N. 15 SENTENZA 14 gennaio - 1 febbraio 1982

                                  N. 15
                        SENTENZA 14 GENNAIO 1982
                Deposito in cancelleria: 1 febbraio 1982.
        Pubblicazione in "Gazz. Uff." n. 40 del 10 febbraio 1982.
                        Pres. ELIA - Rel. FERRARI
     Processo  penale - Carcerazione preventiva - D.L. 15 dicembre 1979,
 n. 625, art. 10 (modificato dalla legge  6  febbraio  1980,  n.  15)  -
 Prolunga  la  durata  massima  della  detenzione  prima  del giudizio -
 Assunta irragionevolezza del termine di carcerazione  preventiva  nella
 fase  tra il deposito dell'ordinanza di rinvio a giudizio e la sentenza
 di primo grado - Coerenza con  l'occasio  e  la  ratio  della  legge  -
 Esclusione di illegittimita' costituzionale.
     Giudizio  di  legittimita'  costituzionale  in  via  incidentale  -
 Ordinanza di rimessione - Indicazione delle norme parametro negli artt.
 13,  primo,  secondo  e  quinto  comma,  e  27,  secondo  comma,  della
 Costituzione  -  Argomentazione, in realta' imperniata sul principio di
 ragionevolezza, richiamando non la giudisprudenza della  Corte,  ma  la
 Convenzione  europea  dei diritti dell'uomo - Natura non costituzionale
 dei precetti di questa e  difetto  di  criteri  concreti  in  essa  per
 delimitare la nozione di ragionevolezza.
     Carcerazione  preventiva - D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, art. 10 -
 Prolungamento dei termini - Giudizio sulla idoneita'  a  raggiungere  i
 fini perseguiti dalla norma - Insindacabilita' da parte della Corte.
     Stato  di  emergenza  -  Giustifica limitazioni ("misure insolite")
 legittime solo se temporanee, congrue e non producenti una  sostanziale
 vanificazione  della  garanzia  - Necessari provvedimenti coerentemente
 idonei ad eliminare situazioni di fatto sfavorevoli ("tempi morti").
     Processo penale - Carcerazione preventiva - D.L. 15 dicembre  1979,
 n.  625,  art.  11  - Applicazione anche ai procedimenti in corso della
 norma sul prolungamento dei termini (art. 10) - Non  sono  violati  gli
 artt.  13,  primo,  secondo  e  quinto  comma,  25, secondo comma e 27,
 secondo  comma,  della  Costituzione  -  Esclusione  di  illegittimita'
 costituzionale.
     Processo  penale  -  Carcerazione  preventiva  e presunzione di non
 colpevolezza dell'imputato (Cost.,  artt.  13,  u.co.,  e  27,  secondo
 comma)  -  Principi  contestualmente previsti e compatibili nel sistema
 costituzionale.
     Liberta' personale - Inviolabilita' - Carattere  eccezionale  delle
 limitazioni  - Carcerazioni preventive in corso - Non sono al riparo da
 leggi posteriori che ne aumentino la durata - Non e'  estensibile  alle
 norme  procedurali  l'irretroattivita'  disposta  dall'art. 25, secondo
 comma, della Costituzione - Scadenza dei termini - Riacquisto immediato
 della liberta'.
     Liberta' personale - Costituzione, art. 13 - Restrizioni -  Casi  e
 modi  -  Durata  della  carcerazione  preventiva  - Coordinamento delle
 diverse parti del precetto.
     Leggi penali - Irretroattivita' - Costituzione,  art.  25,  secondo
 comma  -  Non si estende dalle leggi penali sostanziali a quelle penali
 processuali  (nella  specie:  a  quelle  relative   alla   carcerazione
 preventiva, che ha scopi essenzialmente connessi al processo).
     Carcerazione preventiva - Finalita' - Natura processuale.
     Processo  penale - Carcerazione preventiva - D.L. 15 dicembre 1979,
 n.  625,  art.  11  -  Prolungamento  della  durata  della   detenzione
 preventiva  ai  procedimenti in corso - Dubbio se l'asserita disparita'
 di trattamento derivi effettivamente dalla legge o da elementi  casuali
 - Irrilevanza nei giudizi a quibus - Inammissibilita'.
(GU n.40 del 10-2-1982 )
                         LA CORTE COSTITUZIONALE
     composta  dai  signori:  Prof.  LEOPOLDO  ELIA,  Presidente - Prof.
 EDOARDO VOLTERRA - Dott.  MICHELE ROSSANO - Prof. ANTONINO DE STEFANO -
 Prof.  GUGLIELMO  ROEHRSSEN  -  Avv.  ORONZO  REALE  -  Dott.  BRUNETTO
 BUCCIARELLI  DUCCI  -  Avv.  ALBERTO MALAGUGINI - Prof. LIVIO PALADIN -
 Dott. ARNALDO MACCARONE - Prof. ANTONIO LA  PERGOLA  -  Prof.  VIRGILIO
 ANDRIOLI - Prof.  GIUSEPPE FERRARI - Dott. FRANCESCO SAJA, Giudici,
     ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nei  giudizi riuniti di legittimita' costituzionale degli artt. 10 e 11
 del d.l. 15 dicembre  1979,  n.  625  (misure  urgenti  per  la  tutela
 dell'ordine  democratico  e  della sicurezza pubblica), come modificati
 dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15, promossi con le seguenti ordinanze:
     1) ordinanza emessa il 3 maggio 1980  dal  Giudice  istruttore  del
 Tribunale  di Padova sull'istanza proposta da Gallimberti Ivo ed altri,
 iscritta al n. 453 del  registro  ordinanze  1980  e  pubblicata  nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 215 del 6 agosto 1980;
     2)  ordinanza  emessa  il 21 luglio 1980 dal Giudice istruttore del
 Tribunale di Padova sull'istanza proposta da Mioni Luciano, iscritta al
 n.  673  del  registro  ordinanze  1980  e  pubblicata  nella  Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n.  311 del 12 novembre 1980;
     3)  ordinanza  emessa  il 17 novembre 1980 dalla Corte di Assise di
 Torino nel procedimento penale a carico di Naria Giuliano, iscritta  al
 n. 34 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica n. 83 del 24 marzo 1981;
     Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
     udito  nell'udienza  pubblica  del  24  novembre  1981  il  Giudice
 relatore Giuseppe Ferrari;
     udito  l'avvocato  dello  Stato Franco Chiarotti, per il Presidente
 del Consiglio dei ministri.
                           Ritenuto in fatto:
     1. - Nel corso del giudizio contro Naria  Giuliano,  imputato,  tra
 l'altro,  del reato di cui agli artt. 81, 110, 112, n.  1, 575, 577, n.
 3, e 61, n. 9, del codice penale, la  Corte  d'assise  di  Torino,  con
 ordinanza  emessa  il  17  novembre  1980  (Reg.  ord.  n. 34/1981), ha
 sollevato d'ufficio questione di legittimita' costituzionale  dell'art.
 10 del decreto legge 15 dicembre 1979, n. 625, convertito nella legge 6
 febbraio 1980, n. 15.
     Il  Naria, detenuto dal 6 ottobre 1976, sarebbe stato scarcerato il
 6  ottobre  1980  per  decorrenza  del  termine  massimo  di   custodia
 preventiva,  quale  previsto  dalla  legge  7  giugno  1974, n. 220, di
 modifica dell'art. 272 c.p.p., che vigeva al momento della cattura (due
 anni per la fase istruttoria e due anni per la fase  dibattimentale  di
 primo  grado),  se  non  fosse  sopravvenuto  in corso di detenzione il
 decreto legge n. 625 del 1979. Poiche',  infatti,  l'art.  10  di  tale
 decreto  legge  dispone che "i termini di durata massima della custodia
 preventiva sono prolungati di un terzo  rispetto  a  quelli  previsti",
 consentendo  percio'  una  carcerazione  preventiva  di  cinque  anni e
 quattro mesi, se non interviene sentenza di condanna di primo grado, la
 detenzione del Naria, in attesa del giudizio, ha la  scadenza,  invece,
 del 6 febbraio 1982.
     Ma  cosi'  -  rileva il giudice a quo -, non e' infondato il dubbio
 che siano stati travalicati quei "ragionevoli limiti senza l'osservanza
 dei quali la legge si pone in contrasto con il principio costituzionale
 della  presunzione  di  non  colpevolezza".  Il   nostro   ordinamento,
 ratificando  la  "Convenzione  europea  per la salvaguardia dei diritti
 dell'uomo e delle liberta' fondamentali", ne ha recepito i  criteri  e,
 quindi, anche quello di cui all'art. 5, paragrafo 3, il quale prescrive
 testualmente  che  chiunque  venga  privato  della  liberta'  personale
 dev'essere  giudicato  entro  un  termine  ragionevole,  da  valutarsi,
 secondo le pronunce della Commissione europea dei diritti dell'uomo, in
 base  ad  elementi  concreti.  E  non  puo' dirsi certo ragionevole una
 carcerazione preventiva che  puo'  complessivamente  protrarsi  sino  a
 dieci anni ed otto mesi.
     Sempre  seconda  la  Corte  d'assise  di  Torino,  il contrasto del
 denunziato art. 10 con l'art. 27,  secondo  comma,  Cost.,  appare  con
 tutta  evidenza,  se  si tiene presente che "l'intervallo intercorrente
 tra la chiusura dell'istruzione ed il processo di primo grado e'  tempo
 morto", il quale rende non ragionevole il prolungarsi della detenzione,
 dato che solo la complessita' dell'istruttoria potrebbe giustificarlo e
 solo  una  condanna in grado d'appello "riduce l'area di presunzione di
 innocenza", mentre non puo' certo elevarsi a giustificazione  la  crisi
 di efficienza dell'amministrazione della giustizia.  Ne' puo' dirsi che
 "la  disciplina  processuale  della  liberta' personale dell'imputato",
 "trascurando le indicazioni della citata convenzione europea",  risulti
 conforme  ai  principi  costituzionali  di  cui  agli  artt. 13, primo,
 secondo e quinto comma, e 27, secondo comma,  della  Costituzione,  che
 sono   "prevalenti  sulle  esigenze  processuali  e  sulle  ragioni  di
 controllo e di difesa sociale", e che impongono percio' il  ritorno  ai
 termini massimi anteriori al decreto legge n. 625 del 1979.
     2.  -  La  stessa  Corte  d'assise  di Torino, poi, con la medesima
 ordinanza, e due giudici dell'ufficio d'istruzione presso il  Tribunale
 di Padova, con due distinte ordinanze, - emesse, rispettivamente, il 13
 maggio  1980  (Reg. ord. n.   453/1980), nel procedimento penale contro
 Gallimberti Ivo ed altri, imputati del delitto di cui all'art. 306 c.p.
 in relazione all'art. 270 stesso codice, ed il  21  luglio  1980  (Reg.
 ord.  n.  673/1980),  nel  procedimento  penale  contro  Mioni Luciano,
 imputato del medesimo delitto di cui sopra - hanno sollevato  questione
 di  legittimita' costituzionale dell'art. 11 dello stesso decreto legge
 n. 625 del 1979, in riferimento agli artt. 3, primo comma,  13,  primo,
 secondo e quinto comma, e 27, secondo comma, della Costituzione ed alla
 loro lettura coordinata. Le impugnative del suddetto art.  11, il quale
 stabilisce  che  la  disposizione,  di  cui  al precedente art. 10, sul
 prolungamento dei termini di durata massima della custodia  preventiva,
 "si  applica  anche  ai  procedimenti  in corso alla data di entrata in
 vigore" del decreto legge n. 625 del 1979, sono sostenute  da  tutti  i
 giudici  a  quibus  con  le  seguenti  argomentazioni,  sostanzialmente
 identiche:
     a) poiche' l'art. 272 c.p.p. dispone che "la durata della  custodia
 preventiva,  quando  si  procede  con  l'istruzione  formale,  non puo'
 oltrepassare i termini" ivi indicati e che, ove questi  siano  decorsi,
 l'imputato  "deve" automaticamente essere scarcerato, dall'applicazione
 ai procedimenti in corso del combinato disposto degli artt. 10 e 11 del
 decreto legge n. 625 del 1979 deriva una disparita' di trattamento  fra
 imputati  dello  stesso delitto e, quindi, una violazione del principio
 di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.).  Puo'  accadere,  infatti,
 nel  caso di un'istruttoria formale particolarmente indaginosa, che chi
 era detenuto sin dall'inizio del procedimento sia stato scarcerato  per
 decorrenza del termine previgente, mentre chi sia stato catturato in un
 momento  successivo, ma pur sempre prima della modifica in peius di cui
 al  menzionato  art.  10,  subisce  un  prolungamento  della   custodia
 preventiva.  E  cio',  "senza  che  si  possano individuare ragionevoli
 motivi per  i  quali  situazioni  eguali  debbano  essere  diversamente
 regolate".  Si  tratta  di  questione  concernente  la  generalita' dei
 cittadini - si rileva  nelle  ordinanze  -,  e  pertanto  la  rilevanza
 sussiste  indipendentemente  dalla considerazione che, come ha eccepito
 il pubblico ministero, sia di Torino, sia di Padova,  nei  procedimenti
 in esame la denunciata disparita' di trattamento non si e' verificata;
     b)   l'inviolabilita'  della  liberta'  personale  e',  nel  nostro
 ordinamento, la regola, che puo' essere  limitata,  secondo  il  chiaro
 dettato  dell'art.  13,  primo  comma,  Cost.,  "nei  soli  casi e modi
 previsti dalla legge", oltre  che  "per  atto  motivato  dell'autorita'
 giudiziaria".  Se  cosi'  e',  la  disciplina  di  qualsiasi  eventuale
 limitazione  -  riguardi  questa  fatti-reato  gia'  avvenuti,   ovvero
 situazioni  detentive in corso - non puo' non essere preventiva, con la
 logica conseguenza che, nel caso di  successione  di  leggi,  le  nuove
 norme   contra   libertatem,  costituendo  un'eccezione,  "non  possono
 incidere negativamente sulle situazioni gia' esistenti alla data  della
 loro emanazione", giacche' altrimenti avrebbero un effetto retroattivo.
 Tanto  piu'  che  il  principio  della  "previsione" dei casi e modi di
 restrizione della  liberta'  personale  consente  di  configurare  come
 "diritto quesito" il diritto alla scarcerazione dell'imputato, il quale
 deve  sapere,  "al  momento  della  commissione  del  fatto, qual e' il
 trattamento,  non   solo   definitivo,   ma   anche   interinale,   che
 l'ordinamento riserva alla liberta' personale dell'autore del fatto" ed
 attribuisce  un  contenuto  effettivo  all'ultimo  comma dell'art.   13
 Cost.,  che  altrimenti  sarebbe  vanificato  unitamente  allo   stesso
 principio dell'inviolabilita' della liberta' personale;
     c)  l'art.  25,  secondo  comma,  Cost., limitandosi a statuire che
 "nessuno puo' essere punito" -  ed  evitando  di  soggiungere  "per  un
 fatto",  come  appunto recita l'art. 1 c.p. - mostra di riferirsi anche
 al diritto processuale, pur se non certo  alle  disposizioni  puramente
 ordinatarie  o  di  mera  tecnica,  bensi' a quelle che si risolvano in
 danno dell'imputato, nei cui confronti opera,  invece,  l'ultrattivita'
 delle  norme  processuali  piu' favorevoli, la quale trova conferma nel
 primo comma dello stesso art. 25 Cost., quando stabilisce il  principio
 del  giudice  naturale "precostituito" per legge. Ma ulteriore conferma
 ne sono ancora i lavori  preparatori  della  Costituzione,  l'indirizzo
 giurisprudenziale  della  Corte  di  cassazione,  che  si e' interrotto
 successivamente al 1974, ma che va recuperato, la stessa  relazione  al
 re  del  Guardasigilli  del  1931  sulle disposizioni di attuazione del
 codice di procedura penale.  Inoltre, la ratio  dell'art.  25,  secondo
 comma,  Cost.  e' quella, sia di stabilire una garanzia per l'imputato,
 sia di soddisfare un'esigenza di certezza. Ma allora e' alla natura del
 bene tutelato che occorre guardare, nel senso  che,  pur  respingendosi
 l'equiparazione  fra  pena  e  custodia  preventiva,  che hanno diversa
 natura giuridica, diversi scopi, diversa funzione, e cui comunque  osta
 l'art.  27,  secondo  comma,  Cost.,  la realta' e' che la carcerazione
 preventiva si  risolve  ugualmente  in  una  lesione  del  fondamentale
 diritto    di    liberta'   e,   quindi,   postula   un'eguale   tutela
 giurisdizionale.   Infine,  che  le  norme  sulla  custodia  preventiva
 sfuggano  al  principio  di  immediata   applicabilita'   del   diritto
 processuale,  puo'  ritenersi accolto, almeno implicitamente, anche dal
 legislatore  del  dicembre  1979,  il  quale  ha  stabilito,   con   la
 disposizione  transitoria  eccezionale  dell'art. 11, la retroattivita'
 dell'aumento dei limiti massimi della carcerazione  preventiva  proprio
 per  superare, in violazione dell'art. 25 Cost., il principio generale,
 secondo cui "la legge non dispone che per l'avvenire";
     d) l'esigenza che la  durata  della  custodia  preventiva  non  sia
 modificata in peius nel corso di questa si basa anche sulla presunzione
 di  non  colpevolezza,  di cui all'art. 27, secondo comma, Cost. Spetta
 certamente  al  legislatore  di  specificare  la  misura   massima   di
 carcerazione  preventiva,  ed  anche  di  maggiorarla,  mentre  gli  e'
 precluso  di  disporre  l'applicazione  di   eventuali   aumenti   alle
 carcerazioni  iniziate  anteriormente all'entrata in vigore della nuova
 legge: in tal caso, infatti, risulterebbe privilegiata una  presunzione
 opposta  a  quella proclamata dall'art. 27, secondo comma, Cost., cioe'
 la presunzione di colpevolezza dell'imputato in stato di detenzione.
     3. - In tutti e tre i giudizi  e'  intervenuto  il  Presidente  del
 Consiglio dei ministri, tramite l'Avvocatura dello Stato, mentre non si
 e' costituita alcuna delle parti private.
     Le  deduzioni  svolte  dall'Avvocatura nei suoi atti di intervento,
 che concludono tutti con la richiesta di dichiarazione di infondatezza,
 concernono solo l'art. 11 del decreto legge n. 625 del 1979, non  anche
 l'art.  10. A riguardo della denunziata disparita' di trattamento, dopo
 avere  affermato  che  chi  sia  stato  eventualmente  scarcerato   per
 decorrenza  del  termine  anteriormente previsto puo' essere nuovamente
 privato della  liberta'  sino  al  raggiungimento  dei  nuovi  termini,
 osserva  che  in  ogni  caso  la  natura  di  strumento cautelare della
 carcerazione   preventiva    induce    a    ritenere    ragionevolmente
 discriminabili  le situazioni di due soggetti che siano stati catturati
 in tempi diversi; tanto piu' che la carcerazione preventiva verra'  pur
 sempre scomputata in caso di condanna e che il ritardato inizio di essa
 potrebbe  comportare il vantaggio della sua utilizzazione ai fini della
 preparazione della difesa.
     Quanto poi, all'addotto contrasto della  norma  impugnata  con  gli
 artt.  13  e 25 Cost., rileva l'Avvocatura che e' erroneo ritenere che,
 in caso di successione di  leggi,  possano  incidere  sulle  situazioni
 detentive  in  corso  solo  le norme anteriori, e che non puo' negarsi,
 stante  il  ripensamento  della  Corte   di   cassazione,   l'immediata
 applicabilita'  ai  processi  pendenti  delle  nuove norme processuali,
 anche se meno favorevoli all'imputato, sulla base del principio  tempus
 regit  actum.  E si richiama altresi' all'indirizzo dottrinale, secondo
 cui l'irrettroattivita' proclamata dall'art.  25 Cost. si  riferisce  a
 nuovi  reati e sanzioni, non gia' alle nuove modalita' del procedimento
 penale,  considerando   infine   che   il   legislatore   ha   statuito
 esplicitamente, con l'art.  11, l'applicazione ai procedimenti in corso
 al  preciso  scopo  di  precludere  qualche  interpretazione  in  senso
 contrario.
     Con riguardo, da ultimo, all'asserito contrasto con la  presunzione
 di non colpevolezza, l'Avvocatura contesta, una volta riconosciuta alla
 carcerazione   preventiva   la   duplice  finalita'  di  assicurare  la
 genuinita' delle prove  e  la  difesa  sociale,  che  sia  precluso  al
 legislatore  di  prolungare i termini di durata massima anche in ordine
 ai procedimenti in corso, quando tale prolungamento sia richiesto dalle
 crescenti esigenze processuali.
     Alla pubblica udienza, l'Avvocatura ha insistito nelle surriportate
 considerazioni,   concludendo   nuovamente   per  la  dichiarazione  di
 infondatezza di entrambe le questioni.
                         Considerato in diritto:
     1. - Le tre ordinanze in epigrafe sollevano due questioni, le quali
 hanno per oggetto il medesimo istituto - la carcerazione  preventiva  -
 ed  il medesimo testo normativo - il decreto legge 15 dicembre 1979, n.
 625, convertito nella legge  6  febbraio  1980,  n.  15  -,  sicche'  i
 relativi giudizi possono essere riuniti e definiti con unica sentenza.
     2.  -  La prima censura, formulata dalla Corte di assise di Torino,
 e'  rivolta  all'art.  10  del  menzionato  decreto  legge,  nel  testo
 risultante  dalla legge di conversione, in quanto prolunga di un terzo,
 per i delitti ivi previsti, la durata  massima  della  detenzione  ante
 judicium.  Ma  cosi'  questa  - si osserva, nell'ordinanza -, potendosi
 protrarre, con riguardo al periodo intercorrente tra rinvio a  giudizio
 e  processo  di  primo  grado,  sino  a  due  anni  ed  otto  mesi - e,
 complessivamente, addirittura  sino  a  dieci  anni  ed  otto  mesi  -,
 travalica  ogni  ragionevole  limite,  nonostante  che  la  convenzione
 europea dei diritti dell'uomo (legge 4 agosto 1955,  n.  848)  proclami
 all'art.  5,  paragrafo  3,  che  i giudizi a carico di detenuti devono
 essere celebrati "entro un termine ragionevole". E tali non sono  certo
 quelli sopra indicati, che, anzi, "specie per i reati piu' gravi" e per
 il  "tempo  morto"  -  quale  appunto  viene  definito  il  periodo che
 solitamente viene fatto scorrere dopo la chiusura  dell'istruttoria  in
 attesa  del  dibattimento - "non adeguano, in modo rigoroso e coerente,
 la disciplina processuale della  liberta'  personale  dell'imputato  ai
 principi  costituzionali  (artt. 13, primo, secondo e quinto comma, 27,
 secondo comma)".
     La questione riguarda, quindi, la  ragionevolezza  del  termine  di
 carcerazione  preventiva  nella  fase tra il deposito dell'ordinanza di
 rinvio a giudizio e la sentenza di primo grado.
     3. - Tale  questione,  benche'  i  dati  posti  in  evidenza  nella
 prospettazione  suscitino immediato e profondo turbamento, non puo' non
 essere dichiarata infondata.
     Nell'ordinanza  di   rimessione,   il   dispositivo   fa   espresso
 riferimento agli artt. 13, primo, secondo e quinto comma, e 27, secondo
 comma,  Cost.,  ma  l'argomentazione non viene condotta sui principi di
 cui   i   suddetti   articoli   sono   portatori,   bensi'   imperniata
 esclusivamente  sul  principio  di ragionevolezza, rispetto al quale le
 denunziate violazioni risultano configurate come conseguenziali, stante
 la carenza di qualsiasi autonomo motivo a loro riguardo. Ed il suddetto
 principio,  a  sua  volta,  non  viene  affermato  con  richiamo   alla
 giurisprudenza,  ormai  costante,  di  questa  Corte, la quale ne ha da
 tempo  ravvisato  l'esistenza  nel  nostro  sistema  costituzionale   -
 statuendo  esplicitamente  che  il  legislatore  e' tenuto al "rispetto
 della ragionevolezza" (sentenza n. 7  del  1965),  che  esso  trova  un
 "limite  nella  ragionevolezza"  (sentenza  n.  164 del 1971) -, bensi'
 invocando  l'art.  5,  paragrafo  3,  della  convenzione   europea   di
 salvaguardia.    All'uopo  si  rileva che, poiche' i principi da questa
 dettati "sono stati recepiti dal nostro ordinamento", nella  specie  va
 osservato  quello, enunciato appunto nel suddetto articolo, secondo cui
 "ogni persona arrestata o detenuta ha diritto di essere giudicata entro
 un termine ragionevole".
     Senonche',  la  suddetta norma della convenzione di salvaguardia su
 cui il giudice a quo poggia il suo ragionamento,  da  un  lato  non  si
 colloca  di per se stessa a livello costituzionale, dall'altro lato non
 propone alcun criterio concreto, in quanto si astiene dal  fornire  una
 qualsiasi  specificazione.  Ed una valutazione della ragionevolezza che
 non sia ancorata ad un criterio concreto, ma solo ad  una  enunciazione
 vaga ed elastica, puo' riuscire opinabile in difetto di un'analisi piu'
 articolata ed approfondita.
     4.  -  Per  operare  il  controllo sulla ragionevolezza dei termini
 massimi di carcerazione preventiva, quali risultano  stabiliti  con  la
 norma  impugnata,  occorre  previamente individuare e valutare la ratio
 che ha indotto il legislatore  a  disporre  il  prolungamento  di  quei
 termini.  Al  riguardo  non  e'  consentito  nutrire alcun dubbio: tale
 prolungamento rientra fra le "misure urgenti per la tutela  dell'ordine
 democratico  e  della  sicurezza pubblica", come testualmente recita il
 titolo della legge, ed e'  causato  dalle  "obiettive  difficolta'  che
 esistono per gli accertamenti istruttori e dibattimentali concernenti i
 reati   in   questione",   come   testualmente  dichiara  la  relazione
 governativa che accompagna il disegno di legge di conversione.  Dunque,
 come  l'esigenza della tutela dell'ordine democratico e della sicurezza
 pubblica e' l'occasio  legis,  cosi'  le  obiettive  difficolta'  degli
 accertamenti  ne  sono  la  ratio.  E'  in questo ambito, allora, ed in
 rapporto alle circostanze, che la questione va valutata.
     Nella specie, tali  circostanze  sono  identificabili  nella  causa
 occasionale e nella ragione giustificatrice di cui sopra.
     In  quanto  alla  causa  occasionale, esplicitamente indicata dallo
 stesso legislatore nella necessita' di tutelare l'ordine democratico  e
 la  sicurezza  pubblica  contro  il  terrorismo e l'eversione, non puo'
 certo dubitarsi dell'esistenza  e  consistenza,  della  peculiarita'  e
 gravita'  del  fenomeno  che  si  intende  combattere, e cui appunto si
 riferisce l'imputazione sulla quale deve giudicare la Corte  di  assise
 di  Torino.  Ed  invero,  si  tratta di un fenomeno caratterizzato, non
 tanto, o non solo, dal disegno di abbattere le istituzioni democratiche
 come concezione, quanto dalla effettiva  pratica  della  violenza  come
 metodo  di  lotta  politica,  dall'alto  livello  di  tecnicismo  delle
 operazioni compiute, dalla capacita' di reclutamento nei piu' disparati
 ambienti sociali.
     5. - Di fronte ad una situazione d'emergenza, quale risulta  quella
 in  argomento,  quando  la  questione venga collocata in un quadro piu'
 ampio di quello offerto dall'ordinanza che l'ha sollevata, Parlamento e
 Governo hanno non solo il diritto e potere,  ma  anche  il  preciso  ed
 indeclinabile dovere di provvedere, adottando una apposita legislazione
 d'emergenza.
     Conseguentemente,  non  puo'  non riconoscersi che i limiti massimi
 della carcerazione preventiva, derivanti  dal  prolungamento  stabilito
 con  l'art. 10 del decreto legge n.  625 del 1979, nel testo modificato
 dalla legge di conversione n. 15 del 1980,  valutati  alla  luce  delle
 suesposte   considerazioni,  non  possono  considerarsi  irragionevoli,
 risultando  disposti  in  ragione  delle  "obiettive  difficolta'   che
 esistono   per   gli  accertamenti  istruttori  e  dibattimentali"  nei
 procedimenti che hanno ad oggetto "i delitti commessi per finalita'  di
 terrorismo e di evasione dell'ordine democratico".
     Altra  ancora e' la questione - sulla quale converra' piu' appresso
 tornare  -  dell'adeguamento   dell'organizzazione   giudiziaria   alle
 accresciute  esigenze,  che  sia  parallelo  alle  altre misure urgenti
 adottate e favorisca  cosi'  la  definizione,  davvero  sollecita,  dei
 processi.
     E'   comunque  nella  logica  del  discorso  la  constatazione  che
 terrorismo  ed  evasione  da  un  lato,  prolungamento  della  custodia
 preventiva dall'altro, stanno tra loro in rapporto di causa ad effetto:
 ne  sono  prova  documentale  le riforme, in senso nettamente liberale,
 adottate progressivamente in materia a  partire  dal  ripristino  della
 vita democratica e l'inversione di tendenza a partire dal decreto legge
 11  aprile  1974,  n. 99, convertito nella legge 7 giugno 1974, n. 220,
 che venne  adottato  appunto  in  coincidenza  con  il  dilagare  della
 violenza.
     6.  -  E'  altra  - e, comunque, non giuridica - la questione se il
 prolungamento dei suddetti termini sia il mezzo  piu'  appropriato  per
 sradicare  o,  almeno,  per  fronteggiare  con  successo  terrorismo ed
 evasione. Una valutazione in proposito e' preclusa al giudice, sia pure
 il giudice delle leggi, perche' si risolverebbe in un sindacato su  una
 scelta  operata  in  tema  di  politica  criminale  dal  potere  su cui
 istituzionalmente grava la responsabilita' di tutelare la  liberta'  e,
 prima ancora, la vita dei singoli e dell'ordinamento democratico.
     7.  -  A  questo  punto, pero', si impongono due distinte, ma a ben
 guardare, convergenti precisazioni.
     Se si deve ammettere che un ordinamento, nel  quale  il  terrorismo
 semina  morte  -  anche  mediante  lo  spietato assassinio di "ostaggi"
 innocenti  -  e  distruzioni,  determinando  insicurezza   e,   quindi,
 l'esigenza  di  affidare  la  salvezza  della  vita e dei beni a scorte
 armate ed a polizia privata, versa in uno stato di emergenza, si  deve,
 tuttavia,  convenire che l'emergenza, nella sua accezione piu' propria,
 e' una condizione certamente anomala e grave, ma  anche  essenzialmente
 temporanea.  Ne  consegue  che essa legittima, si', misure insolite, ma
 che queste perdono legittimita', se ingiustificatamente  protratte  nel
 tempo.
     Va   poi  osservato  che,  pur  in  regime  di  emergenza,  non  si
 giustificherebbe un  troppo  rilevante  prolungamento  dei  termini  di
 scadenza  della  carcerazione  preventiva,  tale  da condurre verso una
 sostanziale vanificazione della garanzia.  Della esigenza di rispettare
 criteri di congruita' si mostro' del resto ben  consapevole  lo  stesso
 legislatore,  quando nel corso dell'iter formativo della legge in esame
 volle limitare ad un terzo l'aumento dei termini, inizialmente proposto
 invece nella misura della meta'.
     Merita altresi'  di  essere  preso  in  attenta  considerazione  il
 rilievo  che  nell'ordinanza viene conferito al "tempo morto", cioe' al
 periodo "in cui non si  svolgono  attivita'  processuali",  per  essere
 stata  chiusa l'istruttoria, e tuttavia "le carte processuali rimangono
 giacenti  in  attesa  di  passare  sui   banchi   del   primo   giudice
 dibattimentale".  Ebbene  -  osserva  il  giudice a quo - nel frattempo
 l'imputato, sia pure per  i  reati  piu'  gravi,  rimane  in  stato  di
 detenzione  sino  a  due  anni  ed  otto  mesi.  E non si possono certo
 invocare a giustificazione, ne' le esigenze temporali dell'istruttoria,
 che e', gia' esaurita, ne' una condanna in grado  di  appello,  cui  si
 attribuisce  nell'ordinanza l'effetto di ridurre "l'area di presunzione
 di  innocenza".  La  sola  giustificazione,  peraltro  inammissibile  -
 prosegue la Corte di assise di Torino - sarebbe la "crisi di efficienza
 dell'amministrazione  della Giustizia", cioe' "l'affollamento dei ruoli
 di udienza per carenza di organici e la impossibilita' di addivenire  a
 tempestive    ("ragionevoli")    fissazioni   dei   processi   per   il
 dibattimento".
     Non puo' negarsi la consistenza del  rilievo,  che  tocca  uno  dei
 punti dolenti - il massimo, anzi - del nostro processo penale. E sembra
 non potersi negare neppure che si tratta di un rilievo in fatto, per il
 quale  il  legislatore  non puo' essere chiamato direttamente in causa,
 giacche' la durata del "tempo morto", indubbiamente deplorevole, che si
 registra in tante vicende giudiziarie, non  deriva  da  alcuna  precisa
 disposizione  di  legge.  Tuttavia  cio'  non  esime il legislatore dal
 dovere di creare le condizioni che riducano al minimo il "tempo morto".
 Una legislazione d'emergenza non puo' non comprendere anche misure atte
 ad adeguare l'ordinamento giudiziario ai tempi, quale  sarebbe  appunto
 una piu' razionale ed efficiente organizzazione, ad ogni livello, degli
 uffici giudiziari, in personale e mezzi, che sia in grado di soddisfare
 con  sollecitudine  le  nuove  e  maggiori  esigenze proprio la' dove e
 quando  esse  si  verificano.  E'  un  compito,  questo,  al  quale  il
 legislatore  non  puo'  piu'  sottrarsi in coerenza con le altre misure
 urgenti ed eccezionali adottate.
     8.  -  La  seconda  censura,  formulata  anche   da   due   giudici
 dell'ufficio  istruzione presso il Tribunale di Padova, oltre che dalla
 Corte di assise di Torino, e' rivolta all'art. 11 del medesimo  decreto
 legge,  a  norma del quale "la disposizione dell'articolo precedente si
 applica anche ai procedimenti  in  corso".  Tutti  i  suddetti  giudici
 denunziano, con motivazioni pressoche' coincidenti, le violazioni degli
 artt.  3,  primo  comma, 13, primo, secondo e quinto comma, 25, secondo
 comma, e 27, secondo comma, Cost.
     9. - Il testo costituzionale prevede l'istituto della  carcerazione
 preventiva  (art.  13,  ultimo  comma)  e  proclama,  ad  un  tempo, il
 principio della presunzione  di  non  colpevolezza  (art.  27,  secondo
 comma).  Dalla  constatazione,  non  irrilevante, anche se ovvia, della
 consistenza delle due ricordate norme si deduce che, nel  pensiero  del
 costituente,  esse  sono pienamente compatibili: come la presunzione di
 non colpevolezza non impedisce la carcerazione preventiva, cosi' questa
 non pregiudica quella. Non  la  pregiudica  -  e'  appena  il  caso  di
 sottolineare sul piano giuridico, e neppure su quello piu' propriamente
 processuale,  una  volta  che  la carcerazione preventiva, ne' acquista
 valore probatorio e, quindi,  determinante  ai  fini  dell'affermazione
 della  responsabilita', ne' influisce sulla misura dell'eventuale pena.
 Ed al riguardo nulla  rilevano  in  contrario  gli  innegabili  effetti
 negativi,  sempre  gravi  e  sovente  irreparabili,  che effettivamente
 vengono provocati dalla carcerazione preventiva, ma su piani diversi da
 quello giuridico.
     Alla luce delle suesposte considerazioni, appare  fallace,  pur  se
 indubbiamente  suggestivo,  il  concorde  ragionamento  dei  giudici  a
 quibus, anche se svolto con maggiore  ampiezza  da  quello  di  Padova.
 Secondo  essi,  infatti,  poiche'  la  presunzione  di non colpevolezza
 "determina una serie di  conseguenze  necessitate,  tra  cui  anche  il
 rispetto dei limiti massimi prestabiliti di carcerazione preventiva", e
 poiche'   ancora   questo   rispetto  "costituisce  un  mezzo  volto  a
 prestabilire i sacrifici che si  possono  richiedere  all'imputato"  al
 duplice  fine  di "assicurare un efficace svolgimento del processo e al
 contempo di impedire che il  costo  del  processo  gravi  sull'imputato
 detenuto  oltre  una certa ragionevole misura", ne conseguirebbe che un
 "ampliamento stabilito in corso di carcerazione" si risolverebbe in "un
 sostanziale restringimento della presunzione" in parola,  riconducibile
 ad "una logica che sembra privilegiare una presunzione contraria, cioe'
 quella di colpevolezza dell'imputato in stato di detenzione".
     La  carcerazione  preventiva  non  produce  -  beninteso, sul piano
 giuridico, sia sostanziale,  sia  processuale,  nel  senso  piu'  sopra
 illustrato  -  maggiori  o  minori  conseguenze,  a  seconda  della sua
 maggiore o minore durata, per cui questa, nei casi  in  cui  risultasse
 non ragionevole, potrebbe essere dichiarata illegittima per tal motivo,
 non  gia'  per  l'asserita sua incidenza giuridica sulla presunzione di
 non colpevolezza. Argomentare dalla durata per pervenire a  conclusione
 opposta  a  quella  di  cui  sopra  significa  confondere  -  e sta qui
 soprattutto  la  fallacia  del  ragionamento  -  due  piani  che   sono
 nettamente distinti, facendo valere nel campo giuridico gli effetti che
 si verificano nel campo sociale.
     Ma il ragionamento, che poi consiste, a ben guardare, nel conferire
 pressoche' esclusivo valore alla durata, risolvendo in essa l'istituto,
 si  presta anche ad altri rilievi. In primo luogo, infatti, non risulta
 indicato - pur essendone la premessa -  alcun  criterio  oggettivo,  in
 base  al  quale  possa  stabilirsi  il  limite  massimo  della custodia
 preventiva, oltre il quale esso non sarebbe piu' ragionevole e, quindi,
 restringerebbe la presunzione  di  non  colpevolezza,  sicche'  risulta
 valutazione   meramente   soggettiva   quella,   secondo   cui  sarebbe
 ragionevolmente congrua una durata di due anni, ma non di due  anni  ed
 otto  mesi. In secondo luogo, il ragionamento puo' sboccare, a rigor di
 logica e sia pure  inavvertitamente,  persino  nell'affermazione  della
 illegittimita'  costituzionale  dello  stesso  istituto. Ne fornisce la
 prova l'ordinanza della Corte di assise di Torino, ove  proprio  questa
 conseguenza  risulta  in  fondo sostenuta, la' dove si legge che "detto
 principio di non colpevolezza, di cui all'art. 27  della  Costituzione,
 postula  l'esigenza  che  ogni restrizione della liberta' personale non
 fondata sulla pena, da eseguire per condanna definitiva, urta contro il
 dettato costituzionale". Ed allora, se si  assume  il  principio  della
 presunzione  di  non colpevolezza sempre e solo nel suo corretto valore
 giuridico - piu' precisamente, processuale -, e  se  si  considera  che
 l'ampliamento  della  durata  della  custodia  preventiva  nel corso di
 questa non produce neppur esso alcun pregiudizio sul piano processuale,
 non puo' non convenirsi che l'applicazione  dell'art.  10  del  decreto
 legge n.  625 del 1979 ai procedimenti ancora in via di definizione non
 contrasta con l'art. 27, secondo comma, Cost.
     10.  -  Analogamente  si  deve  concludere  quando  il dubbio sulla
 legittimita' costituzionale della norma denunziata  viene  espresso  in
 riferimento agli artt. 13, primo, secondo e quinto comma, e 25, secondo
 comma, Cost.
     a)  Per  quanto  riguarda  l'art.  13,  gli argomenti dei giudici a
 quibus si fondano sui due primi commi, mentre all'ultimo, che  pure  e'
 anch'esso  espressamente  indicato,  si  accenna  solo di sfuggita, per
 affermarne conseguenzialmente la vanificazione.
     Dalla proclamazione dell'inviolabilita' della  liberta'  personale,
 di  cui  al  primo  comma,  si  ricava il carattere eccezionale di ogni
 limitazione che ad essa venga posto, con la conseguenza che  "nel  caso
 di  successioni  di leggi, le nuove norme contra libertatem non possono
 incidere negativamente sulle situazioni  in  corso",  tra  cui  appunto
 quelle  detentive,  e  si ricava altresi' la configurazione del diritto
 alla scarcerazione come "diritto quesito".
     Gli argomenti surriportati rivelano una fragile consistenza.
     Non e' dubitabile  che  il  principio  della  inviolabilita'  della
 liberta'   personale   e'  la  regola  e  che,  conseguentemente,  ogni
 limitazione ad  esso  si  configura  come  eccezione.  Da  tale  esatta
 premessa  non dipende tuttavia la conseguenza che nelle ordinanze se ne
 trae, cioe' che le carcerazioni preventive in corso siano al riparo  da
 leggi  posteriori  che  ne  aumentino la durata. L'affermazione risulta
 apodittica, nel senso che e' malamente puntellata con l'asserzione  che
 non  v'e'  differenza,  di  fronte a nuove norme contra libertatem, tra
 fatti-reato gia' avvenuti e situazioni detentive in corso.   Ma  questo
 potrebbe affermarsi, solo se fosse dimostrato incontrovertibilmente che
 l'irretroattivita'  di cui all'art. 25, secondo comma, si estende anche
 alle norme procedurali.
     Egualmente indubitabile e' il diritto al riacquisto immediato della
 liberta', non appena scaduti i termini della detenzione preventiva.  Ed
 invero, il riconoscimento di tale diritto e' soluzione giuridicamente e
 logicamente  obbligata,  che  si  lascia  esplicitare  immediatamente e
 facilmente dal principio dell'inviolabilita' della liberta'  personale,
 ma  di  cui  non  e'  sostenibile,  perche' immotivata, l'evoluzione in
 diritto  quesito,  non  potendosi  ritenere  motivazione  appagante  il
 semplice  richiamo  al  suddetto  principio della inviolabilita'. Nelle
 stesse ordinanze in esame, del  resto,  la  custodia  preventiva  viene
 qualificata  "interinale",  pur se, immediatamente dopo, tale aggettivo
 venga sostituito con la locuzione, piuttosto  ambigua,  di  "situazione
 gia' costituita".
     b)  Dalla  statuizione,  poi,  di cui al secondo comma, a sensi del
 quale devono essere "previsti" i casi ed i modi in cui  la  restrizione
 della  liberta'  personale  e'  ammessa,  si  deduce  l'esigenza di una
 "previsione", cioe' di una regolamentazione preventiva di ogni  aspetto
 della  restrizione  stessa,  con la conseguenza che le regole di questa
 non possono essere mutate in danno della liberta'.
     Senonche',  a  tale  conseguenza  si  perviene,  non  solo  con  un
 argomento  meramente  esegetico,  ma  anche  con  la  trasposizione  ed
 applicazione del risultato ottenuto in via esegetica da  una  ad  altra
 norma, sia pure nell'ambito dello stesso articolo 13.
     Si  puo'  anche  prescindere al riguardo dall'osservazione che, nel
 linguaggio giuridico,  anche  in  quello  propriamente  normativo,  non
 sempre  al  verbo  -  "previsti"  -,  dal  quale  traggono argomento le
 ordinanze in esame, corrisponde  il  sostantivo  "previsione",  essendo
 tutt'altro  che  infrequenti  le  occasioni,  in  cui allo stesso verbo
 corrisponde, invece, il significato di "disposizione". Sembra darne  la
 prova lo stesso legislatore costituente: nell'art. 38, secondo e quarto
 comma,  infatti,  i  mezzi  ivi  "preveduti",  oltre che assicurati, ai
 lavoratori, ed i  compiti  conseguentemente  "previsti"  possono  anche
 intendersi come mezzi e compiti "disposti" o "stabiliti".
     Comunque,  a parte quanto teste' osservato solo incidentalmente, se
 nella  specie   deve   ritenersi   senz'altro   corretta   la   dedotta
 sostantivazione,   appare,   viceversa,   non   egualmente  corretta  e
 congruente l'ulteriore inferenza. Che la Costituzione esiga,  affinche'
 la  restrizione  della  liberta'  personale  sia legittima, la puntuale
 "previsione" legislativa dei  "casi  e  modi"-  oltre  che,  s'intende,
 l'atto   motivato  dell'autorita'  giudiziaria  -  non  e'  menomamente
 disputabile,  stante  il  dettato letterale. Ora, puo' essere opinabile
 cosa propriamente debba intendersi in positivo per gli uni  ("casi")  e
 per  gli  altri ("modi"), ma non in negativo, essendo incontrovertibile
 che, ne' nel lessico, ne' in alcun testo normativo, ne' nella  dottrina
 giuridica, si rintraccia anche solo un appiglio per sostenere che "casi
 e  modi"  siano suscettibili di indicare un qualsiasi limite temporale.
 L'argomentazione trova, oltre tutto, una duplice smentita proprio nello
 stesso art. 13: gli aspetti temporali della restrizione della  liberta'
 personale,  infatti,  sono  disciplinati nel terzo e nell'ultimo comma,
 sicche',  ove  si  facesse  applicazione  di  un  ben  noto   brocardo,
 l'inclusione di tali aspetti nei suddetti commi e l'esclusione, invece,
 dal  secondo comma, confermerebbero chiaramente la non fondatezza della
 motivazione a sostegno del dubbio espresso  nelle  ordinanze;  inoltre,
 poiche'  l'ultimo  comma  dice  che  la  legge  "stabilisce"  - non che
 "prestabilisce" -  i  limiti  massimi  della  carcerazione  preventiva,
 basterebbe  il ricorso a questo rilievo letterale per ottenere la prova
 dell'inestensibilita' della "previsione" dei "casi e modi"  di  cui  al
 secondo  comma  alla durata della custodia preventiva di cui all'ultimo
 comma.
     11. - A dimostrazione della fondatezza  della  censura  rivolta  al
 medesimo  art.  11  del  decreto  legge  n. 625 del 1979 in riferimento
 all'art. 25, secondo comma, Cost., le ordinanze in  epigrafe  espongono
 una vasta gamma di motivi.
     L'irretroattivita' proclamata dalla predetta norma costituzionale -
 sostengono  i giudici a quibus - deve essere interpretata nel senso che
 comprende, non solo il  diritto  penale  sostantivo,  ma  anche  quello
 processuale.  Anzitutto,  non  e'  priva  di significato al riguardo la
 constatazione  che  la  norma  costituzionale  de  qua  sia   formulata
 genericamente,  cioe' senza quello specifico riferimento ad un "fatto",
 come si legge, invece, nell'art.  1  del  codice  penale.  Se,  poi,  -
 aggiungono  le  ordinanze  in  esame  -  si  confronta il contenuto dei
 principi  costituzionali  con  il  contenuto  e   la   funzione   delle
 disposizioni processuali, si coglie che la ratio dell'art.  25, secondo
 comma,  Cost.,  "non  sia  quella di rendere immutevoli le norme penali
 applicabili alle fattispecie verificatesi, bensi' quella di offrire una
 garanzia soggettiva ai singoli", che soddisfa un'esigenza di  certezza,
 e che percio' non puo' venir meno anche in caso di successione di leggi
 processuali.  Ma  sono  numerosi  ancora  i  motivi  - sempre secondo i
 giudici remittenti - che convergono univocamente verso  l'opinione  che
 la  norma  costituzionale  in  discorso  si  estende  anche  al diritto
 processuale,  quando  le  nuove  disposizioni  si  risolvano  in  danno
 dell'imputato:  i  lavori  preparatori  della Costituzione; l'indirizzo
 giurisprudenziale seguito dalla Cassazione sino  al  1974;  persino  la
 relazione  al  re  sulle  disposizioni  di  attuazione  del  codice  di
 procedura penale del  1931;  la  considerazione  che,  pur  se  pena  e
 carcerazione  preventiva  abbiano  "diversa  natura  giuridica, diversi
 scopi,  diversa  funzione",  il  bene  tutelato,  cioe'   la   liberta'
 personale,  "puo'  venire ugualmente aggredito tanto dalla legge penale
 sostanziale quanto da quella procedurale". Osservano infine gli  stessi
 giudici a quibus che, come l'ultrattivita' delle norme processuali piu'
 favorevoli  trova conferma nel primo comma dello stesso art.  25 Cost.,
 in quanto dispone che nessuno puo' essere distolto dal giudice naturale
 "precostituito"  per  legge,  cosi'  l'irretroattivita'   delle   norme
 processuali  piu'  sfavorevoli  trova  a  sua  volta conferma, anche se
 implicita,  nella  necessita',  avvertita  dal legislatore del dicembre
 1979, di disporre esplicitamente l'applicazione del  prolungamento  dei
 termini  massimi  di  carcerazione  preventiva anche ai procedimenti in
 corso.
     a) L'opinione sostenuta nelle ordinanze - giova ripeterlo, prima di
 affrontare i singoli argomenti -  e'  che  l'art.  25,  secondo  comma,
 Cost.,  deve  intendersi  nel  senso che l'irretroattivita' della legge
 penale, ivi proclamata, si applica anche alle norme processuali.
     Non puo' dirsi tuttavia che gli argomenti  addotti  a  sostegno  di
 tale  opinione  rivelino  una  capacita'  di  persuasione  pari al loro
 numero. Alcuni di essi, anzi, si prestano ad una  facile  confutazione.
 Cosi':  si  fa  richiamo  ai  lavori  preparatori  della Costituzione -
 omettendo peraltro precise indicazioni -, ed  in  tali  lavori  non  si
 rinviene,  invece,  alcun  riscontro  che  convalidi  l'assunto;  si fa
 richiamo alla giurisprudenza della Corte di cassazione, ma  si  ammette
 che  quella  successiva  al 1974 e' tutta in senso nettamente contrario
 all'opinione prospettata nelle ordinanze; si invoca  il  principio  del
 giudice naturale "precostituito" per legge, di cui al primo comma dello
 stesso  art.  25,  e  non  si spende parola per dimostrare come da tale
 principio  si   tragga   "conferma   dell'ultrattivita'   delle   norme
 processuali"  e, quindi, dell'illegittimita' costituzionale della norma
 denunziata; si fa un raffronto tra l'art. 1 del codice penale e  l'art.
 25,  secondo comma, Cost., il quale ultimo, pur statuendo anch'esso, al
 pari di quello, che "nessuno puo' essere punito",  si  differenzierebbe
 dal  predetto  articolo  1,  in  quanto  omette  di soggiungere "per un
 fatto", e non si tiene conto che  l'asserita  differenza  e'  solo  nel
 diverso  ordine  in  cui  le due proposizioni sono formulate, nel senso
 che, mentre nell'articolo 1 del codice penale il riferimento al "fatto"
 e' collocato nella parte iniziale della disposizione, nell'articolo 25,
 secondo comma, Cost., lo stesso riferimento - al "fatto commesso", piu'
 propriamente - e' collocato,  invece,  nella  parte  terminale.  E  non
 sembra,   infine,   che   occorra   un'approfondita  dissertazione  per
 dimostrare l'arbitrarieta' della congettura, secondo cui il legislatore
 non si e' limitato a dettare la disposizione di  cui  all'art.  10  del
 decreto  legge  n.  625  del  1979,  ma  ha  avvertito la necessita' di
 precisare, con l'apposita norma di cui  all'art.  11,  l'applicabilita'
 dei  nuovi e maggiori termini ai procedimenti in corso, proprio perche'
 conscio  che  "le  norme  sulla  custodia  preventiva  non  sono  norme
 processuali  vere  e  proprie". Al riguardo bastera', infatti, dire che
 questa Corte ha piu' volte riconosciuto nella  carcerazione  preventiva
 scopi  essenzialmente  connessi  al  processo (sentenze nn. 64 e 96 del
 1970, 135 del 1972, 74 e 147 del 1973, 68 del 1974, 146 del 1975) e che
 la congettura in discorso non costituisce motivo che  possa  indurre  a
 mutare quel consolidato avviso.
     b)  Nonostante  la maggiore elaboratezza delle loro prospettazioni,
 appaiono implausibili anche due dei tre argomenti residui: oltre tutto,
 il loro eventuale accoglimento porterebbe a  risultati  non  collimanti
 col sistema.
     E'  senza  dubbio  esatto  che  l'art.  25,  secondo  comma, Cost.,
 stabilisce una garanzia per l'imputato, e  non  si  ha  difficolta'  ad
 ammettere altresi' che la vera ratio, ravvisabile al fondo della norma,
 e'   un'esigenza   di  certezza.  Tale  riconoscimento  non  giustifica
 tuttavia, la deduzione che, quindi, nel campo penale, devono  ritenersi
 irretroattive,   non   solo  le  norme  sostanziali,  ma  anche  quelle
 processuali.    L'argomento,  a  parte  quanto  si dira' in seguito sul
 valore di garanzia per l'imputato, prova troppo, dato che l'esigenza di
 certezza e' alla base di ogni  rapporto  giuridico  e,  meglio  ancora,
 della vita stessa del diritto.
     Quando  poi  si  argomenta  dalla  natura  del  bene  tutelato la -
 liberta' personale -, dicendosi che, in caso di detenzione,  e'  sempre
 esso in gioco, e che percio' nulla rileva che quella sia sofferta prima
 del giudizio, anziche' in esecuzione di una condanna, si deve osservare
 che  l'argomentazione,  per  un verso e' palesemente contraddittoria e,
 per altro verso, va oltre il  segno.  E'  palesemente  contraddittoria,
 perche',  pur  premettendosi  che  l'equiparazione  fra pena e custodia
 preventiva e' "vietata proprio dall'art. 27, secondo comma",  Cost.,  e
 che  l'art.  25, secondo comma, non si estende alla custodia preventiva
 "in quanto forma di espiazione anticipata della sanzione detentiva", si
 afferma poi che la carcerazione preventiva  "si  risolve  in  una  pena
 subita  prima  della  definizione  del  processo";  tanto che "anche la
 legge, d'altra parte, la considera  tale  per  certi  effetti",  com'e'
 appunto il caso della conversione della custodia preventiva in pena, ai
 sensi  dell'art.  137  del  codice  penale.  La  contraddittorieta' non
 svanisce, solo perche' si precisa che il ragionamento viene condotto e,
 "dal punto di vista dell'imputato",  dato  che  la  questione  concerne
 appunto l'imputato. L'argomentazione va, poi, oltre il segno, in quanto
 il   suo   logico   risultato  sarebbe  la  cancellazione  dalla  Carta
 costituzionale  dell'istituto  della  detenzione  preventiva,   perche'
 proprio  essa - indipendentemente dalla sua durata - "pur diversa, come
 s'e' detto, dalla pena, si risolve per l'individuo in  una  restrizione
 totale della sua liberta' ".
     c)  Questa  Corte  ha  costantemente affermato, tra l'altro, che la
 carcerazione preventiva "ben puo'  legittimamente  essere  disposta  in
 vista   della  soddisfazione  di  esigenze  di  carattere  cautelare  e
 strettamente inerenti al processo" (sentenze nn. 64 e 96 del 1970, 74 e
 147 del 1973, 146 del 1975, 88  del  1976);  che  "e'  giustificata  da
 esigenze eminentemente processuali" (sentenza n. 68 del 1974); che "ha,
 evidentemente,  tra le sue finalita', quella di evitare che l'inquisito
 o l'imputato distorca i fatti o inquini le prove, cioe', in definitiva,
 cerchi di eludere l'applicazione della proporzionata sanzione punitiva"
 (sentenza n. 26 del 1972); che "si inserisce  nel  processo",  giacche'
 "risponde  a  una  sua  ratio,  vuole  soddisfare concrete esigenze del
 processo" (sentenza n. 135 del 1972). Tale indirizzo giurisprudenziale,
 cui si e' ispirata altresi' la  sentenza  n.  1  del  1980,  e  cui,  a
 decorrere  dal  1975, ha aderito anche la Corte di cassazione, induce a
 non accogliere la concezione, emergente dalle ordinanze,  della  natura
 di  diritto sostantivo dell'istituto della carcerazione preventiva. Ne'
 contro questo consolidato orientamento  vale  richiamare  la  contraria
 opinione,  espressa  dal  Guardasigilli  del  1931  ed  invocata  nelle
 ordinanze, secondo cui "le norme del codice  di  procedura  penale  che
 dispongono  sulla  liberta'  personale  dell'imputato  hanno  carattere
 restrittivo,  e  pero'  debbono  soggiacere  ai  criteri   di   diritto
 transitorio  propri  del diritto penale materiale e di ogni altra legge
 che restringa il libero esercizio  di  diritti,  e  non  a  quelli  del
 diritto   penale  processuale".  E  poiche'  inoltre  nella  specie  si
 controverte piu' propriamente sul prolungamento di quest'ultima,  giova
 ricordare ancora una volta che essa risulta disposta al dichiarato fine
 di   ovviare   alle   "obiettive   difficolta'  che  esistono  per  gli
 accertamenti  istruttori  e  dibattimentali  concernenti  i  reati"  di
 terrorismo e di eversione.
     Anche per  quanto  riguarda,  infine,  l'ulteriore  affermazione  -
 quella,   secondo   cui  l'art.  25,  secondo  comma,  Cost.,  dovrebbe
 interpretarsi nel senso della sua applicabilita' alle norme processuali
 penali - si puo', in aggiunta a quanto  osservato  in  precedenza,  far
 richiamo  alla giurisprudenza, e precisamente alla sentenza della Corte
 di cassazione (Sez. V penale, n.  1159  del  1975),  che  riconosce  la
 "natura meramente strumentale" della carcerazione preventiva e, quindi,
 l'applicazione  del principio tempus regit actum. Il diverso avviso dei
 giudici a quibus viene fondato  in  definitiva  su  due  argomenti:  il
 confronto  tra  la  formulazione  dell'art. 25, secondo comma, Cost., e
 quella dell'art. 1 c.p.;  l'asserto  che  l'attivita'  giurisdizionale,
 valutata nel concreto, ha fondamentalmente funzione di garanzia, da cui
 deriva la logica conseguenza dell'assimilazione delle norme processuali
 penali   alle   norme   sostanziali,   quando  si  risolvano  in  danno
 dell'imputato.
     Ora, sul motivo dedotto dalla comparazione tra i dati letterali dei
 due sopra richiamati articoli non pare  necessario  integrare  la  gia'
 esposta osservazione in contrario, anch'essa basata sui dati letterali,
 che  le  due formulazioni, a ben guardare, non si respingono. In ordine
 al secondo argomento, bastera' aggiungere  che  la  natura  strumentale
 dell'istituto   in  parola,  esattamente  individuata  dalla  Corte  di
 cassazione, oltre che impedire l'assimilazione  tra  il  "fatto"  e  lo
 "strumento"  per  accertarne  l'esistenza  e la conformita' al diritto,
 consente di cogliere nella sua  completa  prospettiva  la  funzione  di
 garanzia  della  carcerazione preventiva, e del processo in genere, nel
 senso che non e' garanzia solo dell'imputato, ma anche  -  e,  prima  -
 dell'attuazione  della legge, della ordinata convivenza, della salvezza
 delle  istituzioni.  Se  questo  e',  l'argomento   dell'applicabilita'
 dell'art. 25, secondo comma, Cost., anche alle norme processuali penali
 perde  validita'  nella  sua  stessa impostazione, la quale viene fatta
 poggiare su un criterio palesemente riduttivo della realta'.
     12. - L'applicazione  del  prolungamento  dei  termini  massimi  di
 durata  della detenzione preventiva ai procedimenti in corso - si legge
 ancora nelle ordinanze in esame - viola l'art. 3, primo  comma,  Cost.,
 nel   senso   che  "crea  disparita'  di  trattamento  irragionevoli  e
 svincolate  da   qualsiasi   motivo   oggettivo   di   regolamentazione
 differenziata".  Basti  considerare  che,  nel caso di coimputati nello
 stesso processo, mentre l'uno puo' avere gia' riacquistato la  liberta'
 anteriormente  all'entrata in vigore del decreto legge n. 625 del 1979,
 essendo scaduti i due anni  previsti  dalla  precedente  disciplina  in
 materia, l'altro, in quanto catturato successivamente, perche' "rimasto
 in  un  primo momento latitante o individuato nel corso dell'istruzione
 per  sopravvenute  acquisizioni   probatorie",   dovra'   soffrire   il
 prolungamento  della detenzione preventiva. Eppure, secondo i giudici a
 quibus,  si  tratta  di  "situazioni  identiche,   nel   fatto,   nella
 contestazione del reato, nel provvedimento restrittivo della liberta'".
     La  questione,  i  cui  esatti  termini consistono nel dubbio se la
 asserita disparita' derivi effettivamente  dalla  legge  ovvero  da  un
 elemento  casuale,  e'  inammissibile  per  irrilevanza, risultando che
 l'ipotesi non si e' verificata nei procedimenti  in  corso  dinanzi  ai
 giudici a quibus.
                            PER QUESTI MOTIVI
                         LA CORTE COSTITUZIONALE
     a) dichiara non fondata la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 10 del decreto legge 15 dicembre 1979, n. 625 (misure urgenti
 per  la  tutela  dell'ordine  democratico  e della sicurezza pubblica),
 convertito con modificazioni  nella  legge  6  febbraio  1980,  n.  15,
 sollevata, in riferimento agli artt. 13, primo, secondo e quinto comma,
 e  27,  secondo  comma,  Cost.,  dalla  Corte  di  assise di Torino con
 l'ordinanza 3 maggio 1980 (Reg. ord. n. 453/1980);
     b)   dichiara   inammissibile   la   questione   di    legittimita'
 costituzionale  dell'art. 11 del summenzionato decreto legge n. 625 del
 1979, sollevata, in riferimento all'art. 3, primo comma,  Cost.,  dalla
 Corte  di assise di Torino con la medesima ordinanza di cui sopra e dal
 giudice istruttore presso il Tribunale di Padova con  le  ordinanze  21
 luglio  1980  (Reg. ord. n. 673/1980) e 17 novembre 1980 (Reg.  ord. n.
 34/1981);
     c) dichiara non fondata la questione di legittimita' costituzionale
 del medesimo art. 11 del decreto legge  di  cui  sopra,  sollevata,  in
 riferimento  agli  artt. 13, primo, secondo e quinto comma, 25, secondo
 comma, e 27, secondo comma, Cost., dalla Corte di assise  di  Torino  e
 dal  giudice  istruttore  presso  il  Tribunale  di Padova con le sopra
 richiamate ordinanze.
     Cosi' deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 14 gennaio 1982.
                                   F.to:   LEOPOLDO   ELIA   -   EDOARDO
                                   VOLTERRA - MICHELE ROSSANO - ANTONINO
                                   DE STEFANO -  GUGLIELMO  ROEHRSSEN  -
                                   ORONZO  REALE  - BRUNETTO BUCCIARELLI
                                   DUCCI - ALBERTO  MALAGUGINI  -  LIVIO
                                   PALADIN - ARNALDO MACCARONE - ANTONIO
                                   LA  PERGOLA  -  VIRGILIO  ANDRIOLI  -
                                   GIUSEPPE FERRARI - FRANCESCO SAJA.
                                   GIOVANNI VITALE - Cancelliere