    Ebbene,  tale  opzione  interpretativa  appare poco condivisibile
poiche',  in contrasto con una chiara disposizione normativa, conduce
alla   sostanziale   abrogazione  dell'istituto  dell'intervento  nel
processo civile.
    In  realta'  il  termine di cui all'art. 166 c.p.c. e' un termine
perentorio che si riferisce esclusivamente al convenuto rispetto alla
domanda   formulata   in   atto   di  citazione  e  non  puo'  essere
arbitrariamente  esteso  - per via interpretativa ed in contrasto con
il  dato normativo - ad un terzo che propone nel processo una domanda
nuova nei confronti di una o di entrambe le parti originarie.
    E' facile rilevare che la volonta' del legislatore con la riforma
del  1990 non e' stata quella di limitare il diritto di intervento ad
un  momento  anteriore  a quello della precisazione delle conclusioni
poiche'  se  questa  fosse  stata  la  voluntas  legis, sarebbe stata
espressa  in maniera chiara conformemente a quanto previsto dall'art.
419  c.p.c.  che fa coincidere il termine per l'intervento volontario
con  il  termine  fissato per la costituzione del convenuto. Non puo'
superarsi,  inoltre,  il  dato  che  il  legislatore  e'  intervenuto
modificando  il  testo  dell'art.  268  c.p.c.  proprio  con la legge
n. 353/1990  che ha introdotto il menzionato regime delle preclusioni
e,  quindi,  se avesse voluto introdurre un termine diverso da quello
originario  della  rimessione  della  causa  al  collegio, lo avrebbe
potuto  fare  espressamente.  Invece, il legislatore ha semplicemente
modificato  l'articolo in esame indicando il termine per l'intervento
in  quello  fissato  per  la precisazione delle conclusioni. A questo
dato,  che  gia' di per se' appare assorbente, si deve aggiungere che
l'art.  268  c.p.c  e'  stato  modificato anche nel secondo comma. La
disposizione  normativa  infatti disponeva: «Se l'intervento ha luogo
dopo  la  prima  udienza il terzo non puo' compiere atti che non sono
piu'  consentiti  alle  altre  parti». L'eliminazione dell'inciso «se
l'intervento ha luogo dopo la prima udienza» esclude proprio cio' che
i  fautori  della tesi non condivisa vorrebbero affermare e cioe' che
l'intervento  non  e'  piu'  ammissibile  dopo la prima udienza, anzi
prima   ancora;   dopo   il  decorso  dei  venti  giorni  antecedenti
all'udienza  di  prima  comparizione. Sarebbe stato facile modificare
questa  parte  della  norma  sostituendo  alle  parole «dopo la prima
udienza»  quelle  «dopo il termine per la costituzione del convenuto»
oppure «dopo il termine indicato all'art. 166 c.p.c.».
    Le  considerazioni  che precedono inducono a ritenere ammissibile
l'intervento  principale  e litisconsortile del terzo fino al momento
della  precisazione delle conclusioni in conformita' all'insuperabile
dato  normativo.  Non ha, infatti, alcun senso ammettere l'intervento
fino    al   momento   della   precisazione   delle   conclusioni   e
contestualmente  escludere  il  potere  di  far valere il diritto; la
lettura  piu'  rigorosa  della  norma  non  e', quindi, condivisibile
perche'  (dopo  il  termine di costituzione del convenuto) se giudica
ammissibile l'intervento considera inammissibile la domanda formulata
dall'interveniente.  Da  quanto  detto  discende  che, nell'ammettere
l'intervento  principale  o  litisconsortile  fino  al  momento della
precisazione delle conclusioni, l'art. 268 c.p.c. ammette che, fino a
tale  momento,  e' possibile fare valere in confronto di taluna delle
parti o di ciascuna di esse un proprio diritto relativo all'oggetto o
dipendente  dal  titolo  dedotto  nel  processo.  In  altri  termini,
l'introduzione  nel  processo  di una domanda giudiziale da parte del
terzo  interverveniente  ed in genere lo svolgimento della necessaria
attivita'  assertiva  debbono  ritenersi  ammissibili, in quanto tale
domanda    e    tale   attivita'   costituiscono   l'essenza   stessa
dell'intervento principale e litisconsortile.
    Questa   e'   la   soluzione   prescelta   dalla   piu'   recente
giurisprudenza  della  Corte di cassazione che con sentenza 14 maggio
1999,  n. 4771 ha chiarito che «ammesso ogni tipo di intervento lungo
l'intero  sviluppo  della  trattazione  istruttoria  («... finche' la
causa  non sia rimessa dal giudice istruttore al collegio»: art. 268,
primo  comma,  ante riforma), con cio' stesso e' riconosciuta - entro
quel  limite  -  la  estensibilita'  della  materia del processo alla
pretesa  del  terzo  interveniente (e se, al contrario, si negasse la
proponibilita'  della domanda oltre la prima udienza, ne risulterebbe
precluso  l'intervento  stesso oltre quel termine in contrasto con il
disposto del primo comma dell'art. 268 c.p.c.)».
    Ammessa,  quindi,  la possibilita' per il terzo di proporre anche
l'intervento  principale  e  litisconsortile,  oltre a quello adesivo
dipendente,  fino  al  momento  della  precisazione delle conclusioni
bisogna  stabilire  quale  attivita'  sia consentita al terzo e quali
siano i poteri riconosciuti alle altre parti per reagire alla domanda
proposta nei loro confronti.
    L'esame  delle  facolta'  probatorie  riconosciute  al terzo ed i
poteri  di  reazione delle parti originarie del processo introducono,
tuttavia,   altrettanti  problemi  di  costituzionalita'  che  sembra
opportuno  rimettere  all'esame  della  Corte  costituzionale.  Sara'
esaminato  prima il profilo inerente ai poteri probatori del terzo (e
delle  altre  parti)  -  sia per continuita' nell'esame dell'art. 268
c.p.c. sia perche' la possibilita' di articolare nuovi mezzi di prova
o depositare documenti ha costituito l'unico motivo di confronto, sul
piano  processuale,  tra  le parti - e di seguito l'ulteriore profilo
della  limitazione  del  diritto di difesa delle parti originarie del
processo rispetto alla domanda proposta nei loro confronti dal terzo.
    B)  L'art.  268 c.p.c. stabilendo che «il terzo non puo' compiere
atti  che  al  momento  dell'intervento  non  sono piu' consentiti ad
alcuna  parte»,  limita,  evidentemente,  le  facolta' probatorie del
terzo  a  quelle  ancora consentite alle altre parti. In un caso come
quello  in  esame  in  cui  il  terzo  e' intervenuto dopo il termine
concesso  alle  parti  per  articolare  mezzi  di  prova e depositare
documenti  si  deve  concludere  che  il  terzo  non  abbia piu' tale
possibilita'.  Tale  soluzione  e'  stata  propugnata  dalla Corte di
cassazione  nella  citata  sentenza  n. 4771/1999  dove  si legge: «E
percio'  i  soggetti  che  intervengono  con la legittimazione di cui
all'art.  105 c.p.c. debbono accettare il processo nello stato in cui
si  trova,  operando anche nei loro confronti le preclusioni connesse
funzionalmente alle fasi di sviluppo del procedimento. Cio', appunto,
significa  il  disposto dell'art. 268 c.p.c. che ammette l'intervento
volontario («a norma dell'art. 105 c.p.c.»: art. 267 c.p.c.) «finche'
la  causa  non sia rimessa dal giudice istruttore al collegio» (primo
comma, rimasto sostanzialmente inalterato con la riforma del 1990 che
pone  il  medesimo  limite  con  la  espressione: «... sino a che non
vengano  precisate  le  conclusioni») e preclude al terzo intervenuto
quella  attivita'  istruttoria, preliminare e probatoria, che la fase
in  ipotesi avanzata del procedimento non consenta «alle altre parti»
(secondo  comma)».  Tale soluzione e' stata giustificata considerando
che  se l'ampliamento - sotto il profilo soggettivo - del processo e'
giustificato  dalla  esigenza  di  economia  dei  giudizi,  volendosi
assecondare  l'esaurimento contestuale delle controversie connesse in
ragione  dei  medesimi  oggetto  o  titolo dei contrapposti diritti e
ridurre  cosi'  il  rischio  della  contraddittorieta' dei giudicati,
questa  esigenza non puo', tuttavia, «entrare in conflitto con quella
di  economia  interna  al  processo  tra le parti originarie, dovendo
trovare tutela l'interesse di esse a una sollecita decisione».
    In  definitiva  la  Corte  di  cassazione 4771/1999 ammette, come
detto,  l'intervento  del  terzo  fino  al momento della precisazione
delle  conclusioni,  ammette la possibilita' per il terzo di proporre
domande nuove ma gli nega la possibilita' di provare i fatti che sono
a  fondamento di tali domande. La soluzione e' inaccettabile poiche',
pur  fondata  sull'insopprimibile  dato normativo viola, a parere del
sottoscritto  giudice,  il  precetto costituzionale dell'art. 24, che
consente  il  diritto  di  agire  in giudizio provando ed il precetto
dell'art.   111   che   afferma   che  il  «processo  si  svolge  nel
contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita».
    Tale  aspetto assume rilevanza nel presente giudizio in quanto il
terzo  intervenuto,  a  sostegno  della  sua  domanda,  ha depositato
diversi documenti, tra cui il contratto di compravendita immobiliare,
e  tali  documenti  giustificano  anche  la propria legittimazione al
giudizio.  Non  poterne  tenere  conto potrebbe comportare il rigetto
della domanda del terzo. Anche l'attivita' di produzione documentale,
a  seguito  del  nuovo  sistema  introdotto dalla novella 26 novembre
1990,  n. 353,  e', infatti, assoggettato ad un regime preclusivo che
si  realizza in via definitiva in coincidenza con la formazione della
barriera  decadenziale  riconducibile  in  generale alla proposizione
delle deduzioni istruttorie che trova il suo riferimento, nell'ambito
dello svolgimento dell'articolazione delle distinte fasi processuali,
nella  disciplina  dell'innovato  art. 184 c.p.c. (cfr. Cass. 4 marzo
1998,  n. 2399;  Trib. Brindisi, ord. 25 maggio 1997 e Pret. Firenze,
ord.  18  maggio  1998 in Foro It., 1998, I, p. 2585). Tale soluzione
risponde  proprio  alla  finalita'  di  uno  svolgimento ordinato del
processo,   caratterizzato   da  uno  sviluppo  per  fasi  successive
logicamente  concatenate e scandite secondo una severa disciplina. In
particolare,  non  vi  osta  il  regime di tendenziale liberta' della
produzione in appello, visto che il legislatore ha chiaramente voluto
un  grado  di  concentrazione  interna  al  processo  di  primo grado
maggiore  di  quella  complessivamente  conferita al giudizio nel suo
articolarsi  tra  i vari gradi. Del resto, a fronte di una produzione
documentale tardiva, potrebbe sorgere l'esigenza dell'altra parte (ed
in  concreto  e' sorta) di articolare prova contraria ormai preclusa.
In  ogni  caso,  il  rilievo  di  intempestivita'  di una determinata
produzione   documentale   comporta,   non  l'eliminazione  materiale
dell'atto  dalla  privata  produzione,  ma esclusivamente la sanzione
processuale  della sua inutilizzabiita' ai fini del decidere e questo
e'  il motivo per il quale il giudice - come avrebbe voluto l'attore,
che  ne  ha chiesto lo stralcio - non si e' pronunciato sui documenti
prodotti  dal terzo. La produzione documentale del terzo, infine, pur
a  prescindere  dalla  concreta utilizzabilita' dei documenti, appare
legittima poiche' consentita dall'art. 267 c.p.c. che dispone che «il
terzo  deve  costituirsi  presentando  in  udienza  o  depositando in
cancelleria  una  comparsa formata a norma dell'art. 167 con le copie
per le altre parti, i documenti e la procura».
    Non  sarebbe  applicabile,  inoltre,  per  superare la menzionata
barriera  preclusiva neppure l'art. 184-bis (in senso contrario Trib.
Milano,  Ord.  1° luglio 1997, est. Fabiani) poiche' la remissione in
termini  opera soltanto per le decadenze in cui sono incorse le parti
del  processo  ma  «non  e' invocabile per le situazioni esterne allo
svolgimento   del  giudizio,  per  le  quali  vige  la  regola  della
improrogabilita'   dei  termini  perentori  (art.  153  c.p.c.),  che
impedisce  di  utilizzare  l'istituto  stesso  anche per le decadenze
relative  al  compimento  del  termine  perentorio  per instaurare il
giudizio» (cfr. Cass. 15 ottobre 1997, n. 10094).
    A  parere del sottoscritto giudice i poteri del terzo, in caso di
intervento  principale  o  litisconsortile,  devono  subire in misura
minima le preclusioni che si sono gia' verificate per le parti: se si
ammette  l'ingresso  dell'interveniente  fino alla precisazione delle
conclusioni,  come  testualmente prevede l'art. 268 c.p.c. e, quindi,
la  proposizione, da parte sua, di una domanda nuova, il terzo dovra'
essere  ammesso  anche alle allegazioni necessarie, sia in fatto, sia
probatorie,  relative  alla  sua domanda, in quanto non avrebbe senso
consentire  la  proposizione della domanda se poi non fosse possibile
provarne   i   fatti  posti  a  fondamento.  Quindi,  come  sostenuto
convincentemente in dottrina, le preclusioni possono colpire il terzo
solo  in  quanto egli voglia compiere atti riferibili alla situazione
sostanziale  dedotta  dalle  parti  originarie,  mentre  non  possono
colpirlo   in  quanto  egli  voglia  compiere  atti  riferibili  alla
situazione  sostanziale  da  lui  dedotta  in giudizio con la domanda
d'intervento,  in  relazione  alla quale devono essergli riconosciuti
pieni  poteri  di  allegazione ed istruttori. Prendendo spunto da una
risalente  decisione della Corte costituzionale 3 giugno 1966, n. 53,
e'  stato  giustamente  affermato che la tutela giurisdizionale delle
situazioni      giuridiche      garantite     dall'ordinamento     e'
incostituzionalmente  rifiutata  o  limitata  «se si nega o si limita
alla  parte  il  potere  processuale  di  rappresentare al giudice la
realta' dei fatti ad essa favorevoli». Il diritto alla prova, quindi,
non solo e' espressione costituzionale del diritto di difesa ma ancor
prima del diritto di azione.
    Il  problema  del  diritto  alla  prova del terzo volontariamente
intervenuto   non   puo'   neppure   essere  frettolosamente  risolto
affermando  che  il terzo intervenendo volontariamente deve subire le
preclusioni  gia'  maturate  per le altre parti e che e' rimessa alla
sua  insindacabile scelta la convenienza dell'intervento in relazione
alla fase processuale durante la quale interviene.
    In  realta'  l'istituto  dell'intervento  volontario assolve alla
fondamentale   esigenza   di   evitare   contrasti   di  giudicati  e
all'altrettanto importante principio di economia processuale.
    Non  puo'  farsi  a  meno  di  notare,  infatti,  che  il sistema
processuale  e'  permeato  dal favor per il processo cumulativo (cfr.
artt.  31-33,  36,  40, 103, 104, 106, 107, 274, 344), che resterebbe
mortificato  nella  sua  espressione  piu'  classica  se  si seguisse
l'orientamento  criticato.  Inoltre,  bisogna  rilevare  che il terzo
potrebbe  attivare  un  processo autonomo nei confronti delle attuali
parti  del  giudizio ovvero potrebbe intervenire in appello (art. 344
c.p.c.)  oppure  potrebbe  proporre  opposizione  di  terzo (art. 404
c.p.c)  e  in  questi  casi  il suo diritto alla prova non sarebbe in
alcun modo compromesso.
    Non si puo' neppure superficialmente affermare che consentendo al
terzo  di  provare i fatti che sono a fondamento delle sue domande si
rallenterebbe  l'esito  del giudizio tra le parti originarie, perche'
se  il  terzo  fosse  costretto  ad  azionare  un  autonomo giudizio,
esigenze  di  speditezza non potrebbero facilmente impedire, a fronte
dell'esigenza  di  evitare  contrasti  di  giudicati, la riunione del
nuovo  giudizio a quello originario con conseguente rallentamento del
processo   originario   e   con   il   riaffiorare  dei  problemi  di
coordinamento  del regime delle preclusioni diversamente operanti nei
procedimenti  da  riunire.  A  cio' deve aggiungersi che per le parti
originarie  sarebbe  piu'  svantaggioso doversi difendere in un nuovo
autonomo  giudizio  dovendo affrontare le spese dello stesso a fronte
dell'inutilita'  delle spese sostenute nel precedente processo. Anche
per  l'amministrazione  della  giustizia  dover  affrontare  un nuovo
processo  per  lo  stesso  oggetto sarebbe poco conveniente. Analoghe
considerazioni  possono  essere  compiute  nel  caso  in cui il terzo
decida    di    restare    inizialmente   nell'ombra   per   proporre
successivamente opposizione di terzo.
    L'art. 404 c.p.c., infatti, consente al terzo di fare opposizione
contro   la  sentenza  passata  in  giudicato  o  comunque  esecutiva
pronunciata  tra  altre  persone quando pregiudica i suoi diritti. La
ratio  sottesa all'istituto dell'intervento del terzo nel processo e'
proprio  quella di evitare da un lato l'onere per le parti originarie
di difendersi in un nuovo processo e altresi' di evitare che si formi
una  sentenza  esecutiva  o  addirittura passata in giudicato che sia
posta  in  discussione  nel  giudizio  promosso dal terzo ex art. 404
c.p.c.
    L'art.  268  c.p.c.  appare,  quindi,  nell'attuale  formulazione
sospetto  di  illegittimita'  costituzionale  non solo per violazione
degli  artt. 24 e 111 della Costituzione ma, altresi', per violazione
dell'art.  3  della  Costituzione  stante  la  irragionevolezza della
disposizione  al  cospetto  degli artt. 274, 344 e 404 c.p.c. che non
precludono  al  terzo  il diritto di proporre la medesima domanda che
potrebbe  proporre  con  l'atto  di  intervento senza limitazione del
diritto alla prova.
    L'esigenza  di  garantire  il  diritto  alla prova, tuttavia, non
riguarda  soltanto  il terzo interveniente ma riguarda anche le parti
originarie  del  processo.  Gli  attori,  infatti,  per  reagire alla
domanda  proposta  nei  loro  confronti  da  Telli  hanno, come sopra
accennato,  dedotto  un capitolo di prova a verbale ed hanno chiesto,
sul   capitoli   di  prova  gia'  ammessi,  l'interrogatorio  formale
dell'intervenuto.  I  Bernardelli  hanno,  inoltre,  prodotto diversi
documenti  ed  hanno,  altresi', chiesto nell'udienza di precisazione
delle conclusioni di produrne altri.
    L'attuale   sistema   rigido  delle  preclusioni  istruttorie  ha
impedito  al giudice di valutare la rilevanza delle prove costituende
dedotte  dagli  attori  e  l'utilizzabilita' dei documenti depositati
(particolarmente   significativi  per  la  definizione  del  giudizio
analogamente a quelli prodotti da Teli) incontra gli stessi limiti di
quelli  prodotti  dal  terzo.  Anche  nei  loro confronti, quindi, si
rileva  una lesione del diritto alla prova come surrogato del diritto
di difesa.
    Sia  l'attore  che  il convenuto, infatti, assumono rispetto alla
domanda  svolta  dal  terzo la condizione sostanziale di convenuti ai
quali,  quindi,  a  parere  del  sottoscritto  giudice, devono essere
riconosciuti  adeguati  strumenti  processuali  che gli consentano di
contrastare,  almeno sotto il profilo probatorio, la domanda proposta
nei loro confronti.
    Appare,  quindi,  rilevante  e  non  manifestamente  infondata la
questione  di legittimita' costituzionale dell'articolo 268, comma 2,
c.p.c.  nella  parte  in  cui  non  consente  alle  parti  in caso di
intervento  di  terzo  principale  o litisconsortile, successivo allo
scadere  dei termini cui all'art. 184 c.p.c., di depositare documenti
e  indicare  nuovi mezzi di prova rispetto alla domanda formulata con
l'atto di intervento.
    C)  L'attuale  sistema  normativo presenta, inoltre, a parere del
remittente,  il  sospetto  di  un ulteriore profilo di illegittimita'
costituzionale  sotto l'aspetto della lesione del diritto di azione e
difesa delle parti originarie del processo che subiscono l'intervento
principale  o  litisconsortile  del  terzo,  sebbene  cio'  non abbia
costituito  oggetto  di  confronto  tra le parti. Sia l'attore che il
convenuto,  infatti,  se  l'intervento del terzo non avviene entro il
termine  per  la costituzione del convenuto non hanno la possibilita'
di  proporre  le  domande  e  le eccezioni che sono conseguenza della
domanda  svolta  dal  terzo,  ne'  possono  precisare o modificare le
domande, le eccezioni o le conclusioni gia' proposte (art. 183, comma
5, c.p.c.) ne' hanno la possibilita', come visto, di articolare mezzi
di prova o depositare documenti.
    Il  problema  appare  rilevante  per  la definizione del presente
giudizio   poiche'   gli  attori,  dopo  la  costituzione  del  terzo
(successiva  rispetto  al  termine  per  articolare  mezzi di prova e
produrre   documenti),  hanno  depositato  memorie  -  in  cui  hanno
sollevato  eccezioni  e  allegato  nuovi  fatti  - e documenti; hanno
sollecitato,  come gia' esposto, l'ammissione di un capitolo di prova
dedotto  a  verbale  nonche'  l'interrogatorio  formale del terzo, ed
hanno  chiesto,  all'udienza  di  precisazione  delle conclusioni, di
depositare  ulteriore documentazione. Sull'ammissibilita' delle prove
costituende  e sull'utilizzabilita' dei documenti prodotti si e' gia'
detto.  Prima  ancora  dei limiti probatori, tuttavia, l'attore ed il
convenuto  non  hanno  avuto  la possibilita' (perche' preclusa dalla
fase  processuale)  di  proporre  le  domande e le eccezioni che sono
conseguenza  della  domanda svolta dal terzo (salvo quanto dedotto ed
eccepito  a  verbale  e con memoria ma con gli insuperabili limiti di
ammissibilita'  per  intervenuta preclusione connessa alla fase), ne'
hanno  potuto  precisare  o  modificare le domande, le eccezioni o le
conclusioni gia' proposte.
    La   domanda   proposta   dal  terzo  ha,  chiaramente,  alterato
l'impostazione  originaria  della  causa che l'attore ed il convenuto
avevano  iniziato, generando, soprattutto negli attori, l'esigenza di
allegare nuove circostanze per contrastare la pretesa di Telli. Anche
i  documenti  prodotti,  in realta', sostengono altrettante eccezioni
alla pretesa del terzo.
    Il  problema  dei  poteri  delle  parti  originarie rispetto alle
domande  formulate  dal  terzo  e'  gia'  stato esaminato dalla Corte
costituzionale  con  sentenza  n. 193  del  1983,  con  la  quale  ha
dichiarato  illegittimo  l'art. 419 c.p.c. nella parte in cui, ove un
terzo  spieghi  intervento  volontario, non attribuisce al giudice il
potere  dovere  di  fissare  -  con  il  rispetto  del termine di cui
all'art.  415, comma 5, c.p.c. - una nuova udienza, non meno di dieci
giorni  prima  della  quale  potranno  le parti originarie depositare
memoria,  e  di  disporre  che, entro cinque giorni, siano notificati
alle  parti  originarie  il  provvedimento di fissazione e la memoria
dell'interveniente,   e   che   sia   notificato  a  quest'ultimo  il
provvedimento di fissazione della nuova udienza.
    Nella  circostanza  la  Corte  ha operato un confronto tra l'art.
420,  comma  9,  c.p.c.,  che  prescrive che «nel caso di chiamata in
causa  a norma degli artt., 102, secondo comma, 106 e 107, il giudice
fissa  una  nuova  udienza  e dispone che, entro cinque giorni, siano
notificati  al terzo il provvedimento nonche' il ricorso introduttivo
e  l'atto  di  costituzione  del  convenuto»,  e  l'art.  419  c.p.c.
(intervento    volontario)   che   non   prevedeva   lo   spostamento
dell'udienza.  La  Corte  ha,  quindi,  osservato che «Se si riflette
sulla  ampliatio  della  cognizione  propria  della  originaria  lite
provocata  non  solo  nelle  ipotesi di litisconsorzio necessario, di
comunanza  obiettiva  tra  parti  originarie e terzo e di chiamata in
garanzia,  ma  anche  nelle  aree  in  cui  affondano le radici degli
interventi  volontari  principale  e  adesivo  autonomo (...) nonche'
dello  stesso  intervento  adesivo  dipendente non si vede perche' il
diritto  di  difesa  delle  parti  originarie,  contro  le  quali  si
appuntano  le pretese degli intervenienti volontari e dell'avversario
del  coadiuvato dall'interveniente adesivo dipendente, debbano essere
garantite  in  guisa  diversa  e  meno  incisiva  del modo con cui al
legislatore  e'  parso  giusto assicurarlo allorquando ha plasmato il
nono e il decimo comma dell'art. 420 c.p.c.
    Come  al  terzo, di cui agli artt. 102, 106 e 107, debbono essere
notificati  il  provvedimento  di  fissazione  di  una  nuova udienza
nonche'   il  ricorso  introduttivo  e  l'atto  di  costituzione  del
convenuto  e,  in  primis  et  ante omnia e' d'uopo fissare una nuova
udienza,  nella  quale  parti originarie e interveniente, anche sulla
base  della  memoria  del  terzo,  siano posti in grado di discutere,
nelle  nuove  sue  dimensioni,  la  causa, cosi' allorquando un terzo
spiega  intervento  volontario  e' da attribuire al giudice il potere
dovere di fissare ... una nuova udienza».
    Ebbene,  l'art.  420,  comma  9,  c.p.c., disciplina l'ipotesi di
chiamata  in  causa  del  terzo in maniera sostanzialmente identica a
quanto  prescrive  l'art.  269, comma 2, c.p.c., con riferimento alla
chiamata  in  causa  del terzo su istanza del convenuto. Anche in tal
caso,  infatti,  «il  giudice  istruttore,  entro cinque giorni dalla
richiesta,  provvede  con  decreto  a  fissare  la  data  della nuova
udienza.   Il  decreto  e'  comunicato  dal  cancelliere  alle  parti
costituite.   La   citazione  e'  notificata  al  terzo  a  cura  del
convenuto».  Anche  nel  rito  civile  ordinario,  quindi, l'art. 268
c.p.c.  non prevede la fissazione di una nuova udienza cosi' come non
lo prevedeva l'art. 419 c.p.c.
    La   motivazione   adottata   dalla   Corte   costituzionale  con
riferimento all'art. 419 c.p.c. e' ripetibile anche rispetto all'art.
268  c.p.c.  stante la sostanziale identita' tra l'art. 420, comma 9,
c.p.c., e l'art. 269, comma 2, c.p.c.
    In  motivazione  la  Corte ha anche replicato ad un'eccezione che
potrebbe  essere  riproposta  in  questa  sede,  cioe' che non «giova
ripetere  quel  che  da  taluno  si  e'  opposto,  e  cioe' che nulla
vieterebbe  al giudice, avanti il quale e' stato spiegato intervento,
di   fissare  motu  proprio  altra  udienza  perche'  le  ipotesi  di
fissazione  di altra udienza sono tassative [anche nel rito civile la
sequenza  delle  udienze e' scandita in maniera precisa dal codice di
rito]  e  al diritto di difesa dell'interveniente e delle altre parti
non  puo'  sopperirsi con le normali tecniche applicative delle norme
ordinarie  o  -  peggio - con la violazione delle stesse». Il giudice
comunque non potrebbe consentire alle parti di proporre domande nuove
o  eccezioni  se i termini di cui all'art. 183 c.p.c. sono decorsi al
momento dell'intervento del terzo.
    Se da un lato, quindi, si riconosce al terzo di proporre, fino al
momento  della  precisazione  delle  conclusioni,  una  domanda in un
processo  iniziato  da  altre parti, dall'altro bisogna riconoscere a
queste  - salvo alterare irrimediabilmente il principio della parita'
delle  parti  nel processo - di esercitare appieno il loro diritto di
difesa,  riconoscendogli  tutti  gli strumenti che il processo civile
attribuisce,  se  non  al  convenuto, almeno, all'attore che reagisce
alla domanda riconvenzionale.
    Orbene,  se l'intervento del terzo e' ammissibile fino al momento
della  precisazione delle conclusioni, cio' non deve trasformarsi per
esso  in un «vantaggio processuale» e ritorcersi contro il diritto di
difesa  delle  parti  originarie  del processo che attualmente appare
eccessivamente compromesso.
    In  definitiva appare rilevante e non manifestamente infondata la
questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 268 c.p.c., per
violazione degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, nella parte in
cui in caso di intervento volontario principale o litisconsortile non
attribuisce  al giudice il potere dovere di fissare - con il rispetto
del  termine di cui all'art. 163-bis, c.p.c. - una nuova udienza, non
meno  di  venti giorni prima della quale le parti originarie potranno
depositare  memoria  e di disporre che sia notificato a queste ultime
il  provvedimento  di  fissazione.  In tal modo alle parti originarie
sarebbe  data  la  possibilita'  di  proporre le eventuali domande ed
eccezioni  che  sono  conseguenza  della  domanda  svolta  dal terzo,
nonche' di ottenere i termini di cui all'art. 183, comma 5, c.p.c.
    D)   Giova  ricordare,  infine,  che  il  legislatore  anche  con
riferimento  al  rito civile ha previsto espressamente di tutelare il
diritto  di  difesa  delle  parti  originarie  rispetto all'attivita'
difensiva  svolta  dal  terzo  non  chiamato  in  causa  inizialmente
dall'attore  ne'  dal  convenuto.  Ci  si riferisce al caso in cui la
chiamata  in causa del terzo sia stata chiesta al giudice dall'attore
a  seguito  delle  difese  svolte  dal  convenuto. Anche in tal caso,
quindi,   la  partecipazione  al  giudizio  del  terzo  (analogamente
all'ipotesi   di   intervento  volontario)  non  era  stata  prevista
dall'attore  ne'  era  stata  richiesta  dal  convenuto. In tal caso,
tuttavia,  proprio  per  tutelare  a pieno il diritto di difesa delle
parti  originarie  il legislatore, ha previsto all'art. 269, comma 5,
c.p.c.,  che  «restano  ferme per le parti le preclusioni ricollegate
alla  prima  udienza  di  trattazione, ma il termine eventuale di cui
all'ultimo  comma  dell'art.  183  e'  fissato dal giudice istruttore
nella  udienza di comparizione del terzo, e i termini di cui all'art.
184  decorrono  con  riferimento  alla udienza successiva a quella di
comparizione».
    Pare,  quindi,  che  l'art.  268  c.p.c.  disciplini  in  maniera
differente  a  quella  prevista  dall'art.  269, comma 5, c.p.c., una
situazione  sostanzialmente  analoga. Secondo il sottoscritto giudice
nel  caso  di  intervento  volontario principale o litisconsortile in
causa  di  un  terzo  deve essere riconosciuta alla parti originarie,
conformemente a quanto previsto dall'art. 269, comma 5, c.p.c., e con
riferimento  alle domande svolte dal terzo, almeno la possibilita' di
chiedere  il  termine  di  cui  all'art.  183,  comma  5,  c.p.c.,  e
all'udienza  successiva  il  termine  di  cui  all'art.  184,  c.p.c.
L'accoglimento di tale questione, subordinata al mancato accoglimento
della   precedente,   avrebbe   il  vantaggio  di  non  prevedere  lo
spostamento  dell'udienza,  con conseguente risparmio di tempo - cio'
anche  al  fine  di interventi volontari con finalita' esclusivamente
dilatorie  -  e al contempo di assicurare alle parti originarie ed al
terzo la possibilita', rispetto alle domande svolte dal terzo, almeno
di  precisare  o modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni
gia'  proposte e di articolare mezzi di prova e depositare documenti,
ferme  restando  le  decadenze  maturate  tra le parti originarie del
giudizio rispetto alle originarie pretese.
    Appare,  quindi,  rilevante  e  non  manifestamente  infondata la
questione  di  legittimita'  costituzionale dell'articolo 268 c.p.c.,
per  violazione  degli  artt.  3,  24 e 111 della Costituzione, nella
parte  in  cui  non  prevede  che,  ferme per le parti le preclusioni
ricollegate  alla  prima udienza di trattazione, il termine eventuale
di  cui  all'ultimo  comma  dell'art.  183  e'  fissato  dal  giudice
istruttore  nella  udienza  di comparizione del terzo, e i termini di
cui  all'art. 184 decorrono con riferimento alla udienza successiva a
quella di comparizione».
                              P. Q. M.
    Letto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
    Ritenuta   rilevante  e  non  manifestamente  infondata,  solleva
d'ufficio  la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 268,
comma  2,  c.p.c.,  per  violazione  degli  artt.  3,  24 e 111 della
Costituzione,  nella parte in cui non consente alle parti, in caso di
intervento  di  terzo  principale  o litisconsortile, successivo allo
scadere  dei  termini  di cui all'articolo 184, c.p.c., di depositare
documenti  e  indicare  nuovi  mezzi  di  prova rispetto alla domanda
formulata con l'atto di intervento.
    Ritenuta   rilevante  e  non  manifestamente  infondata,  solleva
d'ufficio  la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 268,
c.p.c.,  per  violazione  degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione,
nella  parte  in  cui,  in caso di intervento volontario principale o
litisconsortile,  non  attribuisce  al  giudice  il  potere dovere di
fissare - con il rispetto del termine di cui all'art. 163-bis, c.p.c.
-  una  nuova  udienza, non meno di venti giorni prima della quale le
parti  originarie  potranno  depositare memoria e di disporre che sia
notificato a queste ultime il provvedimento di fissazione.
    In  subordine,  solleva  d'ufficio  la  questione di legittimita'
costituzionale  dell'art.  268, c.p.c., per violazione degli artt. 3,
24 e 111 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che ferme
per  le  parti  le  preclusioni  ricollegate  alla  prima  udienza di
trattazione,  il  termine eventuale di cui all'ultimo comma dell'art.
183,  c.p.c.,  e'  fissato  dal  giudice  istruttore nella udienza di
comparizione  del  terzo,  e  i  termini di cui all'art. 184, c.p.c.,
decorrono  con  riferimento  alla  udienza  successiva  a  quella  di
comparizione.
    Sospende il processo.
    Dispone  che  la  presente ordinanza sia integralmente notificata
alle parti e al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai
Presidenti delle due Camere del Parlamento.
    La cancelleria curera' tali adempimenti.
        Lodi, addi' 10 febbraio 2003
                        Il giudice: Gargiulo
03C00641