N. 209 SENTENZA 11 - 25 febbraio 1988
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Banca - Aziende di credito delegate alla riscossione delle imposte sul reddito delle persone fisiche - Ritardato e omesso versamento alla tesoreria delle somme riscosse - Penale - Non fondatezza. (Legge 2 dicembre 1975, n. 576, art. 17, ultimo comma). (Cost., art. 3)(GU n.9 del 2-3-1988 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: dott. Francesco SAJA; Giudici: prof. Giovanni CONSO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO;
ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 17, ultimo comma, della legge 2 dicembre 1975, n. 576 avente ad oggetto: "Disposizioni in materia di imposte sui redditi e sulle successioni", promossi con le seguenti ordinanze: 1) n. 2 ordinanze emesse l'11 giugno 1986 dal Pretore di Salerno nei procedimenti civili vertenti tra il Banco di Napoli e il Monte dei Paschi di Siena e il Ministero delle Finanze, iscritte ai nn. 696 e 697 del registro ordinanze 1986 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 57 - Prima Serie Speciale dell'anno 1986; 2) ordinanza emessa il 21 ottobre 1986 dal Tribunale di Bari nei procedimenti civili riuniti vertenti tra il Banco di Napoli e l'Amministrazione delle Finanze dello Stato, iscritta al n. 231 del registro ordinanze 1987 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26 - Prima Serie Speciale dell'anno 1987; Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri; Udito nella camera di consiglio del 28 ottobre 1987 il Giudice relatore Antonio Baldassarre; Ritenuto in fatto 1. - Nel corso di due giudizi aventi ad oggetto le opposizioni proposte dal Banco di Napoli e dal Monte dei Paschi di Siena avverso due ingiunzioni dell'Ufficio del Registro di Salerno per il pagamento di somme che si ritenevano dovute a titolo di penale per tardivo versamento in Tesoreria di somme riscosse per delega dei contribuenti, il Pretore di Salerno, su istanza degli istituti di credito opponenti, ha sollevato questione di legittimita' costituzionale, per contrasto con l'art. 3 Cost, dell'art. 17, ultimo comma, della legge 2 dicembre 1975, n. 576, nella parte in cui non prevede la possibilita' della riduzione della penale, fissata nella misura del 2% delle somme riscosse dalle aziende di credito per delega dei contribuenti, e non versate, per ogni giorno di ritardo nel versamento. Il giudice a quo osserva che, poiche', secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, deve escludersi la natura tributaria del rapporto intercorrente tra l'azienda di credito e l'amministrazione finanziaria - in quanto la penale prevista dalla disposizione impugnata va qualificata come una sanzione di natura privatistica, analoga a quella prevista dall'art. 1382 c.c. - sono ravvisabili due distinti profili di illegittimita' costituzionale della disposizione stessa. La norma impugnata, infatti, determinerebbe, in primo luogo, una disparita' di trattamento tra posizioni soggettive inerenti al medesimo rapporto obbligatorio. Innanzitutto perche' la sanzione nella quale incorre l'azienda di credito non e' suscettibile di compensazione con eventuali crediti della stessa azienda relativi alla restituzione di somme versate in eccesso alla Tesoreria. E poi perche', in ogni caso, la misura degli interessi dovuti a titolo di penale (730% annuo) non e' in alcun modo comparabile con quella cui e' tenuto lo Stato, per l'ipotesi di restituzione di somme versate in eccesso a causa di eventuali errori dell'azienda di credito. In secondo luogo, la stessa disposizione violerebbe l' art. 3 Cost. in quanto prevede una penale della stessa misura sia per il caso di omesso versamento, sia per quello del semplice ritardo nel versamento. In tal modo, ad avviso del giudice a quo, non essendo possibile la riduzione equitativa in via amministrativa o in via giurisdizionale, la disposizione impugnata finisce per equiparare situazioni che possono essere le piu' varie, con conseguente sviamento della funzione tipica della sanzione stessa. 2. - La stessa disposizione e' stata impugnata dal Tribunale di Bari con ordinanza emessa il 21 novembre 1986, nella quale vengono individuati, sempre in relazione all'art. 3 Cost., due distinti profili di illegittimita' costituzionale. In primo luogo, dalla qualificazione attribuita alla penale ivi prevista dalla Corte di cassazione, discenderebbe, ad avviso del giudice a quo, una sorta di "illegittimita' sopravvenuta" della disposizione impugnata. In conseguenza di quella qualificazione, infatti, risulta preclusa, senza alcuna giustificazione, la possibilita' di applicare alla sanzione il beneficio della riduzione, previsto per le sanzioni tributarie, nonostante che la penale del 2% giornaliero risponda alla stessa funzione di tutela preventiva e repressiva propria delle pene pecuniarie, piuttosto che a quella tipica della clausola penale di cui all'art. 1382 c. c.. In questo modo, peraltro, le aziende di credito possono essere esposte a conseguenze piu' onerose di quelle alle quali potrebbero andare incontro i soggetti che violano le leggi finanziarie o che evadono, sia pure in parte, i tributi dovuti. In secondo luogo, sempre ad avviso del giudice a quo, la disposizione impugnata sarebbe illegittima in quanto, con la qualificazione della penale in esame come sanzione di natura privatistica, risulta preclusa la possibilita' di chiederne la riduzione giudiziale ex art. 1384 c.c., in considerazione della fonte legale che la prevede. 3. - In tutti e tre i giudizi ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimita' costituzionale vengano dichiarate infondate. A giudizio dell'Avvocatura, la disciplina impugnata si giudistifica per la particolare funzione della penale in questione, consistente nel non rendere neanche accettabile, per le aziende di credito, il rischio di un ritardo nel versamento delle somme riscosse per delega dei contribuenti. Con riferimento alle questioni sollevate con le due ordinanze del Pretore di Salerno, l'Avvocatura rileva come non sia irragionevole la omessa previsione della compensazione tra crediti dello Stato ed eventuali crediti delle aziende di credito, in quanto questi ultimi discendono pur sempre da un inesatto versamento eseguito dalle aziende stesse. In ogni caso, osserva l'Avvocatura, il divieto di compensazione dei debiti e dei crediti nei confronti dell'amministrazione finanziaria discende dai principi generali, per quel che concerne le obbligazioni di natura tributaria, e dal regolamento di contabilita' dello Stato, per le obbligazioni di differente natura. Quanto, poi, alla pretesa inesistenza di differenziazione tra omissione e ritardo nel versamento, l'Avvocatura sottolinea come tale diversita' sia in re ipsa, in quanto nel primo caso il maturare della penale si protrae fino al momento della riscossione coattiva, mentre nel caso di ritardo la penale cessa di maturare al momento del versamento. Sempre a giudizio dell'Avvocatura, il principio di eguaglianza non puo' ritenersi violato neppure per il fatto che non e' astrattamente configurabile la riduzione della penale, data la particolare natura del credito al cui soddisfacimento e' rivolto il versamento dovuto dalle aziende di credito. Per quel che concerne le argomentazioni svolte dal Tribunale di Bari, l'Avvocatura rileva che non e' possibile porre sullo stesso piano le sanzioni previste dalle leggi finanziarie e quella prevista dalla disposizione impugnata, in quanto solo le prime hanno natura tributaria (ed anzi le violazioni piu' gravi sono addirittura di carattere penale). Inoltre, la specificita' della natura del credito dell'amministrazione, al cui soddisfacimento e' preordinato il versamento da parte delle aziende di credito, fa si' che, per un verso, possa considerarsi razionale la omessa previsione della possibilita' di riduzione della sanzione e, per altro verso, debba escludersi ogni profilo di illegittimita' costituzionale in riferimento alle situazioni disciplinate dall'art. 15 della legge n. 4 del 1929 e dall'art. 1384 c.c. Considerato in diritto 1. - Le due ordinanze del Pretore di Salerno e la ordinanza del Tribunale di Bari prospettano dubbi di legittimita' costituzionale della medesima disposizione: i relativi giudizi vanno quindi riuniti per essere decisi con unica sentenza. 2. - La prima questione sottoposta al giudizio di questa Corte concerne l'art. 17, u.c., della legge 2 dicembre 1975, n. 576, per la parte in cui stabilisce una penale del 2% per ogni giorno di ritardo in relazione alle somme riscosse e non tempestivamente (entro cinque giorni) versate alla tesoreria da parte delle aziende di credito delegate alla riscossione delle imposte sul reddito delle persone fisiche. Ammesso che tale penale abbia natura privatistica, e non tributaria, i giudici a quibus ravvisano un possibile contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto sussisterebbe un'irragionevole disparita' di regime tra la suddetta penale, che non puo' esser ridotta, e le sanzioni pecuniarie di diritto tributario o le clausola penale di diritto civile, ambedue riducibili. 2.1. - La questione e' infondata. Non vi puo' esser dubbio che la penale ex art. 17, u.c., della legge n. 576 del 1975, abbia natura privatistica. A cio' concorrono tanto la sua inerenza a un rapporto diverso da quello intercorrente tra il contribuente e l'amministrazione tributaria, quanto le sue finalita', le quali sono dirette a evitare che le aziende di credito lucrino in misura eccessiva dal ritenere le somme riscosse oltre un ragionevole termine. Su tale premessa, si deve concludere, innanzitutto, che viene meno quel minimo di omogeneita' necessario per l'instaurazione di un giudizio di ragionevolezza tra la penale di cui alla disposizione impugnata e le sanzioni pecuniarie di diritto tributario. Di cio' non puo' dubitarsi per il semplice fatto che, come ha gia' affermato questa Corte (sent. n. 109 del 1973), l'inadempimento di un'obbligazione di natura privatistica, ipotizzato nel caso in capo alle aziende di credito nei confronti dello Stato, non e' affatto equiparabile all'inadempimento relativo alle obbligazioni tributarie verso lo stesso Stato. V'e', poi, un secondo motivo che impedisce di instaurare una comparazione, sempre ai fini del giudizio di ragionevolezza, tra l'impugnata penale e le sanzioni pecuniarie di diritto tributario. Mentre per queste ultime l'art. 15 della legge n. 4 del 1929 prevede che il trasgressore delle leggi finanziarie, oltre il tributo, possa pagare all'atto della contestazione della violazione una somma (ridotta) pari al sesto del massimo della pena pecuniaria, nel caso oggetto del presente giudizio, invece, la penale viene determinata in misura fissa dal legislatore in relazione all'inadempimento di un'obbligazione pecuniaria di natura civilistica. Cio' comporta che nel caso di specie non sussistano gli elementi qualificanti dell'ipotesi assunta come tertium comparationis e, in particolare, tanto la determinazione della pena accessoria tra un minimo e un massimo, quanto il parametro (cioe' il massimo) cui ragguagliare l'eventuale riduzione della pena pecuniaria. 2.2. - Del pari infondata e' la prospettazione della disparita' di trattamento tra la penale impugnata e quella di diritto civile prevista dagli artt. 1382 e segg. del codice civile. Anche se ambedue le penali presentano una sostanziale identita' di natura giuridica, deve tuttavia negarsi che siano equiparabili sotto il profilo della riduzione equitativa, di cui all'art. 1384 del codice civile. Le ragioni di questa affermazione sono almeno duplici. Innanzitutto, mentre nel caso disciplinato dall'art. 1384 c.c. il giudice interviene equitativamente nei confronti di un atto di autonomia privata con il quale viene predeterminato il danno cagionato dall'inadempimento di una delle parti del rapporto obbligatorio, al contrario in quello sottoposto al presente giudizio non v'e' spazio per tale intervento, in quanto e' direttamente una norma giuridica a determinare la misura della penale. In secondo luogo, mentre nell'ipotesi dell'art. 1384 c.c. la riduzione equitativa della clausola penale puo' avere come presupposto l'adempimento parziale dell'obbligazione da parte del creditore, nell'ipotesi della disposizione impugnata, invece, tale presupposto appare incompatibile con la natura dell'obbligazione intercorrente tra le aziende di credito e lo Stato. 2.3. - Egualmente infondati sono i dubbi di costituzionalita' sollevati dai giudici a quibus in relazione all'entita' della penale legislativamente determinata, la quale e' sospettata dagli stessi giudici di essere troppo elevata o sproporzionata rispetto al fatto del ritardato versamento alla tesoreria delle somme riscosse. Non e', infatti, irragionevole che il legislatore, nell'esercizio del suo potere discrezionale, abbia stabilito una penale particolarmente elevata, sol che si consideri che lo scopo perseguito, come rileva esattamente l'Avvocatura dello Stato, e' principalmente quello di non rendere neppure accettabile per le aziende di credito il rischio di un ritardo nel versamento e di precludere, cosi', la benche' minima eventualita' di movimenti speculativi su somme ingenti, che appartengono, in definitiva, all'intera collettivita' nazionale. Allo stesso modo, non possono desumersi argomenti a favore della fondatezza della questione dalla circostanza che la legge 4 ottobre 1986, n. 657, dispone, all'art. 5, comma terzo, che "la misura della penale prevista dall'ultimo comma dell'art. 17 della legge 2 dicembre 1975, n. 576, e dall'art. 12 della legge 12 novembre 1976, n. 751, e' ridotta allo 0,50%, se il mancato versamento e' dovuto a errori materiali". Anche sotto tale profilo non appare irragionevole che il legislatore, nel suo discrezionale apprezzamento, preveda sanzioni piu' lievi per l'omissione del versamento ove questo sia dovuto a un comportamento colposo, quale un errore materiale, mentre, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non puo' in alcun modo trarsi motivo di violazione del principio di eguaglianza dalla decorrenza temporale delle modificazioni legislative introdotte. Ne', poi, puo' ipotizzarsi una disparita' di trattamento, come invece prospettano i giudici a quibus, in conseguenza della pretesa applicabilita' della disposizione impugnata anche nei confronti di soggetti incolpevoli, come nelle ipotesi in cui il ritardato versamento dipenda da cause che non e' possibile imputare alle aziende di credito. Occorre sottolineare, infatti, che in tal caso trovano applicazione le disposizioni del decreto legislativo 15 gennaio 1948, n. 1, relative alla sospensione dei termini a causa di eventi eccezionali. 3. - Un'ulteriore questione di costituzionalita' concernente il medesimo art. 17, u.c., della legge n. 576 del 1975, e' sollevata dai giudici a quibus in relazione all'art. 3 Cost., in quanto l'articolo impugnato assoggetta alla medesima penale tanto le aziende di credito che effettuano in ritardo il versamento allo Stato delle somme riscosse, quanto quelle che lo omettono del tutto. Anche tale censura non e' fondata. In realta', la parita' di trattamento delle due distinte ipotesi e' soltanto apparente, poiche', in concreto, si riscontra una sostanziale diversita' nella disciplina delle stesse. In effetti, la differenza di trattamento tra l'una e l'altra ipotesi e' resa evidente dalla circostanza che la penale continua a maturare nella rilevante misura del 2% della somma riscossa per ogni giorno di ritardo, sino al momento del versamento. Sicche', piu' a lungo si protrae l'inadempimento e piu' onerosa diviene la penale che l'azienda di credito inadempiente e' tenuta a pagare. In altre parole, il mero decorso del tempo costituisce un elemento idoneo a differenziare, in pratica, il trattamento dell'omesso versamento da quello relativo al ritardo. 4. - Un'ultima questione sollevata dai giudici a quibus concerne la pretesa violazione dell'art. 3 Cost. da parte della medesima disposizione impugnata, in quanto la stessa comporterebbe un'irragionevole disparita' di trattamento tra un comune debitore che vanta crediti verso la controparte del proprio rapporto debitorio e le aziende di credito delegate alla riscossione dei tributi rispetto all'amministrazione finanziaria, nell'ipotesi che quelle vantino dei crediti verso quest'ultima. Cio' perche', mentre nel primo caso il debitore potrebbe compensare il proprio debito con i crediti vantati verso la controparte, nel secondo, invece, le aziende di credito non potrebbero seguire la medesima via per le somme dovute all'amministrazione finanziaria a titolo di penale. Occorre rilevare che la censura ora esaminata si basa su un'erronea equiparazione tra la posizione dell'amministrazione e quella delle aziende di credito, poiche', mentre il credito dell'amministrazione discende sempre da un inadempimento delle aziende, al contrario quello di queste ultime nei confronti dell'amministrazione discende sempre da un erroneo versamento da parte delle aziende stesse. Ne' puo' rilevare in senso contrario, diversamente da quanto affermato dai giudici a quibus, il fatto che l'amministrazione, per accertare l'esatta corrispondenza delle somme versate a quelle riscosse su delega dei contribuenti, impieghi un lasso di tempo anche consistente, per la durata del quale e' tenuta a corrispondere, nell'eventualita' di crediti accertati delle aziende, l'ordinario tasso di interesse. Questo rilievo, infatti, non ha alcuna importanza rispetto alle modalita' di estinzione del debito delle aziende di credito a titolo di penale, ai sensi della disposizione impugnata, tanto piu' che tali accertamenti, come s'e' detto, hanno origine da un errore delle aziende di credito.
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara non fondate le questioni di legittimita' costituzionale dell'articolo 17, ultimo comma, della legge 2 dicembre 1975, n. 576, in riferimento all'articolo 3 Cost., sollevate dal Pretore di Salerno e dal Tribunale di Bari con le ordinanze di cui in epigrafe. Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, palazzo della Consulta, l'11 febbraio 1988. Il Presidente: SAJA Il redattore: BALDASSARRE Il cancelliere: MINELLI Depositata in cancelleria il 25 febbraio 1988. Il direttore della cancelleria: MINELLI 88C0278