N. 49 SENTENZA 9 - 16 febbraio 1989

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 Ordinamento giudiziario militare - Tribunali militari Composizione -
 Giudici togati e membri laici militari - Regime differenziato di
 responsabilita' civile - Richiamo alle sentenze nn. 18/1989 e
 192/1976 - Ragionevolezza - Non fondatezza.  Legge 13 aprile 1988, n.
 117, art. 7, terzo comma).  Cost., art. 3).  Ordinamento giudiziario
 militare - Tribunali militari Composizione - Giudici togati e membri
 laici militari Soggezione dell'ufficiale componente al potere
 gerarchico disciplinare dei superiori - Mancata garanzia di
 indipendenza Richiamo alla sentenza n. 18/1989 - Non fondatezza.
 Legge 7 maggio 1981, n. 180, art. 2, secondo comma, n. 3).  Cost.,
 artt. 3, 101 e 108).  Reati militari - Possesso ingiustificato di
 mezzi di spionaggio senza finalita' di spionaggio - Sanzioni penali -
 Minimo edittale eguale o superiore a quello previsto per reati piu'
 gravi - Reclusione da 5 a 10 anni - Arbitrarieta' e irrazionalita'
 del trattamento sanzionatorio - Illegittimita' costituzionale
 parziale.  C.P.M.P., art. 90, primo comma, n. 4).  Cost., artt. 3 e
 97)
(GU n.8 del 22-2-1989 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Francesco SAJA;
 Giudici:  prof. Giovanni CONSO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe
 BORZELLINO, dott. Francesco GRECO,  prof.  Renato  DELL'ANDRO,  prof.
 Gabriele   PESCATORE,   avv.  Ugo  SPAGNOLI,  prof.  Francesco  Paolo
 CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO,  avv.
 Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
 ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale  degli  artt. 7, comma
 terzo, della legge 13 aprile 1988, n.  117  (Risarcimento  dei  danni
 cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilita'
 civile dei magistrati); 2, comma secondo, n. 3, della legge 7  maggio
 1981, n. 180 (Modifiche all'ordinamento giudiziario militare di pace)
 e 90 del codice penale militare di pace,  promossi  con  le  seguenti
 ordinanze:
     1)  ordinanza  emessa il 27 aprile 1988 dal Tribunale militare di
 Padova nel procedimento penale a carico di Bianchi  Enrico,  iscritta
 al  n.  334  del  registro ordinanze 1988 e pubblicata nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 31,  prima  serie  speciale,  dell'anno
 1988;
      2)  ordinanza emessa il 27 aprile 1988 dal Tribunale militare di
 Padova nel  procedimento  penale  a  carico  di  Barracco  Francesco,
 iscritta  al  n.  335  del registro ordinanze 1988 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  31,  prima  serie  speciale,
 dell'anno 1988;
    Visti  gli  atti  di  intervento  del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  29  novembre  1988  il Giudice
 relatore Gabriele Pescatore;
    Udito  l'Avvocato dello Stato Giorgio Zagari per il Presidente del
 Consiglio dei ministri;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Il Tribunale militare di Padova, con ordinanza 27 aprile 1988
 (R.O. n. 334  del  1988),  ha  sollevato  questioni  di  legittimita'
 costituzionale,  in  riferimento  agli  artt.  3,  101  e  108  della
 Costituzione, degli artt. 7, terzo comma, della legge 13 aprile 1988,
 n. 117 e 2, secondo comma, n. 3, della legge 7 maggio 1981, n. 180.
    Le  questioni  sono  state  proposte  nel corso di un procedimento
 penale avente ad  oggetto  il  reato  di  diserzione  ed  il  giudice
 rimettente  le  ha  ritenute  rilevanti,  affermando che la normativa
 sulla responsabilita' dei giudici influisce sulle loro  decisioni  e,
 quindi, sul giudizio a quo.
    L'art.  7, comma terzo, della legge n. 117 del 1988 dispone che "i
 cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare  organi
 giudiziari  collegiali rispondono in caso di dolo e nei casi di colpa
 grave di cui all'art. 2, comma terzo,  lett.  b  e  c  (affermazione,
 determinata  da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza
 e' incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; negazione
 determinata  da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza
 risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento). Tale norma,
 secondo  il  giudice  a  quo,  si  applica,  fra  l'altro,  anche  ai
 componenti laici dei tribunali militari, e cioe'  agli  ufficiali  ai
 quali,  con  estrazione  a  sorte,  vengono  conferite le funzioni di
 giudice.
    Lo  stesso  art.  7 prevede che i giudici conciliatori e i giudici
 popolari rispondano soltanto in caso di dolo.
    Nell'ordinanza  di  rimessione  si  dubita della costituzionalita'
 della norma, in riferimento all'art. 3 della Costituzione,  sotto  il
 profilo  della  ingiustificata  differenza di trattamento tra giudici
 non togati, essendo essi tutti  accomunati  dalla  caratteristica  di
 essere  sforniti di specifica competenza nelle discipline giuridiche.
 Secondo  il  giudice  a  quo  sarebbe,  in  particolare,  del   tutto
 irragionevole  che  il  giudice  laico del Tribunale militare e della
 Corte militare d'Appello, piuttosto che essere assimilato al  giudice
 popolare,  il  quale  risponde  solo  a  titolo  di  dolo,  sia stato
 assimilato a giudici che rispondono anche a titolo  di  colpa  grave.
 Infatti,  il  giudice  militare  non  togato  non integra il collegio
 militare in qualita' di esperto in  una  determinata  disciplina  non
 giuridica,   ma   quale  esponente  dell'istituzione  cui  appartiene
 l'imputato. Si tratterebbe, quindi, di una figura  sui  generis  che,
 nonostante   la   diversita'  dell'origine  storica,  presenta  delle
 analogie con quella del giudice popolare ed a questa dovrebbe  essere
 assimilata riguardo alla responsabilita'. Si sottolinea, al riguardo,
 che il conferimento delle funzioni giudiziarie avviene,  analogamente
 a  quanto previsto per i giudici popolari, previa estrazione a sorte,
 ma nell'ambito di elenchi alla cui  formazione  gli  interessati  non
 concorrono  in  modo  alcuno;  che  l'ufficio  e' gratuito e di breve
 durata; che non e' prevista un'anzianita' minima e che, di fatto,  il
 giudice  militare non togato finisce con l'essere il piu' delle volte
 un sottotenente di prima nomina.
    Nell'ordinanza  si  dubita  pure della legittimita' costituzionale
 dell'art. 2, comma secondo, della legge 7 maggio  1981,  n.  180,  in
 relazione agli artt. 3, 101 e 108 della Costituzione in quanto, nello
 stabilire che il Tribunale militare, oltre che di due magistrati,  si
 componga  anche  di  un  ufficiale, non ha svincolato l'ufficiale dal
 potere  gerarchico-disciplinare  dei  superiori.  Situazione  questa,
 aggravata  dal  venir  meno  della segretezza del voto in conseguenza
 dell'entrata in vigore  della  legge  n.  117  del  1988  e  tale  da
 inficiare l'indipendenza del giudice.
    2.  -  Dinanzi a questa Corte si e' costituito, nel giudizio cosi'
 promosso, il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che  le
 questioni siano dichiarate non fondate.
   Quanto  alla  prima  di  esse, nelle note depositate si osserva che
 nella figura  del  magistrato  "laico"  che  concorre  a  formare  il
 tribunale militare sussistono elementi di differenziazione rispetto a
 quella del giudice  popolare,  in  quanto  "egli  e'  pur  sempre  un
 ufficiale  militare  con capacita' acquisite attraverso uno specifico
 corso di studi che lo pongono in condizione di dare  al  giudizio  un
 apporto  specialistico (diverso da quello che da' il giudice popolare
 nel procedimento di assise) soprattutto in ordine alla  ricostruzione
 della  fattispecie  e alla sua rispondenza all'ipotesi incriminatrice
 prevista dal c.p.m.p.". Sarebbe percio' ragionevole che egli risponda
 anche  per  colpa  grave,  nelle  ipotesi  di  cui alle lett. b) e c)
 dell'art. 2, comma terzo della legge  n.  117  del  1988,  senza  che
 ricorra un'ingiustificata disparita' di trattamento.
    Quanto  alla  seconda questione, l'Avvocatura Generale dello Stato
 sostiene che la previsione costituzionale (art. 103) di una  speciale
 giurisdizione   militare   necessariamente  comporta,  rispetto  alla
 giurisdizione ordinaria, differenze di rito e  ordinamento.  Tuttavia
 la  prestazione  dell'ufficio del giudice, da parte dell'ufficiale ad
 esso  chiamato,  non  si  svolge  nell'ambito   di   uno   stato   di
 subordinazione   gerarchica,   dovendosi  ritenere  che  egli,  nello
 svolgimento di tale funzione, sia subordinato solo alla legge.
    3.  -  Questione analoga e' stata sollevata dallo stesso Tribunale
 militare di Padova con ordinanza 27 aprile  1988  (R.O.  n.  335  del
 1988),  emessa  nel  corso  di  un  procedimento  per  furto militare
 aggravato,  procacciamento  di  notizie  riservate  non  a  scopo  di
 spionaggio e possesso ingiustificato di mezzi di spionaggio.
    Con  tale  ordinanza il giudice a quo ha sollevato anche questione
 di legittimita' costituzionale, in riferimento  agli  artt.  3  e  27
 della  Costituzione, dell'art. 90 c.p.m.p., che punisce - tra l'altro
 - il possesso ingiustificato di mezzi di spionaggio.
    A  sostegno  della  non manifesta infondatezza della questione, si
 premette che il reato previsto dall'art. 90 sussiste solo quando  non
 ricorra  la  finalita' di spionaggio, poiche' l'art. 7 della legge 23
 marzo 1956 n. 167 ha introdotto nel c.p.m.p.  un  art.  89  bis,  che
 punisce  con  pene  piu'  severe  quelle  stesse  condotte  che  sono
 descritte nell'art. 90 quando  siano  poste  in  essere  a  scopo  di
 spionaggio.  Inoltre  esso, punendo condotte preparatorie rispetto ai
 reati di procacciamento e di rivelazione non a scopo  di  spionaggio,
 previsti rispettivamente dagli artt. 89 e 91 c.p.m.p., e' applicabile
 solamente quando dei detti reati di procacciamento e  di  rivelazione
 non  sussista  l'elemento  materiale,  ne'  completo, ne' a titolo di
 tentativo.
    Secondo  il  giudice a quo, il trattamento sanzionatorio comminato
 per   il   reato   cui   si    riferisce    l'impugnazione    sarebbe
 irragionevolmente  piu'  grave  rispetto  a quello comminato per i su
 detti reati di  procacciamento  e  di  rivelazione,  comportanti  una
 diretta  lesione  del  bene  giuridico  tutelato.  Infatti, mentre la
 necessaria proporzione e'  rispettata  per  le  analoghe  figure  del
 codice  penale  comune  (artt. 260 e 256 - 258 c.p.), nel c.p.m.p. le
 condotte accomunate nella previsione dell'art. 90, comma primo,  sono
 punite  con  la reclusione militare da cinque a dieci anni, pena piu'
 grave che non quella, della reclusione militare da tre a dieci  anni,
 comminata   per   il   reato  contemplato  dall'art.  89.  Quanto  al
 trattamento sanzionatorio del reato previsto dall'art.  91,  esso  e'
 piu'  severo,  consistendo  nella  reclusione  militare  da  cinque e
 ventiquattro anni, ma ugualmente sbilanciato rispetto  a  quello  del
 reato  de  quo  a  causa  dell'uguale misura, cinque anni, del minimo
 edittale.
    Ancora  piu'  sbilanciata  sarebbe  poi  la  disciplina  in esame,
 qualora si aderisca all'interpretazione giurisprudenziale per cui  la
 disposizione  dell'art.  93 c.p.m.p. - applicabile agli artt. 89 e 91
 quando  la  notizia  procacciata  o  rivelata  non  sia  segreta   ma
 semplicemente  riservata  - non sarebbe correlabile anche all'art. 90
 per  configurare  nelle  varie  forme  un  reato  punito   con   pena
 sensibilmente inferiore, nelle ipotesi in cui i disegni, modelli ecc.
 siano atti a fornire non gia' notizie segrete, ma di  mero  carattere
 riservato.
    4.  -  Dinanzi  a  questa  Corte  e' intervenuto il Presidente del
 Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata non
 fondata.
    Nelle  note  depositate  si  osserva  in  proposito  che,  secondo
 l'opinione unanime della dottrina  e  della  giurisprudenza,  con  le
 fattispecie   criminose   disciplinate   dall'art.   90   c.p.m.p.  -
 significativamente   denominate   "spionaggio   indiziario"   -    il
 legislatore  ha inteso perseguire autonomamente condotte preparatorie
 rispetto a quelle di procacciamento o rivelazione di notizie segrete.
 L'art.  90  prevede,  cioe',  reati  di  mero  sospetto o di pericolo
 presunto, ma considerata  l'estrema  rilevanza  e  delicatezza  degli
 interessi  da  proteggere  non  sarebbe irrazionale che condotte solo
 sintomatiche di una  presumibile  lesione  di  tali  interessi  siano
 punite piu' severamente di quelle che effettivamente li ledano.
                         Considerato in diritto
    5.   -   Le   due  ordinanze  del  Tribunale  militare  di  Padova
 sottopongono all'esame della Corte questioni in  parte  identiche.  I
 relativi  giudizi  vengono  quindi  riuniti per essere decisi con una
 unica sentenza.
    6. - La prima questione, comune ad entrambe le ordinanze, concerne
 l'art. 7, terzo comma, della legge 13 aprile 1988, n. 117, in base al
 quale  i  componenti  laici dei tribunali militari (nella qualita' di
 "cittadini estranei  alla  magistratura,  che  concorrono  a  formare
 organi  giudiziari  collegiali")  rispondono  per  i  danni cagionati
 nell'esercizio delle loro funzioni, oltre che in caso di dolo,  anche
 nei  casi  di colpa grave di cui all'articolo 2, terzo comma, lettere
 b) e c) (affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di  un
 fatto  la cui esistenza e' incontrastabilmente esclusa dagli atti del
 procedimento; negazione, determinata da negligenza  inescusabile,  di
 un  fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del
 procedimento).
    La   norma   viene  impugnata  in  riferimento  all'art.  3  della
 Costituzione perche', prevedendo la  responsabilita'  del  componente
 laico  del tribunale militare anche a titolo di colpa grave, assimila
 lo stesso ai giudici esperti anziche' ai giudici  popolari,  i  quali
 rispondono  soltanto  a  titolo  di dolo. Si assume infatti che detto
 componente non integra il collegio in  qualita'  di  esperto  di  una
 determinata  disciplina  non  giuridica,  ma  quale  esponente  della
 istituzione cui appartiene l'imputato. Pur  essendo  una  figura  sui
 generis,  esso  presenterebbe  analogie  con  la  figura  del giudice
 popolare, al quale dovrebbe essere assimilato quanto alla  disciplina
 della responsabilita'.
    7. - La questione e' infondata.
    La  norma impugnata limita la responsabilita' dei giudici laici ad
 una parte soltanto delle ipotesi in cui viene riconosciuta quella dei
 giudici  professionali.  La limitazione e' piu' ampia, circoscrivendo
 la  responsabilita'  alle  sole  ipotesi  di  dolo,  per  i   giudici
 conciliatori  ed  i  giudici  popolari;  e' piu' ridotta invece per i
 cittadini estranei alla  magistratura  che  concorrono  a  formare  o
 formano  organi  giudiziari  collegiali,  perche' per costoro si puo'
 configurare anche una responsabilita' a titolo di  colpa  nelle  gia'
 ricordate  ipotesi delle lettere b) e c) dell'articolo 2 della legge.
    La  Corte  ha  gia' statuito, con sentenza 19 gennaio 1989, n. 18,
 che le linee generali di questa  disciplina  risultano  tali  da  non
 meritare  censure  di  legittimita'.  Sebbene  si possano prospettare
 anche scelte diverse da quelle  adottate  dal  legislatore,  come  di
 fatto  se  ne  sono prospettate nel corso del dibattito parlamentare,
 deve riconoscersi che non e' privo di ragionevole giustificazione  il
 prevedere  una  piu'  circoscritta area di responsabilita' per coloro
 che non hanno ne' i compiti, ne' la specifica  professionalita',  ne'
 lo status del giudice togato.
    Allo  stesso  modo,  e  pur  qui  ammettendo entro certi limiti la
 possibilita' di  differenti  scelte,  non  e'  privo  di  ragionevole
 giustificazione  che  all'interno  del  gruppo  dei  laici chiamati a
 partecipare all'amministrazione della  giustizia  venga  distinta  la
 posizione  dei  giudici  esperti da quella dei giudici popolari e dei
 giudici conciliatori.
    I  giudici esperti sono infatti chiamati a comporre i collegi, non
 a  titolo  di  generica  partecipazione  popolare,  ma   in   ragione
 dell'apporto  particolarmente qualificato che possono dare in giudizi
 nei quali si riconosce la presenza di aspetti tecnici cosi' rilevanti
 da   suggerire   l'opportunita'   di   creare  organi  specializzati.
 L'attitudine a prestare detto apporto trova fondamento in  specifiche
 competenze,  che  risultano  talvolta  dal  possesso  di  determinati
 requisiti culturali (esperti in psicologia, psichiatria,  sociologia,
 pedagogia,   per   i  tribunali  per  i  minorenni,  i  tribunali  di
 sorveglianza, le sezioni  specializzate  per  le  tossicodipendenze),
 talaltra  dalla  iscrizione  in determinati albi (iscritti negli albi
 professionali dei dottori in scienze agrarie, dei periti agrari e dei
 geometri,  per  le  sezioni  specializzate  agrarie), talaltra infine
 dalla appartenenza ad un determinato corpo  professionale  o  ad  una
 determinata  amministrazione,  appartenenza  che lascia presumere una
 utile familiarita'  con  le  speciali  problematiche  dei  rispettivi
 settori (giornalista e pubblicista integranti il tribunale e la corte
 d'appello che giudicano, in sede di impugnazione, delle delibere  del
 Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti; funzionari del Genio
 civile integranti il tribunale regionale delle acque pubbliche).
    In  tutti  questi  collegi gli esperti, in ragione del possesso di
 particolari cognizioni derivanti dalla specifica formazione culturale
 e  dalla  esperienza  acquisita,  hanno  il  compito  di integrare le
 conoscenze   prevalentemente   tecnico-   giuridiche   dei    giudici
 professionali.  Essi sono quindi chiamati a dare un apporto di grande
 importanza anche per quanto concerne l'esatta ricostruzione dei fatti
 sottoposti  a giudizio, cosi' per l'aspetto oggettivo come per quello
 soggettivo.
    Se  si  ha  riguardo al quadro generale della disciplina, non puo'
 certo ritenersi arbitrario che la posizione dell'ufficiale chiamato a
 far  parte del tribunale sia stata assimilata, quanto alle ipotesi in
 cui lo stesso  puo'  incorrere  nella  responsabilita'  civile,  alla
 posizione  dei  giudici  esperti  presenti nei diversi tipi di organi
 specializzati.
    Significativi elementi possono trarsi dalle modalita' di scelta di
 detto componente. Esso viene infatti estratto a  sorte  soltanto  tra
 gli   ufficiali   che  prestano  servizio  nella  circoscrizione  del
 tribunale militare, senza distinzione circa l'arma  di  appartenenza.
 E'   da   escludere,   quindi,   che   possa  parlarsi,  come  si  fa
 nell'ordinanza di rimessione, di analogia con la figura  del  giudice
 popolare e comunque della caratterizzazione dell'ufficiale membro del
 collegio quale esponente della istituzione cui appartiene l'imputato.
 Al   contrario,   la   scelta   tra   i   soli  ufficiali  e'  indice
 dell'intenzione di assicurare al collegio l'apporto di persona dotata
 di un buon livello culturale e di quelle cognizioni piu' ampie e piu'
 complete  che  vengono  dall'inserimento  in  compiti   di   maggiore
 responsabilita'.   A   sua  volta,  l'indifferenza  circa  l'arma  di
 appartenenza del prescelto  rende  evidente  che  il  legislatore  ha
 inteso   valorizzare  la  conoscenza  della  vita  militare  nel  suo
 ordinamento e nella sua organizzazione in termini generali e non gia'
 il  sentimento  ed  il giudizio di coloro che in concreto condividono
 l'esperienza della  piu'  circoscritta  unita'  territoriale  in  cui
 l'imputato si e' trovato a prestare il proprio servizio.
    Le  particolarita'  della normativa inducono quindi a ritenere che
 l'ufficiale membro del collegio sia chiamato a  dare  un  qualificato
 contributo     inerente    alle    peculiarita'    della    vita    e
 dell'organizzazione militare: contributo consistente nell'aiutare  il
 collegio a fondare le proprie valutazioni sulla piena conoscenza e la
 piena comprensione dei molteplici aspetti del concreto atteggiarsi di
 quel  settore;  delle condizioni che lo caratterizzano e dei problemi
 che vi si pongono. Aspetti tutti  che  non  possono  non  riflettersi
 sulla   ricostruzione   e  valutazione  degli  elementi  oggettivi  e
 soggettivi dei fatti-reato  sottoposti  al  giudizio  del  tribunale,
 anche  alla  luce di quei valori tipici dell'ordinamento militare che
 gia'  la  Corte  ha  ritenuto  tali  da  concorrere  a   giustificare
 l'esistenza della speciale giurisdizione (sentenza 22 luglio 1976, n.
 192).
    8.  -  La  seconda  questione, comune alle due ordinanze, concerne
 l'art. 2, comma secondo, della legge 7 maggio  1981,  n.  180,  nella
 parte  in  cui stabilisce che il tribunale militare si compone, oltre
 che di due magistrati militari, anche di un militare non  magistrato.
 La  norma  sarebbe  in  contrasto con gli articoli 3, 101 e 108 della
 Costituzione, dato che non introduce alcuna  deroga  alla  soggezione
 dell'ufficiale al potere gerarchico-disciplinare dei superiori.
    Questa  dipendenza  -  osserva  ancora  il giudice a quo - poteva,
 forse,  considerarsi  non  influente  sull'esercizio  delle  funzioni
 giudiziarie quando in nessun caso subiva eccezioni il principio della
 segretezza dei voti espressi in camera di consiglio. E' divenuta, per
 contro,   gravemente   condizionante  nel  contesto  della  normativa
 introdotta dalla legge n. 117 del 1988,  anche  perche'  i  superiori
 gerarchici e l'autorita' militare in genere sono titolari dell'azione
 disciplinare e giudici della responsabilita' relativamente agli  atti
 illeciti  posti  in essere nell'ambito delle deliberazioni collegiali
 del tribunale militare. Sarebbero quindi violati il  principio  della
 dipendenza  del  giudice  soltanto  dalla  legge  e  le  garanzie  di
 indipendenza dello stesso (articoli 101, comma secondo, e 108,  comma
 secondo, della Costituzione).
    9. - Le preoccupazioni del giudice rimettente dovrebbero almeno in
 parte risultare ridimensionate alla luce di quanto deciso dalla Corte
 con  la  gia'  menzionata  sentenza n. 18 del 1989, che ha dichiarato
 l'illegittimita' costituzionale dell'art. 16, primo e secondo  comma,
 della legge 13 aprile 1988, n. 117, nella parte in cui non prevede la
 facoltativita' della compilazione del processo verbale concernente la
 deliberazione dei provvedimenti collegiali.
    E'   infatti  ragionevole  prevedere  che,  per  effetto  di  tale
 decisione, nella gran parte dei casi non si prendera' nota alcuna del
 voto  dei  singoli  componenti  del collegio. Inoltre, non in tutti i
 casi di redazione del processo verbale si giungera'  al  disvelamento
 della posizione assunta dai singoli, ma solo quando si agira' in sede
 di  giudizio  per  l'accertamento   della   responsabilita'   civile.
 Risultera'  quindi  in  definitiva  marginale  quella possibilita' di
 conoscere  il  voto  dato  dal  componente  militare,   sulla   quale
 principalmente si fondano i timori e le censure del giudice a quo.
    Ma  vi e' di piu'. La responsabilita' disciplinare puo' certamente
 perseguirsi senza le limitazioni previste dall'art. 2 della legge  n.
 117  del  1988  per  la  responsabilita' civile (cfr. l'art. 9, comma
 terzo). La relativa azione va pero' promossa obbligatoriamente e solo
 "per  i  fatti che hanno dato causa all'azione di risarcimento" (art.
 9, comma primo).
    Le  due  previsioni  hanno  entrambe  la funzione di accrescere la
 tutela  di  chi  giudica.  Con  l'obbligatorieta'  del   promovimento
 dell'azione disciplinare si intende evitare in radice il pericolo che
 il  titolare  dell'azione  possa  far  uso   della   discrezionalita'
 conferitagli   in   modo   tale   da   esercitare   un   qualsivoglia
 condizionamento nei confronti dei componenti del collegio giudicante.
    La   subordinazione   dell'azione   disciplinare   a   quella   di
 responsabilita', a sua  volta,  fa  si'  che  per  i  fatti  connessi
 all'esercizio  di  funzioni  giudiziarie  operi  sempre  il  "filtro"
 costituito dal giudizio di  ammissibilita'  della  domanda,  regolato
 dall'art.  5  della  legge  n.  117  del  1988.  Se  si considera che
 competente a decidere e' il tribunale ordinario e che tra i motivi di
 inammissibilita'  e' inclusa la manifesta infondatezza della domanda,
 appare evidente che  anche  l'ufficiale  chiamato  a  far  parte  del
 collegio  militare  fruisce  di  una  efficace  protezione  contro il
 pericolo  che  in  sede  disciplinare  si  prendano  contro  di   lui
 iniziative  fondate,  invece  che  su fatti seri rientranti nelle ben
 determinate  ipotesi  dell'art.  2,  su  arbitrarie  valutazioni  del
 titolare  dell'azione  in  riferimento  a  decisioni dallo stesso non
 condivise.
    Se  a  cio'  che  si  e'  osservato  si aggiunga che il componente
 militare viene, come si e' visto,  prescelto  mediante  estrazione  a
 sorte  e  che egli permane nelle funzioni per soli due mesi, si ha il
 quadro complessivo  di  una  normativa  nell'ambito  della  quale  il
 vincolo  gerarchico,  pur  senza essere escluso espressamente, non ha
 alcuna possibilita' di operare in modo lesivo  dell'indipendenza  del
 componente laico del tribunale militare.
    10.  - Con l'ordinanza registrata al n. 335 del 1988, il Tribunale
 militare  di  Padova  solleva   anche   questione   di   legittimita'
 costituzionale dell'art. 90 c.p.m.p., che punisce - primo comma, n. 4
 - il possesso ingiustificato di mezzi di spionaggio con la reclusione
 da cinque a dieci anni.
    E'  irrazionale  -  osserva  il  giudice  a  quo - che tale reato,
 sussistente solo quando non ricorre la finalita' di spionaggio, venga
 punito  piu' gravemente dei reati di procacciamento e di rivelazione,
 sempre non a scopo  di  spionaggio,  previsti  rispettivamente  dagli
 articoli 89 e 91 dello stesso codice, comportanti una diretta lesione
 del bene giuridico tutelato, a confronto dei quali  l'impugnato  art.
 90   contempla  condotte  meramente  preparatorie.  Sarebbero  quindi
 violati gli artt. 3 e 97 della Costituzione.
    11. - La questione e' fondata.
    La  Corte  ha piu' volte affermato, anche con specifico riguardo a
 norme contenute  nel  c.p.m.p.,  che  le  valutazioni  relative  alla
 proporzione  tra  la  pena prevista ed il fatto contemplato rientrano
 nell'ambito  del  potere  discrezionale  del  legislatore,   il   cui
 esercizio  puo'  tuttavia  essere  censurato  sotto  il profilo della
 legittimita' costituzionale nei casi in cui non sia stato  rispettato
 il  criterio  di  ragionevolezza,  di  modo che la sanzione comminata
 risulti irrazionale ed arbitraria (cfr. le sentenze 5 maggio 1979, n.
 26; 8 maggio 1980, n. 72; 20 maggio 1982, n. 103).
    Nel  caso  di  specie,  il  giudizio di irrazionalita' consegue al
 raffronto della norma impugnata con l'art. 89,  che  punisce  con  la
 reclusione  da tre a dieci anni il procacciamento di notizie segrete,
 non a scopo di spionaggio, e  con  l'art.  91,  che  punisce  con  la
 reclusione  non  inferiore  a  cinque  anni la rivelazione di notizie
 segrete, compiuta sempre non a scopo di spionaggio.
    Bisogna  infatti  considerare  che  l'art. 89- bis, introdotto nel
 codice dall'art. 7 della legge 23 marzo 1956, n.  167,  sanziona  con
 pene piu' gravi condotte analoghe a quelle punite dall'impugnato art.
 90, primo comma. Differenzia le  fattispecie  (a  parte  l'estensione
 delle previsioni dell'art. 89- bis al militare in congedo illimitato,
 secondo quanto disposto dall'art. 1 della menzionata legge n. 167 del
 1956,  che ha sostituito l'art. 7 c.p.m.p.) la sussistenza o no dello
 scopo di  spionaggio,  espressamente  richiesto  per  le  fattispecie
 contemplate nell'art. 89- bis.
    Pertanto,  devono essere punite a norma dell'art. 90, primo comma,
 soltanto le condotte poste in essere senza finalita'  di  spionaggio,
 esattamente  come  avviene per le fattispecie previste dall'art. 89 e
 dall'art. 91.
    Cosi'  stando  le  cose,  e'  del tutto arbitrario che il possesso
 ingiustificato di mezzi di spionaggio, previsto dall'art.  90,  comma
 primo,  n.  4, venga punito con la reclusione da cinque a dieci anni,
 mentre con la meno grave sanzione della reclusione  da  tre  a  dieci
 anni  viene  punito  il  procacciamento di notizie segrete, fatto che
 costituisce un comportamento piu'  lesivo  dei  beni  protetti  dalle
 norme rispetto al mero possesso dei mezzi.
    L'irrazionalita'  del  trattamento sanzionatorio e' confermata dal
 confronto con l'art. 91, il quale punisce il comportamento nettamente
 piu'  grave  del militare che rivela notizie segrete con una pena che
 e' superiore nel massimo, ma ingiustificatamente uguale nel minimo  a
 quella prevista dall'art. 90, primo comma.
    Le  riportate  considerazioni  trovano  del  resto  conforto, come
 esattamente e' rilevato  nell'ordinanza  del  giudice  a  quo,  nella
 proporzione  che  invece  esiste tra le corrispondenti previsioni del
 codice penale e segnatamente tra l'art. 260 e l'art.  256. L'art. 260
 punisce  infatti  con la reclusione da uno a cinque anni chi e' colto
 nel possesso ingiustificato di documenti o di  qualsiasi  altra  cosa
 atta a fornire le notizie indicate nell'art.  256, mentre l'art. 256,
 primo comma, punisce con la reclusione da tre a  dieci  anni  chi  si
 procura  notizie  che  devono  rimanere  segrete  e l'art. 256, terzo
 comma, con la reclusione da due a otto anni chi si procura notizie di
 cui l'Autorita' competente ha vietato la divulgazione.
    La  declaratoria  d'illegittimita' dell'art. 90, primo comma, n. 4
 c.p.m.p. non determina affatto la depenalizzazione delle  fattispecie
 ivi  contemplate. Per colmare transitoriamente la lacuna, nell'attesa
 di un intervento razionalizzatore  del  legislatore,  vale  la  norma
 penale  comune di cui al ricordato art. 260, n. 3, del codice penale.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
    a)  dichiara  l'illegittimita'  costituzionale dell'art. 90, primo
 comma, n.4, del codice penale militare di pace, nella  parte  in  cui
 punisce  i  fatti  previsti  dal  n.  4  dello  stesso  comma  con la
 reclusione da cinque a dieci anni;
     b)   dichiara   non   fondata   la   questione   di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 7, terzo comma, della legge 13 aprile  1988,
 n.   117  (Risarcimento  dei  danni  cagionati  nell'esercizio  delle
 funzioni  giudiziarie  e  responsabilita'  civile  dei   magistrati),
 sollevata  con  le  ordinanze  in  epigrafe in riferimento all'art. 3
 della Costituzione;
     c)   dichiara   non   fondata   la   questione   di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 2, comma secondo, n. 3, della legge 7 maggio
 1981,  n.  180  (Modifiche  all'ordinamento  giudiziario  militare di
 pace), sollevata con le ordinanze in  epigrafe  in  riferimento  agli
 artt. 3, 101 e 108 della Costituzione.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 9 febbraio 1989.
                          Il Presidente: SAJA
                        Il redattore: PESCATORE
                        Il cancelliere: MINELLI
    Depositata in cancelleria il 16 febbraio 1989.
                Il direttore della cancelleria: MINELLI
 89C0134