N. 3 SENTENZA 15 - 24 gennaio 1969

                                  N. 3
                        SENTENZA 15 GENNAIO 1969
                Deposito in cancelleria: 24 gennaio 1969.
       Pubblicazione in "Gazz. Uff.le" n. 25 del 29 gennaio 1969.
                     Pres. SANDULLI - Rel. CAPALOZZA
     Procedure  concorsuali  -  Concordato  preventivo - R. D.  16 marzo
 1942, n. 267, art. 163, primo comma, n. 4, e secondo comma - Preventivo
 deposito della somma occorrente per le spese  di  procedura  -  Pretesa
 analogia  con  il  "solve  et  repete"  e  la  "cautio  pro expensis" -
 Insussistenza - Non violano il principio di eguaglianza ed  il  diritto
 di difesa - Esclusione di illegittimita' costituzionale. (Costituzione,
 artt. 3 e 24).
(GU n.25 del 25-1-1969 )
                         LA CORTE COSTITUZIONALE
     composta  dai  signori:  Prof.  ALDO  SANDULLI,  Presidente - Prof.
 GIUSEPPE BRANCA - Prof.  MICHELE FRAGALI - Prof. COSTANTINO  MORTATI  -
 Prof.  GIUSEPPE  CHIARELLI  -  Dott.  GIUSEPPE  VERZI' - Dott. GIOVANNI
 BATTISTA BENEDETTI - Prof. FRANCESCO  PAOLO  BONIFACIO  -  Dott.  LUIGI
 OGGIONI  -  Dott. ANGELO DE MARCO - Avv.  ERCOLE ROCCHETTI - Prof. ENZO
 CAPALOZZA - Prof. VINCENZO MICHELE TRIMARCHI - Prof.  VEZIO  CRISAFULLI
 - Dott. NICOLA REALE, Giudici,
     ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
     nei  giudizi riuniti di legittimita' costituzionale dell'art.  163,
 primo comma, n. 4, e secondo comma, del R.D.  16  marzo  1942,  n.  267
 (legge fallimentare), promossi con le seguenti ordinanze:
     1)  ordinanza emessa il 12 maggio 1967 dal tribunale di Cassino nel
 procedimento  di   concordato   preventivo   chiesto   dalla   societa'
 "Molino-pastificio e lanificio in S.  Domenico", iscritta al n. 102 del
 Registro  ordinanze  1967  e  pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
 Repubblica n.  170 dell'8 luglio 1967;
     2) ordinanza emessa il 13 gennaio 1968 dal  tribunale  di  Cagliari
 nel  procedimento  di  concordato  preventivo  chiesto  dalla  societa'
 "Sardespa manifattura di Venafiorita", iscritta al n. 21  del  Registro
 ordinanze  1968  e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n.  65 del 9 marzo 1968.
     Visti gli  atti  d'intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri e di costituzione della societa' Sardespa;
     udita  nell'udienza  pubblica  del 6 novembre 1968 la relazione del
 Giudice Enzo Capalozza;
     udito il sostituto avvocato generale dello Stato Luciano  Tracanna,
 per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
                           Ritenuto in fatto:
     1.  -  La sezione fallimentare del tribunale di Cassino con decreto
 del  28  aprile  1967,  ammetteva  la  societa'  "Molino-pastificio   e
 lanificio  in  S.  Domenico", con sede in Isola Liri, alla procedura di
 concordato preventivo, con cessione di beni, ordinando alla ricorrente,
 ai sensi dell'art. 163, primo comma, n. 4, del R.D. 16 marzo  1942,  n.
 267  (legge  fallimentare),  di depositare la somma di lire 15 milioni,
 ritenuta presumibilmente necessaria per le spese dell'intera procedura,
 ivi comprese quelle di registro.
     Con ricorso depositato il 9 maggio successivo, la societa' chiedeva
 la revoca dell'ordine di deposito, deducendo che  nella  determinazione
 del suo ammontare, non doveva essere computata la tassa di registro sul
 concordato - non ancora stipulato - prevista dall'art. 32 della tariffa
 allegato  A,  Parte  I,  del  R.D.  30 dicembre 1923, n. 3269 (legge di
 registro);   in   subordine,   proponeva  eccezione  di  illegittimita'
 costituzionale di quest'ultima disposizione, in relazione  alla  citata
 norma  della  legge fallimentare, per assunta disparita' di trattamento
 tra il debitore possidente e quello  impossidente  nella  richiesta  di
 ammissione al concordato preventivo, con cessione dei beni.
     Deduceva  al riguardo la ricorrente l'incongruita' della situazione
 in cui verrebbe a trovarsi chi propone la cessione di tutti i suoi beni
 e deve, poi, versare altre somme,  di  cui  non  e'  in  possesso,  per
 ottenere l'ulteriore corso della sua domanda; prospettava l'analogia di
 tale situazione normativa con quella del solve et repete, gia' ritenuta
 costituzionalmente  illegittima dalla giurisprudenza di questa Corte; e
 denunziava,  infine,  il  carattere  punitivo  della  dichiarazione  di
 fallimento,  per  il  fatto  di  dovere  essere  pronunziata d'ufficio,
 qualora non sia stato eseguito il prescritto deposito.
     Il tribunale non accoglieva il ricorso. Peraltro, con ordinanza del
 12 maggio 1967, sulla base di argomenti diversi da  quelli  prospettati
 dalla  ricorrente,  sollevava  questione di legittimita' costituzionale
 del citato art. 163, primo comma, n. 4, della  legge  fallimentare,  in
 riferimento all'art. 24 della Costituzione.
     Osservava  il  tribunale,  nel  respingere  l'istanza di revoca del
 decreto, che l'ordine di deposito della somma  era  stato  adottato  in
 conformita'   alla   legge   e  con  determinazione  prudenziale  della
 presumibile spesa della procedura,  tenuto  anche  conto  dell'aliquota
 (due  per  cento)  della  tassa  di  registrazione  del  concordato  da
 applicare, alla stregua della legge tributaria, sul  valore  dei  beni,
 oggetto  della  cessione,  ammontante nella specie a circa 550 milioni.
 Sulla eccezione  di  illegittimita'  costituzionale  di  questa  ultima
 disposizione,  nei  termini  in  cui  era  stata proposta, faceva, poi,
 presente che l'osservanza della norma, in quella fase, assumeva rilievo
 esclusivamente  per  determinare  l'importo  delle  spese   dell'intera
 procedura,  tra  le quali, appunto, rientra la tassa di registro, e non
 anche, invece, ai fini dell'assolvimento immediato di questo tributo.
     Nel motivare  sulla  non  manifesta  infondatezza  della  questione
 sollevata  d'ufficio  -  nella  quale  dichiarava  assorbita ogni altra
 questione proposta dalla ricorrente - il  tribunale  deduceva,  infine,
 essere  innegabile,  prima  facie,  che,  in  violazione  del  precetto
 contenuto nell'art. 24 della  Costituzione,  che  garantisce  di  poter
 adire  comunque  l'autorita'  giudiziaria, questa facolta' e' in taluni
 casi compromessa dalla norma denunziata. La quale, mentre, da un  lato,
 presuppone  l'insolvenza  del debitore per l'ingresso alla procedura di
 concordata  preventivo,  dall'altro  lato,   in   antitesi   con   tale
 presupposto.  impone  l'obbligo  del  preventivo versamento delle spese
 dell'intera procedura, e ne fa una  condizione  per  l'ulteriore  corso
 della  domanda:  e,  cosi',  attribuisce  al  debitore  insolvente  una
 disponibilita' economica che talvolta e' considerevole, come  nel  caso
 in cui si tratti di cessione di beni di entita' rilevante.
     L'ordinanza,   ritualmente   notificata   e  comunicata,  e'  stata
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 170 dell'8 luglio 1967.
     Dinanzi a questa Corte non vi e' stata costituzione di alcuna delle
 parti del giudizio ordinario.  Invece, con atto depositato in  data  16
 giugno  1967,  e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri,
 rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato,  il  quale
 chiede che la questione sia dichiarata non fondata.
     Deduce  l'Avvocatura  che il concordato preventivo, nelle due forme
 previste dall'art. 160 della legge fallimentare, costituisce  un  mezzo
 consentito  all'imprenditore  commerciale  in  istato di insolvenza per
 evitare il fallimento; e, secondo la prevalente dottrina,  consiste  in
 un  contratto  riconducibile  alla  figura  generale della transazione,
 "accompagnata da una promessa di  garanzia  a  favore  dei  creditori".
 Sebbene  esso  si  perfezioni  con  l'omologazione  del  tribunale,  la
 relativa sentenza e' "estrinseca al concordato", di cui costituisce una
 semplice condizione di efficacia.  Stante  tale  natura  di  negozio  a
 contenuto  transattivo,  la  relativa  procedura  non  rivestirebbe  il
 carattere e la funzione di un'azione a  protezione  giurisdizionale  di
 diritti soggettivi.
     Ad  avviso  dell'Avvocatura,  farebbe  parte  del  contenuto  della
 proposta del debitore in istato di  insolvenza  l'offerta  di  garanzie
 idonee,  per  quanto  riguarda  il pagamento, sia della percentuale dei
 debiti, sia delle spese  dell'intero  negozio,  che  dovrebbero  essere
 sopportate  dalla  massa  attiva,  anche  per quanto riguarda i tributi
 attinenti al concordato, i quali rischierebbero altrimenti di  rimanere
 a  carico  dei  creditori, senza possibilita' di recupero nei confronti
 del debitore insolvente.
     Con successiva memoria depositata il 24 ottobre 1968,  l'Avvocatura
 generale  dello  Stato, insistendo nelle sue conclusioni, sottolinea la
 mancanza di una qualsiasi analogia fra l'istituto del solve et repete e
 l'onere previsto dalla norma denunziata. Nel ribadire  che  tale  onere
 non   costituirebbe  una  condizione  per  l'esperimento  di  un'azione
 giudiziaria intesa alla protezione di un diritto  soggettivo  o  di  un
 interesse  legittimo,  ma  riguarderebbe  esclusivamente il negozio del
 concordato, rispetto al quale  l'intero  procedimento  di  omologazione
 sarebbe  estrinseco, l'Avvocatura afferma che, nell'ambito dei rapporti
 tra il negozio e tale procedimento, posto come condizione legale  della
 sua  efficacia,  l'onere  suddetto  apparirebbe pienamente giustificato
 dalla particolare struttura del negozio stesso. E  cio'  in  quanto  il
 debitore,  nell'incapacita'  di  pagare  integralmente  i  suoi debiti,
 farebbe una proposta di carattere  transattivo,  che  dovrebbe,  pero',
 essere  confortata  da  concrete garanzie, tra le quali, appunto, e' da
 collocarsi il versamento anticipato di spese e tributi.
     L'obbligo di depositare preventivamente la somma  relativa  sarebbe
 piu'    che    giustificato   dal   fatto   che   trattasi   di   somma
 incontestabilmente dovuta dal  debitore,  in  quanto  questi,  con  sua
 proposta  di  concordato, intesa ad ottenere il beneficio del pagamento
 parziale dei suoi debiti, riconosce la sua situazione  debitoria. Sotto
 questo  profilo  l'Avvocatura  deduce  che,  pur  se  fosse   possibile
 considerare  l'intero  iter del concordato preventivo quale un istituto
 unitario di carattere processuale, la concessione del beneficio sarebbe
 sempre da ritenere condizionata alla prova concreta, data dal debitore,
 di essere in rado  di pagare sia i creditori sia le  spese  concernenti
 la procedura.
     2.  -  Una  questione  analoga  di  legittimita' costituzionale del
 citato art. 163, primo comma, n. 4, della legge fallimentare, oltre che
 del secondo comma dello stesso articolo, relativo  all'ipotesi  di  non
 eseguito  deposito  della  somma,  e'  stata sollevata dal tribunale di
 Cagliari, in  riferimento  agli  artt.  3,  primo  comma,  e  24  della
 Costituzione,  nella  procedura  di  concordato preventivo, aperta, nei
 confronti   della   societa'   per   azioni   Sardespa-manifattura   di
 Venafiorita, con decreto del 28 novembre 1967.
     Con  tale decreto, veniva, fra l'altro, fissata in lire 50 milioni,
 la somma che si presumeva necessaria per l'intera procedura.
     In data  11  dicembre  1967,  la  societa'  proponeva  la  suddetta
 questione  di  legittimita' costituzionale, che veniva, poi, ampiamente
 illustrata con successiva memoria e, subordinatamente, per l'ipotesi di
 mancato accoglimento, chiedeva, ai sensi  dell'art.  167  della  citata
 legge  fallimentare,  di  essere  autorizzata  a contrarre un mutuo o a
 vendere merci fino alla concorrenza di 40 milioni per reperire la somma
 necessaria ad eseguire il prescritto deposito. E, frattanto, versava il
 giorno successivo lire 10 milioni, in parziale esecuzione  del  decreto
 di ammissione alla procedura.
     Con  ordinanza  del  13  gennaio  1968,  il  tribunale, al quale il
 commissario giudiziale aveva chiesto i provvedimenti conseguenziali  al
 mancato  deposito nei termini dell'intera somma, riteneva pregiudiziale
 l'esame della proposta questione  di  legittimita'  costituzionale,  in
 ordine  alla  quale osservava che la precedente rimessione della stessa
 questione a questa Corte da parte del  tribunale  di  Cassino  influiva
 negativamente  sul  potere  di  altri  giudici  di  dichiarare  la  non
 manifesta infondatezza.
     Nel merito deduceva, in riferimento all'art. 3 della  Costituzione,
 che  il  fatto  stesso  di  imporre  il  deposito  di  una somma, quale
 condizione per l'esperimento di una procedura, sembrerebbe  contrastare
 con  il  principio  di eguaglianza, dato che, in tal modo, il beneficio
 del concordato preventivo viene concesso solo a chi  ha  disponibilita'
 di  danaro  liquido  e  negato  ingiustificatamente  a  chi  difetta di
 liquidita'  all'inizio  della  procedura.  Sotto   il   profilo   della
 violazione  dell'art. 24 della Costituzione, il tribunale osservava poi
 che il "deposito", prescritto sotto comminatoria della dichiarazione di
 fallimento, sarebbe un onere di carattere  meramente  processuale,  non
 sorretto  da  adeguata giustificazione, sia perche' non previsto tra le
 condizioni di ammissione alla procedura, sia perche' in  contrasto  con
 il  fine  dell'istituto  del concordato preventivo, che mira a salvare,
 piu' che il debitore, l'impresa nell'interesse della comunita'.
     L'ordinanza,  ritualmente  notificata  e   comunicata,   e'   stata
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 65 del 9 marzo 1968.
     Nel  giudizio  dinanzi  a questa Corte si e' costituita la societa'
 con deduzioni depositate il 28 febbraio 1968, nelle quali si chiede che
 sia dichiarata l'illegittimita' costituzionale delle norme  denunziate.
 Dopo  ampi  riferimenti dottrinali sull'ammissibilita' della questione,
 in relazione anche all'affermata natura giudiziale della  procedura  di
 concordato preventivo, nonche' sulla funzione economica e giuridica del
 prescritto  deposito  della somma per le spese dell'intero giudizio, la
 difesa della societa' richiama, fra l'altro,  le  precedenti  decisioni
 nelle  quali  questa Corte ha ritenuto violato il precetto dell'art. 24
 della  Costituzione,  e,  quanto  alla  violazione  del  principio   di
 eguaglianza, fa presente la disparita' di trattamento cui da' luogo, in
 ordine  alla  disponibilita'  della  somma occorrente per il prescritto
 deposito, la situazione dell'impresa finanziaria, caratterizzata  dalla
 mobilita'   di   investimenti,   rispetto  a  quella  dell'imprenditore
 esercente un'attivita' industriale, che presuppone, invece,  fortissimi
 immobilizzi tecnici, caratterizzati dal difetto di mobilita'.
                         Considerato in diritto:
     1.  - Le due cause sono strettamente connesse e vengono riunite per
 essere decise con unica sentenza.
     2. - Sono state  denunziate  a  questa  Corte  le  norme  contenute
 nell'art.  163,  primo  comma,  n. 4, e secondo comma del R.D. 16 marzo
 1942, n. 267 (c.d. legge fallimentare). Con la prima si pone, a  carico
 dell'imprenditore  insolvente  ammesso  alla  procedura  del concordato
 preventivo, l'onere di depositare, nella cancelleria del tribunale, nel
 termine  non  superiore  ad  otto  giorni,  la  somma  che  si  presume
 necessaria  per l'intera procedura, nella misura stabilita dallo stesso
 provvedimento di ammissione al beneficio del concordato preventivo; con
 l'altra, si statuisce che, nel caso di mancato versamento del deposito,
 il tribunale, in applicazione del secondo comma del precedente art. 162
 della stessa legge, dichiari d'ufficio il fallimento del  debitore.  Se
 ne  deduce  l'illegittimita'  costituzionale  per  violazione  sia  del
 principio di eguaglianza, sia della garanzia  del  diritto  di  difesa,
 assumendosi,  circa  la  prima  violazione,  che,  a  motivo dell'onere
 anzidetto - in quanto comprensivo dall'anticipazione  delle  spese  del
 tributo  per la registrazione del concordato - il beneficio verrebbe in
 pratica concesso solo a chi abbia disponibilita' di denaro liquido;  e,
 circa  la  seconda,  che  tratterebbesi  di un adempimento processuale,
 contrastante con le  finalita'  precipue  del  concordato,  e  tale  da
 compromettere la tutela giurisdizionale.
     3.  -  E'  da osservare, in via preliminare, che ogni questione che
 possa insorgere sulla congruita' della somma occorrente  per  le  spese
 della   procedura   del   concordato   e  sulla  inclusione,  in  essa,
 dell'approssimativo importo del tributo di  registro,  va  risolta  dal
 giudice  di  merito,  implicando un mero calcolo e, rispettivamente, la
 interpretazione della portata della somma, irrilevante sul piano  della
 legittimita' costituzionale.
     Cio'  premesso,  e'  da  tenere  presente che la disciplina dettata
 dalle disposizioni denunziate e' del tutto diversa da quelle  esaminate
 in precedenti sentenze di questa Corte.
     Nel  caso  del  solve  et  repete,  infatti,  la  somma  da  pagare
 anticipatamente  riguardava  la  stessa  obbligazione  controversa  nel
 giudizio,   di  cui  costituiva  l'oggetto,  sicche'  ne  derivava  una
 posizione di privilegio per una delle parti  in  causa,  oltreche'  una
 posizione di svantaggio per i soggetti meno abbienti.
     La  cautio  pro  expensis  (art.  98  del Cod. di proc. civ.), poi,
 concerneva il pagamento di somme a garanzia  dell'esito  del  giudizio,
 determinando  in  tal  modo,  anch'essa,  una posizione di sfavore alla
 parte non abbiente rispetto a quella abbiente.
     Del tutto diversa e,  anzi,  addirittura  antitetica  e'  l'ipotesi
 considerata  dalle norme denunziate, le quali si conformano al criterio
 generale  dell'anticipazione  delle  spese  degli  atti  necessari   al
 processo,  onde  renderne  possibile lo svolgimento (art. 90 Cod. proc.
 civ., artt. 38-42 Dispos.  att. Cod. proc. civ.).
     Tale onere, in applicazione del richiamato principio  generale,  e'
 posto,  qui,  a  carico dell'imprenditore istante, cioe' di chi, con la
 sua domanda di ammissione al concordato preventivo, ha  dato,  appunto,
 inizio alla procedura.
     D'altronde, vertendosi in materia di giurisdizione non contenziosa,
 dalla  quale  esula la soccombenza, le spese della procedura gravano su
 chi l'ha instaurata. Senza la loro anticipazione non potrebbero  essere
 svolti gli atti necessari al procedimento; e, al termine di questo, non
 sempre se ne otterrebbe il pagamento dall'imprenditore istante, dato il
 suo stato di insolvenza.
     Le  varie  procedure  concorsuali non sono stabilite nell'interesse
 del  dissestato,  che  e',  in  sostanza,  un   inadempiente,   bensi',
 primieramente,   nell'interesse  dei  creditori.  Per  soddisfare  tale
 interesse, occorre  che  le  spese  -  che,  una  volta  dichiarato  il
 fallimento,  gravano sulla massa - siano anticipate. Se non lo fossero,
 i creditori che hanno gia'  subito  una  falcidia,  potrebbero  essere,
 essi, tenuti al pagamento di somme solidalmente dovute.
     Anche a voler considerare l'ottemperanza al disposto dell'art. 163,
 primo  comma, n. 4, della citata legge fallimentare come una condizione
 di procedibilita', non sorge, per tale istituto  -  presente  in  varie
 branche  del  nostro  ordinamento  giuridico  - un problema generale ed
 indiscriminato di incostituzionalita'. Ne' varrebbe il rilievo  che  la
 conseguenza  del  mancato  deposito,  prevista  dall'art.  162, secondo
 comma,  e  richiamata  dall'art.  163,  secondo  comma   -   cioe'   la
 dichiarazione  di  fallimento - e' assai diversa e piu' grave di quella
 del mancato deposito previsto dal  citato  art.  90  Cod.  proc.  civ.,
 perche',  nella  procedura  in esame, sussistono ragioni di particolare
 urgenza  e  momento,  che  ottengono,  da  un  lato,  alla  tutela  dei
 creditori,  gia'  sacrificati  a  motivo  del  soddisfacimento soltanto
 parziale delle loro spettanze, dall'altro, alla crisi di impresa ed  al
 conseguente  turbamento  economico  che,  di  regola,  fa  seguito alla
 situazione di insolvenza: e'  logico  che  il  beneficio  accordato  al
 commerciante  dissestato  di  conseguire  il  concordato preventivo sia
 sottoposto a un regime assai rigoroso.
     Stante la diversa disciplina delle aziende  esercenti  il  credito,
 contenuta  nel  R.D.L.  8  febbraio  1924,  n. 136, va, poi, esclusa la
 violazione del principio di eguaglianza, prospettata con riferimento  a
 tale categoria di imprese, in quanto tale principio deve ritenersi - ed
 e'  stato ritenuto da questa Corte - rispettato ogni qualvolta la legge
 disciplini adeguatamente, in modo diverso, situazioni diverse.
     E'  da  escludersi,  infine,  la  violazione  del  diritto  sancito
 dall'art. 24, secondo comma, della Costituzione, dappoiche' resta fermo
 l'ingresso alla difesa giudiziaria, che e' sempre ammessa quando sia in
 corso una procedura dinanzi al giudice.
     La questione deve essere, pertanto, dichiarata infondata.
                            PER QUESTI MOTIVI
                         LA CORTE COSTITUZIONALE
     dichiara  non  fondata  la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 163, primo comma, n. 4, e secondo comma  del  R.D.  16  marzo
 1942,  n.  267  (legge  fallimentare), in riferimento agli artt. 3 e 24
 della Costituzione, sollevata con le ordinanze indicate in epigrafe.
     Cosi' deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 15 gennaio 1969.
                                   ALDO  SANDULLI  -  GIUSEPPE  BRANCA -
                                   MICHELE FRAGALI - COSTANTINO  MORTATI
                                   -   GIUSEPPE   CHIARELLI  -  GIUSEPPE
                                   VERZI' - GIOVANNI BATTISTA  BENEDETTI
                                   -  FRANCESCO  PAOLO BONIFACIO - LUIGI
                                   OGGIONI - ANGELO DE  MARCO  -  ERCOLE
                                   ROCCHETTI - ENZO CAPALOZZA - VINCENZO
                                   MICHELE  TRIMARCHI - VEZIO CRISAFULLI
                                   - NICOLA REALE.