N. 15 SENTENZA 14 gennaio - 1 febbraio 1982
N. 15 SENTENZA 14 GENNAIO 1982 Deposito in cancelleria: 1 febbraio 1982. Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 40 del 10 febbraio 1982. Pres. ELIA - Rel. FERRARI Processo penale - Carcerazione preventiva - D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, art. 10 (modificato dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15) - Prolunga la durata massima della detenzione prima del giudizio - Assunta irragionevolezza del termine di carcerazione preventiva nella fase tra il deposito dell'ordinanza di rinvio a giudizio e la sentenza di primo grado - Coerenza con l'occasio e la ratio della legge - Esclusione di illegittimita' costituzionale. Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale - Ordinanza di rimessione - Indicazione delle norme parametro negli artt. 13, primo, secondo e quinto comma, e 27, secondo comma, della Costituzione - Argomentazione, in realta' imperniata sul principio di ragionevolezza, richiamando non la giudisprudenza della Corte, ma la Convenzione europea dei diritti dell'uomo - Natura non costituzionale dei precetti di questa e difetto di criteri concreti in essa per delimitare la nozione di ragionevolezza. Carcerazione preventiva - D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, art. 10 - Prolungamento dei termini - Giudizio sulla idoneita' a raggiungere i fini perseguiti dalla norma - Insindacabilita' da parte della Corte. Stato di emergenza - Giustifica limitazioni ("misure insolite") legittime solo se temporanee, congrue e non producenti una sostanziale vanificazione della garanzia - Necessari provvedimenti coerentemente idonei ad eliminare situazioni di fatto sfavorevoli ("tempi morti"). Processo penale - Carcerazione preventiva - D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, art. 11 - Applicazione anche ai procedimenti in corso della norma sul prolungamento dei termini (art. 10) - Non sono violati gli artt. 13, primo, secondo e quinto comma, 25, secondo comma e 27, secondo comma, della Costituzione - Esclusione di illegittimita' costituzionale. Processo penale - Carcerazione preventiva e presunzione di non colpevolezza dell'imputato (Cost., artt. 13, u.co., e 27, secondo comma) - Principi contestualmente previsti e compatibili nel sistema costituzionale. Liberta' personale - Inviolabilita' - Carattere eccezionale delle limitazioni - Carcerazioni preventive in corso - Non sono al riparo da leggi posteriori che ne aumentino la durata - Non e' estensibile alle norme procedurali l'irretroattivita' disposta dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione - Scadenza dei termini - Riacquisto immediato della liberta'. Liberta' personale - Costituzione, art. 13 - Restrizioni - Casi e modi - Durata della carcerazione preventiva - Coordinamento delle diverse parti del precetto. Leggi penali - Irretroattivita' - Costituzione, art. 25, secondo comma - Non si estende dalle leggi penali sostanziali a quelle penali processuali (nella specie: a quelle relative alla carcerazione preventiva, che ha scopi essenzialmente connessi al processo). Carcerazione preventiva - Finalita' - Natura processuale. Processo penale - Carcerazione preventiva - D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, art. 11 - Prolungamento della durata della detenzione preventiva ai procedimenti in corso - Dubbio se l'asserita disparita' di trattamento derivi effettivamente dalla legge o da elementi casuali - Irrilevanza nei giudizi a quibus - Inammissibilita'.(GU n.40 del 10-2-1982 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Prof. LEOPOLDO ELIA, Presidente - Prof. EDOARDO VOLTERRA - Dott. MICHELE ROSSANO - Prof. ANTONINO DE STEFANO - Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN - Avv. ORONZO REALE - Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - Avv. ALBERTO MALAGUGINI - Prof. LIVIO PALADIN - Dott. ARNALDO MACCARONE - Prof. ANTONIO LA PERGOLA - Prof. VIRGILIO ANDRIOLI - Prof. GIUSEPPE FERRARI - Dott. FRANCESCO SAJA, Giudici,
ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi riuniti di legittimita' costituzionale degli artt. 10 e 11 del d.l. 15 dicembre 1979, n. 625 (misure urgenti per la tutela dell'ordine democratico e della sicurezza pubblica), come modificati dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15, promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza emessa il 3 maggio 1980 dal Giudice istruttore del Tribunale di Padova sull'istanza proposta da Gallimberti Ivo ed altri, iscritta al n. 453 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 215 del 6 agosto 1980; 2) ordinanza emessa il 21 luglio 1980 dal Giudice istruttore del Tribunale di Padova sull'istanza proposta da Mioni Luciano, iscritta al n. 673 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 311 del 12 novembre 1980; 3) ordinanza emessa il 17 novembre 1980 dalla Corte di Assise di Torino nel procedimento penale a carico di Naria Giuliano, iscritta al n. 34 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 83 del 24 marzo 1981; Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 24 novembre 1981 il Giudice relatore Giuseppe Ferrari; udito l'avvocato dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto: 1. - Nel corso del giudizio contro Naria Giuliano, imputato, tra l'altro, del reato di cui agli artt. 81, 110, 112, n. 1, 575, 577, n. 3, e 61, n. 9, del codice penale, la Corte d'assise di Torino, con ordinanza emessa il 17 novembre 1980 (Reg. ord. n. 34/1981), ha sollevato d'ufficio questione di legittimita' costituzionale dell'art. 10 del decreto legge 15 dicembre 1979, n. 625, convertito nella legge 6 febbraio 1980, n. 15. Il Naria, detenuto dal 6 ottobre 1976, sarebbe stato scarcerato il 6 ottobre 1980 per decorrenza del termine massimo di custodia preventiva, quale previsto dalla legge 7 giugno 1974, n. 220, di modifica dell'art. 272 c.p.p., che vigeva al momento della cattura (due anni per la fase istruttoria e due anni per la fase dibattimentale di primo grado), se non fosse sopravvenuto in corso di detenzione il decreto legge n. 625 del 1979. Poiche', infatti, l'art. 10 di tale decreto legge dispone che "i termini di durata massima della custodia preventiva sono prolungati di un terzo rispetto a quelli previsti", consentendo percio' una carcerazione preventiva di cinque anni e quattro mesi, se non interviene sentenza di condanna di primo grado, la detenzione del Naria, in attesa del giudizio, ha la scadenza, invece, del 6 febbraio 1982. Ma cosi' - rileva il giudice a quo -, non e' infondato il dubbio che siano stati travalicati quei "ragionevoli limiti senza l'osservanza dei quali la legge si pone in contrasto con il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza". Il nostro ordinamento, ratificando la "Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali", ne ha recepito i criteri e, quindi, anche quello di cui all'art. 5, paragrafo 3, il quale prescrive testualmente che chiunque venga privato della liberta' personale dev'essere giudicato entro un termine ragionevole, da valutarsi, secondo le pronunce della Commissione europea dei diritti dell'uomo, in base ad elementi concreti. E non puo' dirsi certo ragionevole una carcerazione preventiva che puo' complessivamente protrarsi sino a dieci anni ed otto mesi. Sempre seconda la Corte d'assise di Torino, il contrasto del denunziato art. 10 con l'art. 27, secondo comma, Cost., appare con tutta evidenza, se si tiene presente che "l'intervallo intercorrente tra la chiusura dell'istruzione ed il processo di primo grado e' tempo morto", il quale rende non ragionevole il prolungarsi della detenzione, dato che solo la complessita' dell'istruttoria potrebbe giustificarlo e solo una condanna in grado d'appello "riduce l'area di presunzione di innocenza", mentre non puo' certo elevarsi a giustificazione la crisi di efficienza dell'amministrazione della giustizia. Ne' puo' dirsi che "la disciplina processuale della liberta' personale dell'imputato", "trascurando le indicazioni della citata convenzione europea", risulti conforme ai principi costituzionali di cui agli artt. 13, primo, secondo e quinto comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, che sono "prevalenti sulle esigenze processuali e sulle ragioni di controllo e di difesa sociale", e che impongono percio' il ritorno ai termini massimi anteriori al decreto legge n. 625 del 1979. 2. - La stessa Corte d'assise di Torino, poi, con la medesima ordinanza, e due giudici dell'ufficio d'istruzione presso il Tribunale di Padova, con due distinte ordinanze, - emesse, rispettivamente, il 13 maggio 1980 (Reg. ord. n. 453/1980), nel procedimento penale contro Gallimberti Ivo ed altri, imputati del delitto di cui all'art. 306 c.p. in relazione all'art. 270 stesso codice, ed il 21 luglio 1980 (Reg. ord. n. 673/1980), nel procedimento penale contro Mioni Luciano, imputato del medesimo delitto di cui sopra - hanno sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 11 dello stesso decreto legge n. 625 del 1979, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 13, primo, secondo e quinto comma, e 27, secondo comma, della Costituzione ed alla loro lettura coordinata. Le impugnative del suddetto art. 11, il quale stabilisce che la disposizione, di cui al precedente art. 10, sul prolungamento dei termini di durata massima della custodia preventiva, "si applica anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore" del decreto legge n. 625 del 1979, sono sostenute da tutti i giudici a quibus con le seguenti argomentazioni, sostanzialmente identiche: a) poiche' l'art. 272 c.p.p. dispone che "la durata della custodia preventiva, quando si procede con l'istruzione formale, non puo' oltrepassare i termini" ivi indicati e che, ove questi siano decorsi, l'imputato "deve" automaticamente essere scarcerato, dall'applicazione ai procedimenti in corso del combinato disposto degli artt. 10 e 11 del decreto legge n. 625 del 1979 deriva una disparita' di trattamento fra imputati dello stesso delitto e, quindi, una violazione del principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.). Puo' accadere, infatti, nel caso di un'istruttoria formale particolarmente indaginosa, che chi era detenuto sin dall'inizio del procedimento sia stato scarcerato per decorrenza del termine previgente, mentre chi sia stato catturato in un momento successivo, ma pur sempre prima della modifica in peius di cui al menzionato art. 10, subisce un prolungamento della custodia preventiva. E cio', "senza che si possano individuare ragionevoli motivi per i quali situazioni eguali debbano essere diversamente regolate". Si tratta di questione concernente la generalita' dei cittadini - si rileva nelle ordinanze -, e pertanto la rilevanza sussiste indipendentemente dalla considerazione che, come ha eccepito il pubblico ministero, sia di Torino, sia di Padova, nei procedimenti in esame la denunciata disparita' di trattamento non si e' verificata; b) l'inviolabilita' della liberta' personale e', nel nostro ordinamento, la regola, che puo' essere limitata, secondo il chiaro dettato dell'art. 13, primo comma, Cost., "nei soli casi e modi previsti dalla legge", oltre che "per atto motivato dell'autorita' giudiziaria". Se cosi' e', la disciplina di qualsiasi eventuale limitazione - riguardi questa fatti-reato gia' avvenuti, ovvero situazioni detentive in corso - non puo' non essere preventiva, con la logica conseguenza che, nel caso di successione di leggi, le nuove norme contra libertatem, costituendo un'eccezione, "non possono incidere negativamente sulle situazioni gia' esistenti alla data della loro emanazione", giacche' altrimenti avrebbero un effetto retroattivo. Tanto piu' che il principio della "previsione" dei casi e modi di restrizione della liberta' personale consente di configurare come "diritto quesito" il diritto alla scarcerazione dell'imputato, il quale deve sapere, "al momento della commissione del fatto, qual e' il trattamento, non solo definitivo, ma anche interinale, che l'ordinamento riserva alla liberta' personale dell'autore del fatto" ed attribuisce un contenuto effettivo all'ultimo comma dell'art. 13 Cost., che altrimenti sarebbe vanificato unitamente allo stesso principio dell'inviolabilita' della liberta' personale; c) l'art. 25, secondo comma, Cost., limitandosi a statuire che "nessuno puo' essere punito" - ed evitando di soggiungere "per un fatto", come appunto recita l'art. 1 c.p. - mostra di riferirsi anche al diritto processuale, pur se non certo alle disposizioni puramente ordinatarie o di mera tecnica, bensi' a quelle che si risolvano in danno dell'imputato, nei cui confronti opera, invece, l'ultrattivita' delle norme processuali piu' favorevoli, la quale trova conferma nel primo comma dello stesso art. 25 Cost., quando stabilisce il principio del giudice naturale "precostituito" per legge. Ma ulteriore conferma ne sono ancora i lavori preparatori della Costituzione, l'indirizzo giurisprudenziale della Corte di cassazione, che si e' interrotto successivamente al 1974, ma che va recuperato, la stessa relazione al re del Guardasigilli del 1931 sulle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale. Inoltre, la ratio dell'art. 25, secondo comma, Cost. e' quella, sia di stabilire una garanzia per l'imputato, sia di soddisfare un'esigenza di certezza. Ma allora e' alla natura del bene tutelato che occorre guardare, nel senso che, pur respingendosi l'equiparazione fra pena e custodia preventiva, che hanno diversa natura giuridica, diversi scopi, diversa funzione, e cui comunque osta l'art. 27, secondo comma, Cost., la realta' e' che la carcerazione preventiva si risolve ugualmente in una lesione del fondamentale diritto di liberta' e, quindi, postula un'eguale tutela giurisdizionale. Infine, che le norme sulla custodia preventiva sfuggano al principio di immediata applicabilita' del diritto processuale, puo' ritenersi accolto, almeno implicitamente, anche dal legislatore del dicembre 1979, il quale ha stabilito, con la disposizione transitoria eccezionale dell'art. 11, la retroattivita' dell'aumento dei limiti massimi della carcerazione preventiva proprio per superare, in violazione dell'art. 25 Cost., il principio generale, secondo cui "la legge non dispone che per l'avvenire"; d) l'esigenza che la durata della custodia preventiva non sia modificata in peius nel corso di questa si basa anche sulla presunzione di non colpevolezza, di cui all'art. 27, secondo comma, Cost. Spetta certamente al legislatore di specificare la misura massima di carcerazione preventiva, ed anche di maggiorarla, mentre gli e' precluso di disporre l'applicazione di eventuali aumenti alle carcerazioni iniziate anteriormente all'entrata in vigore della nuova legge: in tal caso, infatti, risulterebbe privilegiata una presunzione opposta a quella proclamata dall'art. 27, secondo comma, Cost., cioe' la presunzione di colpevolezza dell'imputato in stato di detenzione. 3. - In tutti e tre i giudizi e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, tramite l'Avvocatura dello Stato, mentre non si e' costituita alcuna delle parti private. Le deduzioni svolte dall'Avvocatura nei suoi atti di intervento, che concludono tutti con la richiesta di dichiarazione di infondatezza, concernono solo l'art. 11 del decreto legge n. 625 del 1979, non anche l'art. 10. A riguardo della denunziata disparita' di trattamento, dopo avere affermato che chi sia stato eventualmente scarcerato per decorrenza del termine anteriormente previsto puo' essere nuovamente privato della liberta' sino al raggiungimento dei nuovi termini, osserva che in ogni caso la natura di strumento cautelare della carcerazione preventiva induce a ritenere ragionevolmente discriminabili le situazioni di due soggetti che siano stati catturati in tempi diversi; tanto piu' che la carcerazione preventiva verra' pur sempre scomputata in caso di condanna e che il ritardato inizio di essa potrebbe comportare il vantaggio della sua utilizzazione ai fini della preparazione della difesa. Quanto poi, all'addotto contrasto della norma impugnata con gli artt. 13 e 25 Cost., rileva l'Avvocatura che e' erroneo ritenere che, in caso di successione di leggi, possano incidere sulle situazioni detentive in corso solo le norme anteriori, e che non puo' negarsi, stante il ripensamento della Corte di cassazione, l'immediata applicabilita' ai processi pendenti delle nuove norme processuali, anche se meno favorevoli all'imputato, sulla base del principio tempus regit actum. E si richiama altresi' all'indirizzo dottrinale, secondo cui l'irrettroattivita' proclamata dall'art. 25 Cost. si riferisce a nuovi reati e sanzioni, non gia' alle nuove modalita' del procedimento penale, considerando infine che il legislatore ha statuito esplicitamente, con l'art. 11, l'applicazione ai procedimenti in corso al preciso scopo di precludere qualche interpretazione in senso contrario. Con riguardo, da ultimo, all'asserito contrasto con la presunzione di non colpevolezza, l'Avvocatura contesta, una volta riconosciuta alla carcerazione preventiva la duplice finalita' di assicurare la genuinita' delle prove e la difesa sociale, che sia precluso al legislatore di prolungare i termini di durata massima anche in ordine ai procedimenti in corso, quando tale prolungamento sia richiesto dalle crescenti esigenze processuali. Alla pubblica udienza, l'Avvocatura ha insistito nelle surriportate considerazioni, concludendo nuovamente per la dichiarazione di infondatezza di entrambe le questioni. Considerato in diritto: 1. - Le tre ordinanze in epigrafe sollevano due questioni, le quali hanno per oggetto il medesimo istituto - la carcerazione preventiva - ed il medesimo testo normativo - il decreto legge 15 dicembre 1979, n. 625, convertito nella legge 6 febbraio 1980, n. 15 -, sicche' i relativi giudizi possono essere riuniti e definiti con unica sentenza. 2. - La prima censura, formulata dalla Corte di assise di Torino, e' rivolta all'art. 10 del menzionato decreto legge, nel testo risultante dalla legge di conversione, in quanto prolunga di un terzo, per i delitti ivi previsti, la durata massima della detenzione ante judicium. Ma cosi' questa - si osserva, nell'ordinanza -, potendosi protrarre, con riguardo al periodo intercorrente tra rinvio a giudizio e processo di primo grado, sino a due anni ed otto mesi - e, complessivamente, addirittura sino a dieci anni ed otto mesi -, travalica ogni ragionevole limite, nonostante che la convenzione europea dei diritti dell'uomo (legge 4 agosto 1955, n. 848) proclami all'art. 5, paragrafo 3, che i giudizi a carico di detenuti devono essere celebrati "entro un termine ragionevole". E tali non sono certo quelli sopra indicati, che, anzi, "specie per i reati piu' gravi" e per il "tempo morto" - quale appunto viene definito il periodo che solitamente viene fatto scorrere dopo la chiusura dell'istruttoria in attesa del dibattimento - "non adeguano, in modo rigoroso e coerente, la disciplina processuale della liberta' personale dell'imputato ai principi costituzionali (artt. 13, primo, secondo e quinto comma, 27, secondo comma)". La questione riguarda, quindi, la ragionevolezza del termine di carcerazione preventiva nella fase tra il deposito dell'ordinanza di rinvio a giudizio e la sentenza di primo grado. 3. - Tale questione, benche' i dati posti in evidenza nella prospettazione suscitino immediato e profondo turbamento, non puo' non essere dichiarata infondata. Nell'ordinanza di rimessione, il dispositivo fa espresso riferimento agli artt. 13, primo, secondo e quinto comma, e 27, secondo comma, Cost., ma l'argomentazione non viene condotta sui principi di cui i suddetti articoli sono portatori, bensi' imperniata esclusivamente sul principio di ragionevolezza, rispetto al quale le denunziate violazioni risultano configurate come conseguenziali, stante la carenza di qualsiasi autonomo motivo a loro riguardo. Ed il suddetto principio, a sua volta, non viene affermato con richiamo alla giurisprudenza, ormai costante, di questa Corte, la quale ne ha da tempo ravvisato l'esistenza nel nostro sistema costituzionale - statuendo esplicitamente che il legislatore e' tenuto al "rispetto della ragionevolezza" (sentenza n. 7 del 1965), che esso trova un "limite nella ragionevolezza" (sentenza n. 164 del 1971) -, bensi' invocando l'art. 5, paragrafo 3, della convenzione europea di salvaguardia. All'uopo si rileva che, poiche' i principi da questa dettati "sono stati recepiti dal nostro ordinamento", nella specie va osservato quello, enunciato appunto nel suddetto articolo, secondo cui "ogni persona arrestata o detenuta ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole". Senonche', la suddetta norma della convenzione di salvaguardia su cui il giudice a quo poggia il suo ragionamento, da un lato non si colloca di per se stessa a livello costituzionale, dall'altro lato non propone alcun criterio concreto, in quanto si astiene dal fornire una qualsiasi specificazione. Ed una valutazione della ragionevolezza che non sia ancorata ad un criterio concreto, ma solo ad una enunciazione vaga ed elastica, puo' riuscire opinabile in difetto di un'analisi piu' articolata ed approfondita. 4. - Per operare il controllo sulla ragionevolezza dei termini massimi di carcerazione preventiva, quali risultano stabiliti con la norma impugnata, occorre previamente individuare e valutare la ratio che ha indotto il legislatore a disporre il prolungamento di quei termini. Al riguardo non e' consentito nutrire alcun dubbio: tale prolungamento rientra fra le "misure urgenti per la tutela dell'ordine democratico e della sicurezza pubblica", come testualmente recita il titolo della legge, ed e' causato dalle "obiettive difficolta' che esistono per gli accertamenti istruttori e dibattimentali concernenti i reati in questione", come testualmente dichiara la relazione governativa che accompagna il disegno di legge di conversione. Dunque, come l'esigenza della tutela dell'ordine democratico e della sicurezza pubblica e' l'occasio legis, cosi' le obiettive difficolta' degli accertamenti ne sono la ratio. E' in questo ambito, allora, ed in rapporto alle circostanze, che la questione va valutata. Nella specie, tali circostanze sono identificabili nella causa occasionale e nella ragione giustificatrice di cui sopra. In quanto alla causa occasionale, esplicitamente indicata dallo stesso legislatore nella necessita' di tutelare l'ordine democratico e la sicurezza pubblica contro il terrorismo e l'eversione, non puo' certo dubitarsi dell'esistenza e consistenza, della peculiarita' e gravita' del fenomeno che si intende combattere, e cui appunto si riferisce l'imputazione sulla quale deve giudicare la Corte di assise di Torino. Ed invero, si tratta di un fenomeno caratterizzato, non tanto, o non solo, dal disegno di abbattere le istituzioni democratiche come concezione, quanto dalla effettiva pratica della violenza come metodo di lotta politica, dall'alto livello di tecnicismo delle operazioni compiute, dalla capacita' di reclutamento nei piu' disparati ambienti sociali. 5. - Di fronte ad una situazione d'emergenza, quale risulta quella in argomento, quando la questione venga collocata in un quadro piu' ampio di quello offerto dall'ordinanza che l'ha sollevata, Parlamento e Governo hanno non solo il diritto e potere, ma anche il preciso ed indeclinabile dovere di provvedere, adottando una apposita legislazione d'emergenza. Conseguentemente, non puo' non riconoscersi che i limiti massimi della carcerazione preventiva, derivanti dal prolungamento stabilito con l'art. 10 del decreto legge n. 625 del 1979, nel testo modificato dalla legge di conversione n. 15 del 1980, valutati alla luce delle suesposte considerazioni, non possono considerarsi irragionevoli, risultando disposti in ragione delle "obiettive difficolta' che esistono per gli accertamenti istruttori e dibattimentali" nei procedimenti che hanno ad oggetto "i delitti commessi per finalita' di terrorismo e di evasione dell'ordine democratico". Altra ancora e' la questione - sulla quale converra' piu' appresso tornare - dell'adeguamento dell'organizzazione giudiziaria alle accresciute esigenze, che sia parallelo alle altre misure urgenti adottate e favorisca cosi' la definizione, davvero sollecita, dei processi. E' comunque nella logica del discorso la constatazione che terrorismo ed evasione da un lato, prolungamento della custodia preventiva dall'altro, stanno tra loro in rapporto di causa ad effetto: ne sono prova documentale le riforme, in senso nettamente liberale, adottate progressivamente in materia a partire dal ripristino della vita democratica e l'inversione di tendenza a partire dal decreto legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito nella legge 7 giugno 1974, n. 220, che venne adottato appunto in coincidenza con il dilagare della violenza. 6. - E' altra - e, comunque, non giuridica - la questione se il prolungamento dei suddetti termini sia il mezzo piu' appropriato per sradicare o, almeno, per fronteggiare con successo terrorismo ed evasione. Una valutazione in proposito e' preclusa al giudice, sia pure il giudice delle leggi, perche' si risolverebbe in un sindacato su una scelta operata in tema di politica criminale dal potere su cui istituzionalmente grava la responsabilita' di tutelare la liberta' e, prima ancora, la vita dei singoli e dell'ordinamento democratico. 7. - A questo punto, pero', si impongono due distinte, ma a ben guardare, convergenti precisazioni. Se si deve ammettere che un ordinamento, nel quale il terrorismo semina morte - anche mediante lo spietato assassinio di "ostaggi" innocenti - e distruzioni, determinando insicurezza e, quindi, l'esigenza di affidare la salvezza della vita e dei beni a scorte armate ed a polizia privata, versa in uno stato di emergenza, si deve, tuttavia, convenire che l'emergenza, nella sua accezione piu' propria, e' una condizione certamente anomala e grave, ma anche essenzialmente temporanea. Ne consegue che essa legittima, si', misure insolite, ma che queste perdono legittimita', se ingiustificatamente protratte nel tempo. Va poi osservato che, pur in regime di emergenza, non si giustificherebbe un troppo rilevante prolungamento dei termini di scadenza della carcerazione preventiva, tale da condurre verso una sostanziale vanificazione della garanzia. Della esigenza di rispettare criteri di congruita' si mostro' del resto ben consapevole lo stesso legislatore, quando nel corso dell'iter formativo della legge in esame volle limitare ad un terzo l'aumento dei termini, inizialmente proposto invece nella misura della meta'. Merita altresi' di essere preso in attenta considerazione il rilievo che nell'ordinanza viene conferito al "tempo morto", cioe' al periodo "in cui non si svolgono attivita' processuali", per essere stata chiusa l'istruttoria, e tuttavia "le carte processuali rimangono giacenti in attesa di passare sui banchi del primo giudice dibattimentale". Ebbene - osserva il giudice a quo - nel frattempo l'imputato, sia pure per i reati piu' gravi, rimane in stato di detenzione sino a due anni ed otto mesi. E non si possono certo invocare a giustificazione, ne' le esigenze temporali dell'istruttoria, che e', gia' esaurita, ne' una condanna in grado di appello, cui si attribuisce nell'ordinanza l'effetto di ridurre "l'area di presunzione di innocenza". La sola giustificazione, peraltro inammissibile - prosegue la Corte di assise di Torino - sarebbe la "crisi di efficienza dell'amministrazione della Giustizia", cioe' "l'affollamento dei ruoli di udienza per carenza di organici e la impossibilita' di addivenire a tempestive ("ragionevoli") fissazioni dei processi per il dibattimento". Non puo' negarsi la consistenza del rilievo, che tocca uno dei punti dolenti - il massimo, anzi - del nostro processo penale. E sembra non potersi negare neppure che si tratta di un rilievo in fatto, per il quale il legislatore non puo' essere chiamato direttamente in causa, giacche' la durata del "tempo morto", indubbiamente deplorevole, che si registra in tante vicende giudiziarie, non deriva da alcuna precisa disposizione di legge. Tuttavia cio' non esime il legislatore dal dovere di creare le condizioni che riducano al minimo il "tempo morto". Una legislazione d'emergenza non puo' non comprendere anche misure atte ad adeguare l'ordinamento giudiziario ai tempi, quale sarebbe appunto una piu' razionale ed efficiente organizzazione, ad ogni livello, degli uffici giudiziari, in personale e mezzi, che sia in grado di soddisfare con sollecitudine le nuove e maggiori esigenze proprio la' dove e quando esse si verificano. E' un compito, questo, al quale il legislatore non puo' piu' sottrarsi in coerenza con le altre misure urgenti ed eccezionali adottate. 8. - La seconda censura, formulata anche da due giudici dell'ufficio istruzione presso il Tribunale di Padova, oltre che dalla Corte di assise di Torino, e' rivolta all'art. 11 del medesimo decreto legge, a norma del quale "la disposizione dell'articolo precedente si applica anche ai procedimenti in corso". Tutti i suddetti giudici denunziano, con motivazioni pressoche' coincidenti, le violazioni degli artt. 3, primo comma, 13, primo, secondo e quinto comma, 25, secondo comma, e 27, secondo comma, Cost. 9. - Il testo costituzionale prevede l'istituto della carcerazione preventiva (art. 13, ultimo comma) e proclama, ad un tempo, il principio della presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma). Dalla constatazione, non irrilevante, anche se ovvia, della consistenza delle due ricordate norme si deduce che, nel pensiero del costituente, esse sono pienamente compatibili: come la presunzione di non colpevolezza non impedisce la carcerazione preventiva, cosi' questa non pregiudica quella. Non la pregiudica - e' appena il caso di sottolineare sul piano giuridico, e neppure su quello piu' propriamente processuale, una volta che la carcerazione preventiva, ne' acquista valore probatorio e, quindi, determinante ai fini dell'affermazione della responsabilita', ne' influisce sulla misura dell'eventuale pena. Ed al riguardo nulla rilevano in contrario gli innegabili effetti negativi, sempre gravi e sovente irreparabili, che effettivamente vengono provocati dalla carcerazione preventiva, ma su piani diversi da quello giuridico. Alla luce delle suesposte considerazioni, appare fallace, pur se indubbiamente suggestivo, il concorde ragionamento dei giudici a quibus, anche se svolto con maggiore ampiezza da quello di Padova. Secondo essi, infatti, poiche' la presunzione di non colpevolezza "determina una serie di conseguenze necessitate, tra cui anche il rispetto dei limiti massimi prestabiliti di carcerazione preventiva", e poiche' ancora questo rispetto "costituisce un mezzo volto a prestabilire i sacrifici che si possono richiedere all'imputato" al duplice fine di "assicurare un efficace svolgimento del processo e al contempo di impedire che il costo del processo gravi sull'imputato detenuto oltre una certa ragionevole misura", ne conseguirebbe che un "ampliamento stabilito in corso di carcerazione" si risolverebbe in "un sostanziale restringimento della presunzione" in parola, riconducibile ad "una logica che sembra privilegiare una presunzione contraria, cioe' quella di colpevolezza dell'imputato in stato di detenzione". La carcerazione preventiva non produce - beninteso, sul piano giuridico, sia sostanziale, sia processuale, nel senso piu' sopra illustrato - maggiori o minori conseguenze, a seconda della sua maggiore o minore durata, per cui questa, nei casi in cui risultasse non ragionevole, potrebbe essere dichiarata illegittima per tal motivo, non gia' per l'asserita sua incidenza giuridica sulla presunzione di non colpevolezza. Argomentare dalla durata per pervenire a conclusione opposta a quella di cui sopra significa confondere - e sta qui soprattutto la fallacia del ragionamento - due piani che sono nettamente distinti, facendo valere nel campo giuridico gli effetti che si verificano nel campo sociale. Ma il ragionamento, che poi consiste, a ben guardare, nel conferire pressoche' esclusivo valore alla durata, risolvendo in essa l'istituto, si presta anche ad altri rilievi. In primo luogo, infatti, non risulta indicato - pur essendone la premessa - alcun criterio oggettivo, in base al quale possa stabilirsi il limite massimo della custodia preventiva, oltre il quale esso non sarebbe piu' ragionevole e, quindi, restringerebbe la presunzione di non colpevolezza, sicche' risulta valutazione meramente soggettiva quella, secondo cui sarebbe ragionevolmente congrua una durata di due anni, ma non di due anni ed otto mesi. In secondo luogo, il ragionamento puo' sboccare, a rigor di logica e sia pure inavvertitamente, persino nell'affermazione della illegittimita' costituzionale dello stesso istituto. Ne fornisce la prova l'ordinanza della Corte di assise di Torino, ove proprio questa conseguenza risulta in fondo sostenuta, la' dove si legge che "detto principio di non colpevolezza, di cui all'art. 27 della Costituzione, postula l'esigenza che ogni restrizione della liberta' personale non fondata sulla pena, da eseguire per condanna definitiva, urta contro il dettato costituzionale". Ed allora, se si assume il principio della presunzione di non colpevolezza sempre e solo nel suo corretto valore giuridico - piu' precisamente, processuale -, e se si considera che l'ampliamento della durata della custodia preventiva nel corso di questa non produce neppur esso alcun pregiudizio sul piano processuale, non puo' non convenirsi che l'applicazione dell'art. 10 del decreto legge n. 625 del 1979 ai procedimenti ancora in via di definizione non contrasta con l'art. 27, secondo comma, Cost. 10. - Analogamente si deve concludere quando il dubbio sulla legittimita' costituzionale della norma denunziata viene espresso in riferimento agli artt. 13, primo, secondo e quinto comma, e 25, secondo comma, Cost. a) Per quanto riguarda l'art. 13, gli argomenti dei giudici a quibus si fondano sui due primi commi, mentre all'ultimo, che pure e' anch'esso espressamente indicato, si accenna solo di sfuggita, per affermarne conseguenzialmente la vanificazione. Dalla proclamazione dell'inviolabilita' della liberta' personale, di cui al primo comma, si ricava il carattere eccezionale di ogni limitazione che ad essa venga posto, con la conseguenza che "nel caso di successioni di leggi, le nuove norme contra libertatem non possono incidere negativamente sulle situazioni in corso", tra cui appunto quelle detentive, e si ricava altresi' la configurazione del diritto alla scarcerazione come "diritto quesito". Gli argomenti surriportati rivelano una fragile consistenza. Non e' dubitabile che il principio della inviolabilita' della liberta' personale e' la regola e che, conseguentemente, ogni limitazione ad esso si configura come eccezione. Da tale esatta premessa non dipende tuttavia la conseguenza che nelle ordinanze se ne trae, cioe' che le carcerazioni preventive in corso siano al riparo da leggi posteriori che ne aumentino la durata. L'affermazione risulta apodittica, nel senso che e' malamente puntellata con l'asserzione che non v'e' differenza, di fronte a nuove norme contra libertatem, tra fatti-reato gia' avvenuti e situazioni detentive in corso. Ma questo potrebbe affermarsi, solo se fosse dimostrato incontrovertibilmente che l'irretroattivita' di cui all'art. 25, secondo comma, si estende anche alle norme procedurali. Egualmente indubitabile e' il diritto al riacquisto immediato della liberta', non appena scaduti i termini della detenzione preventiva. Ed invero, il riconoscimento di tale diritto e' soluzione giuridicamente e logicamente obbligata, che si lascia esplicitare immediatamente e facilmente dal principio dell'inviolabilita' della liberta' personale, ma di cui non e' sostenibile, perche' immotivata, l'evoluzione in diritto quesito, non potendosi ritenere motivazione appagante il semplice richiamo al suddetto principio della inviolabilita'. Nelle stesse ordinanze in esame, del resto, la custodia preventiva viene qualificata "interinale", pur se, immediatamente dopo, tale aggettivo venga sostituito con la locuzione, piuttosto ambigua, di "situazione gia' costituita". b) Dalla statuizione, poi, di cui al secondo comma, a sensi del quale devono essere "previsti" i casi ed i modi in cui la restrizione della liberta' personale e' ammessa, si deduce l'esigenza di una "previsione", cioe' di una regolamentazione preventiva di ogni aspetto della restrizione stessa, con la conseguenza che le regole di questa non possono essere mutate in danno della liberta'. Senonche', a tale conseguenza si perviene, non solo con un argomento meramente esegetico, ma anche con la trasposizione ed applicazione del risultato ottenuto in via esegetica da una ad altra norma, sia pure nell'ambito dello stesso articolo 13. Si puo' anche prescindere al riguardo dall'osservazione che, nel linguaggio giuridico, anche in quello propriamente normativo, non sempre al verbo - "previsti" -, dal quale traggono argomento le ordinanze in esame, corrisponde il sostantivo "previsione", essendo tutt'altro che infrequenti le occasioni, in cui allo stesso verbo corrisponde, invece, il significato di "disposizione". Sembra darne la prova lo stesso legislatore costituente: nell'art. 38, secondo e quarto comma, infatti, i mezzi ivi "preveduti", oltre che assicurati, ai lavoratori, ed i compiti conseguentemente "previsti" possono anche intendersi come mezzi e compiti "disposti" o "stabiliti". Comunque, a parte quanto teste' osservato solo incidentalmente, se nella specie deve ritenersi senz'altro corretta la dedotta sostantivazione, appare, viceversa, non egualmente corretta e congruente l'ulteriore inferenza. Che la Costituzione esiga, affinche' la restrizione della liberta' personale sia legittima, la puntuale "previsione" legislativa dei "casi e modi"- oltre che, s'intende, l'atto motivato dell'autorita' giudiziaria - non e' menomamente disputabile, stante il dettato letterale. Ora, puo' essere opinabile cosa propriamente debba intendersi in positivo per gli uni ("casi") e per gli altri ("modi"), ma non in negativo, essendo incontrovertibile che, ne' nel lessico, ne' in alcun testo normativo, ne' nella dottrina giuridica, si rintraccia anche solo un appiglio per sostenere che "casi e modi" siano suscettibili di indicare un qualsiasi limite temporale. L'argomentazione trova, oltre tutto, una duplice smentita proprio nello stesso art. 13: gli aspetti temporali della restrizione della liberta' personale, infatti, sono disciplinati nel terzo e nell'ultimo comma, sicche', ove si facesse applicazione di un ben noto brocardo, l'inclusione di tali aspetti nei suddetti commi e l'esclusione, invece, dal secondo comma, confermerebbero chiaramente la non fondatezza della motivazione a sostegno del dubbio espresso nelle ordinanze; inoltre, poiche' l'ultimo comma dice che la legge "stabilisce" - non che "prestabilisce" - i limiti massimi della carcerazione preventiva, basterebbe il ricorso a questo rilievo letterale per ottenere la prova dell'inestensibilita' della "previsione" dei "casi e modi" di cui al secondo comma alla durata della custodia preventiva di cui all'ultimo comma. 11. - A dimostrazione della fondatezza della censura rivolta al medesimo art. 11 del decreto legge n. 625 del 1979 in riferimento all'art. 25, secondo comma, Cost., le ordinanze in epigrafe espongono una vasta gamma di motivi. L'irretroattivita' proclamata dalla predetta norma costituzionale - sostengono i giudici a quibus - deve essere interpretata nel senso che comprende, non solo il diritto penale sostantivo, ma anche quello processuale. Anzitutto, non e' priva di significato al riguardo la constatazione che la norma costituzionale de qua sia formulata genericamente, cioe' senza quello specifico riferimento ad un "fatto", come si legge, invece, nell'art. 1 del codice penale. Se, poi, - aggiungono le ordinanze in esame - si confronta il contenuto dei principi costituzionali con il contenuto e la funzione delle disposizioni processuali, si coglie che la ratio dell'art. 25, secondo comma, Cost., "non sia quella di rendere immutevoli le norme penali applicabili alle fattispecie verificatesi, bensi' quella di offrire una garanzia soggettiva ai singoli", che soddisfa un'esigenza di certezza, e che percio' non puo' venir meno anche in caso di successione di leggi processuali. Ma sono numerosi ancora i motivi - sempre secondo i giudici remittenti - che convergono univocamente verso l'opinione che la norma costituzionale in discorso si estende anche al diritto processuale, quando le nuove disposizioni si risolvano in danno dell'imputato: i lavori preparatori della Costituzione; l'indirizzo giurisprudenziale seguito dalla Cassazione sino al 1974; persino la relazione al re sulle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale del 1931; la considerazione che, pur se pena e carcerazione preventiva abbiano "diversa natura giuridica, diversi scopi, diversa funzione", il bene tutelato, cioe' la liberta' personale, "puo' venire ugualmente aggredito tanto dalla legge penale sostanziale quanto da quella procedurale". Osservano infine gli stessi giudici a quibus che, come l'ultrattivita' delle norme processuali piu' favorevoli trova conferma nel primo comma dello stesso art. 25 Cost., in quanto dispone che nessuno puo' essere distolto dal giudice naturale "precostituito" per legge, cosi' l'irretroattivita' delle norme processuali piu' sfavorevoli trova a sua volta conferma, anche se implicita, nella necessita', avvertita dal legislatore del dicembre 1979, di disporre esplicitamente l'applicazione del prolungamento dei termini massimi di carcerazione preventiva anche ai procedimenti in corso. a) L'opinione sostenuta nelle ordinanze - giova ripeterlo, prima di affrontare i singoli argomenti - e' che l'art. 25, secondo comma, Cost., deve intendersi nel senso che l'irretroattivita' della legge penale, ivi proclamata, si applica anche alle norme processuali. Non puo' dirsi tuttavia che gli argomenti addotti a sostegno di tale opinione rivelino una capacita' di persuasione pari al loro numero. Alcuni di essi, anzi, si prestano ad una facile confutazione. Cosi': si fa richiamo ai lavori preparatori della Costituzione - omettendo peraltro precise indicazioni -, ed in tali lavori non si rinviene, invece, alcun riscontro che convalidi l'assunto; si fa richiamo alla giurisprudenza della Corte di cassazione, ma si ammette che quella successiva al 1974 e' tutta in senso nettamente contrario all'opinione prospettata nelle ordinanze; si invoca il principio del giudice naturale "precostituito" per legge, di cui al primo comma dello stesso art. 25, e non si spende parola per dimostrare come da tale principio si tragga "conferma dell'ultrattivita' delle norme processuali" e, quindi, dell'illegittimita' costituzionale della norma denunziata; si fa un raffronto tra l'art. 1 del codice penale e l'art. 25, secondo comma, Cost., il quale ultimo, pur statuendo anch'esso, al pari di quello, che "nessuno puo' essere punito", si differenzierebbe dal predetto articolo 1, in quanto omette di soggiungere "per un fatto", e non si tiene conto che l'asserita differenza e' solo nel diverso ordine in cui le due proposizioni sono formulate, nel senso che, mentre nell'articolo 1 del codice penale il riferimento al "fatto" e' collocato nella parte iniziale della disposizione, nell'articolo 25, secondo comma, Cost., lo stesso riferimento - al "fatto commesso", piu' propriamente - e' collocato, invece, nella parte terminale. E non sembra, infine, che occorra un'approfondita dissertazione per dimostrare l'arbitrarieta' della congettura, secondo cui il legislatore non si e' limitato a dettare la disposizione di cui all'art. 10 del decreto legge n. 625 del 1979, ma ha avvertito la necessita' di precisare, con l'apposita norma di cui all'art. 11, l'applicabilita' dei nuovi e maggiori termini ai procedimenti in corso, proprio perche' conscio che "le norme sulla custodia preventiva non sono norme processuali vere e proprie". Al riguardo bastera', infatti, dire che questa Corte ha piu' volte riconosciuto nella carcerazione preventiva scopi essenzialmente connessi al processo (sentenze nn. 64 e 96 del 1970, 135 del 1972, 74 e 147 del 1973, 68 del 1974, 146 del 1975) e che la congettura in discorso non costituisce motivo che possa indurre a mutare quel consolidato avviso. b) Nonostante la maggiore elaboratezza delle loro prospettazioni, appaiono implausibili anche due dei tre argomenti residui: oltre tutto, il loro eventuale accoglimento porterebbe a risultati non collimanti col sistema. E' senza dubbio esatto che l'art. 25, secondo comma, Cost., stabilisce una garanzia per l'imputato, e non si ha difficolta' ad ammettere altresi' che la vera ratio, ravvisabile al fondo della norma, e' un'esigenza di certezza. Tale riconoscimento non giustifica tuttavia, la deduzione che, quindi, nel campo penale, devono ritenersi irretroattive, non solo le norme sostanziali, ma anche quelle processuali. L'argomento, a parte quanto si dira' in seguito sul valore di garanzia per l'imputato, prova troppo, dato che l'esigenza di certezza e' alla base di ogni rapporto giuridico e, meglio ancora, della vita stessa del diritto. Quando poi si argomenta dalla natura del bene tutelato la - liberta' personale -, dicendosi che, in caso di detenzione, e' sempre esso in gioco, e che percio' nulla rileva che quella sia sofferta prima del giudizio, anziche' in esecuzione di una condanna, si deve osservare che l'argomentazione, per un verso e' palesemente contraddittoria e, per altro verso, va oltre il segno. E' palesemente contraddittoria, perche', pur premettendosi che l'equiparazione fra pena e custodia preventiva e' "vietata proprio dall'art. 27, secondo comma", Cost., e che l'art. 25, secondo comma, non si estende alla custodia preventiva "in quanto forma di espiazione anticipata della sanzione detentiva", si afferma poi che la carcerazione preventiva "si risolve in una pena subita prima della definizione del processo"; tanto che "anche la legge, d'altra parte, la considera tale per certi effetti", com'e' appunto il caso della conversione della custodia preventiva in pena, ai sensi dell'art. 137 del codice penale. La contraddittorieta' non svanisce, solo perche' si precisa che il ragionamento viene condotto e, "dal punto di vista dell'imputato", dato che la questione concerne appunto l'imputato. L'argomentazione va, poi, oltre il segno, in quanto il suo logico risultato sarebbe la cancellazione dalla Carta costituzionale dell'istituto della detenzione preventiva, perche' proprio essa - indipendentemente dalla sua durata - "pur diversa, come s'e' detto, dalla pena, si risolve per l'individuo in una restrizione totale della sua liberta' ". c) Questa Corte ha costantemente affermato, tra l'altro, che la carcerazione preventiva "ben puo' legittimamente essere disposta in vista della soddisfazione di esigenze di carattere cautelare e strettamente inerenti al processo" (sentenze nn. 64 e 96 del 1970, 74 e 147 del 1973, 146 del 1975, 88 del 1976); che "e' giustificata da esigenze eminentemente processuali" (sentenza n. 68 del 1974); che "ha, evidentemente, tra le sue finalita', quella di evitare che l'inquisito o l'imputato distorca i fatti o inquini le prove, cioe', in definitiva, cerchi di eludere l'applicazione della proporzionata sanzione punitiva" (sentenza n. 26 del 1972); che "si inserisce nel processo", giacche' "risponde a una sua ratio, vuole soddisfare concrete esigenze del processo" (sentenza n. 135 del 1972). Tale indirizzo giurisprudenziale, cui si e' ispirata altresi' la sentenza n. 1 del 1980, e cui, a decorrere dal 1975, ha aderito anche la Corte di cassazione, induce a non accogliere la concezione, emergente dalle ordinanze, della natura di diritto sostantivo dell'istituto della carcerazione preventiva. Ne' contro questo consolidato orientamento vale richiamare la contraria opinione, espressa dal Guardasigilli del 1931 ed invocata nelle ordinanze, secondo cui "le norme del codice di procedura penale che dispongono sulla liberta' personale dell'imputato hanno carattere restrittivo, e pero' debbono soggiacere ai criteri di diritto transitorio propri del diritto penale materiale e di ogni altra legge che restringa il libero esercizio di diritti, e non a quelli del diritto penale processuale". E poiche' inoltre nella specie si controverte piu' propriamente sul prolungamento di quest'ultima, giova ricordare ancora una volta che essa risulta disposta al dichiarato fine di ovviare alle "obiettive difficolta' che esistono per gli accertamenti istruttori e dibattimentali concernenti i reati" di terrorismo e di eversione. Anche per quanto riguarda, infine, l'ulteriore affermazione - quella, secondo cui l'art. 25, secondo comma, Cost., dovrebbe interpretarsi nel senso della sua applicabilita' alle norme processuali penali - si puo', in aggiunta a quanto osservato in precedenza, far richiamo alla giurisprudenza, e precisamente alla sentenza della Corte di cassazione (Sez. V penale, n. 1159 del 1975), che riconosce la "natura meramente strumentale" della carcerazione preventiva e, quindi, l'applicazione del principio tempus regit actum. Il diverso avviso dei giudici a quibus viene fondato in definitiva su due argomenti: il confronto tra la formulazione dell'art. 25, secondo comma, Cost., e quella dell'art. 1 c.p.; l'asserto che l'attivita' giurisdizionale, valutata nel concreto, ha fondamentalmente funzione di garanzia, da cui deriva la logica conseguenza dell'assimilazione delle norme processuali penali alle norme sostanziali, quando si risolvano in danno dell'imputato. Ora, sul motivo dedotto dalla comparazione tra i dati letterali dei due sopra richiamati articoli non pare necessario integrare la gia' esposta osservazione in contrario, anch'essa basata sui dati letterali, che le due formulazioni, a ben guardare, non si respingono. In ordine al secondo argomento, bastera' aggiungere che la natura strumentale dell'istituto in parola, esattamente individuata dalla Corte di cassazione, oltre che impedire l'assimilazione tra il "fatto" e lo "strumento" per accertarne l'esistenza e la conformita' al diritto, consente di cogliere nella sua completa prospettiva la funzione di garanzia della carcerazione preventiva, e del processo in genere, nel senso che non e' garanzia solo dell'imputato, ma anche - e, prima - dell'attuazione della legge, della ordinata convivenza, della salvezza delle istituzioni. Se questo e', l'argomento dell'applicabilita' dell'art. 25, secondo comma, Cost., anche alle norme processuali penali perde validita' nella sua stessa impostazione, la quale viene fatta poggiare su un criterio palesemente riduttivo della realta'. 12. - L'applicazione del prolungamento dei termini massimi di durata della detenzione preventiva ai procedimenti in corso - si legge ancora nelle ordinanze in esame - viola l'art. 3, primo comma, Cost., nel senso che "crea disparita' di trattamento irragionevoli e svincolate da qualsiasi motivo oggettivo di regolamentazione differenziata". Basti considerare che, nel caso di coimputati nello stesso processo, mentre l'uno puo' avere gia' riacquistato la liberta' anteriormente all'entrata in vigore del decreto legge n. 625 del 1979, essendo scaduti i due anni previsti dalla precedente disciplina in materia, l'altro, in quanto catturato successivamente, perche' "rimasto in un primo momento latitante o individuato nel corso dell'istruzione per sopravvenute acquisizioni probatorie", dovra' soffrire il prolungamento della detenzione preventiva. Eppure, secondo i giudici a quibus, si tratta di "situazioni identiche, nel fatto, nella contestazione del reato, nel provvedimento restrittivo della liberta'". La questione, i cui esatti termini consistono nel dubbio se la asserita disparita' derivi effettivamente dalla legge ovvero da un elemento casuale, e' inammissibile per irrilevanza, risultando che l'ipotesi non si e' verificata nei procedimenti in corso dinanzi ai giudici a quibus.
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE a) dichiara non fondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 10 del decreto legge 15 dicembre 1979, n. 625 (misure urgenti per la tutela dell'ordine democratico e della sicurezza pubblica), convertito con modificazioni nella legge 6 febbraio 1980, n. 15, sollevata, in riferimento agli artt. 13, primo, secondo e quinto comma, e 27, secondo comma, Cost., dalla Corte di assise di Torino con l'ordinanza 3 maggio 1980 (Reg. ord. n. 453/1980); b) dichiara inammissibile la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 11 del summenzionato decreto legge n. 625 del 1979, sollevata, in riferimento all'art. 3, primo comma, Cost., dalla Corte di assise di Torino con la medesima ordinanza di cui sopra e dal giudice istruttore presso il Tribunale di Padova con le ordinanze 21 luglio 1980 (Reg. ord. n. 673/1980) e 17 novembre 1980 (Reg. ord. n. 34/1981); c) dichiara non fondata la questione di legittimita' costituzionale del medesimo art. 11 del decreto legge di cui sopra, sollevata, in riferimento agli artt. 13, primo, secondo e quinto comma, 25, secondo comma, e 27, secondo comma, Cost., dalla Corte di assise di Torino e dal giudice istruttore presso il Tribunale di Padova con le sopra richiamate ordinanze. Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 gennaio 1982. F.to: LEOPOLDO ELIA - EDOARDO VOLTERRA - MICHELE ROSSANO - ANTONINO DE STEFANO - GUGLIELMO ROEHRSSEN - ORONZO REALE - BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI - ALBERTO MALAGUGINI - LIVIO PALADIN - ARNALDO MACCARONE - ANTONIO LA PERGOLA - VIRGILIO ANDRIOLI - GIUSEPPE FERRARI - FRANCESCO SAJA. GIOVANNI VITALE - Cancelliere