N. 97 ORDINANZA (Atto di promovimento) 15 dicembre 1988
N. 97 Ordinanza emessa il 15 dicembre 1988 dal tribunale amministrativo regionale per l'Abruzzo, sezione stacccata di Pescara sul ricorso proposto da Palombaro Rosa contro l'E.N.P.A.S. Previdenza e assistenza - Impiego statale - Indennita' di fine servizio - Esclusione dell'indennita' integrativa speciale dal computo della base contributiva da considerarsi ai fini della liquidazione della buonuscita - Ingiustificata disparita' di trattamento rispetto ai lavoratori privati e ai dipendenti degli enti pubblici - Violazioni: a) del principio della pari dignita' sociale dei lavoratori; b) della tutela del lavoro; c) della parita' di retribuzioni a parita' di lavoro; d) del diritto a mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita in caso di vecchiaia; e) della imparzialita' della p.a.; f) della pari valutazione del servizio esclusivo alla p.a. del pubblico dipendente - Riferimento alla sentenza Corte n. 220/1988 e alle ordinanze nn. 408 e 869 del 1988, pronunciate dalla Corte in materia, ma ritenute non ostative a un riesame della questione. (Legge 27 maggio 1959, n. 324, art. 1, terzo comma, lett. b); legge 3 marzo 1960, n. 185; d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, artt. 3 e 38; legge 29 aprile 1976, n. 177, art. 7, primo comma; legge 20 marzo 1980, n. 75). (Cost., artt. 3, 4, 35, 36, 38 e 97).(GU n.11 del 15-3-1989 )
IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso n. 557/86, proposto di Palombaro Rosa, rappresentata e difesa dall'avv. Mauro Giansante con procura a margine del ricorso e con lo stesso domiciliato in Pescara, via Latina n. 7, contro l'Ente nazionale di previdenza ed assistenza per i dipendenti statali (E.N.P.A.S.) in persona del suo legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avvocatura dello Stato per l'annullamento dei provvedimenti di liquidazione della indennita' di buonuscita (atto n. 174277/1983 e mandato n. 8714 del 12 ottobre 1983) per L. 21.382.550 (lordo L. 24.602.280), corrisposta alla ricorrente Palombaro Rosa, insegnante elementare di ruolo, cessata dal servizio per dimissioni a far data dal 10 novembre 1983. Visto il ricorso con i relativi allegati, notificato il 1 marzo 1986 e depositato il 18 luglio 1986; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'avvocatura dello Stato depositato il 23 luglio 1986; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Data per letta alla pubblica udienza del 15 dicembre 1988 la relazione del magistrato Dino Nazzaro e uditi, altresi', l'avv. Fernando Di Benedetto, per delega da parte dell'avv. M. Giansante, per il ricorrente, e l'avv. dello Stato Fabrizio Foglietti per l'amministrazione resistente; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue; F A T T O Parte ricorrente lamenta che l'E.N.P.A.S., nel procedere alla liquidazione dell'indennita' di buonuscita, non ha computato nel calcolo l'indennita' integrativa speciale, che, se per un verso viene esclusa dalla legge 27 maggio 1959, n. 324, modificata dalla legge 3 marzo 1960, n. 185, e dal successivo d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (art. 38), e' ormai al presente diventata elemento della retribuzione, assoggettato alla tassazione (d.P.R. 29 novembre 1974, n. 597) e che la legge 31 luglio 1975, n. 364, ha accostato alla contingenza del settore privato (T.A.R. Lazio, III, n. 382 del 24 luglio 1984). Si sostiene inoltre che non puo' ignorarsi la legge 29 maggio 1982, n. 297, la quale ha inserito nella retribuzione tutto cio' che viene corrisposto in dipendenza del rapporto di lavoro. In base a tale prospettazione, parte ricorrente ritiene che tutta la normativa antecedente deve considerarsi abrogata e gli competerebbe, pertanto, una diversa e maggiore indennita' di buonuscita, comprensiva dell'indennita' integrativa speciale. Conclusivamente si chiede l'annullamento degli atti impugnati con declaratoria del diritto ad ottenere la riliquidazione dell'indennita' di buonuscita, calcolata sulla base dello stipendio annuo complessivo, ivi compresa la I.I.S., percepito al 9 settembre 1983, data di cessazione dal servizio. L'avvocatura dello Stato resiste con memoria depositata il 1 dicembre 1988, chiedendo il rigetto del ricorso in conformita' di altra recente decisione del tribunale (t.a.r. L'Aquila n. 313 del 21 luglio 1988), essendo la I.I.S. un compenso accessorio e sussidiario, non computabile ai fini previdenziali (legge 29 aprile 1976, n. 177 e legge 3 giugno 1975, n. 160) e considerato che la sentenza della Corte costituzionale n. 220/1988 ha ritenuta la materia rientrante nella discrezionalita' del legislatore. Si conclude, pertanto, per il rigetto del ricorso con vittoria di spese. Alla pubblica udienza la causa e' stata ritenuta per la decisione su conforme istanza di parte. D I R I T T O Nell'affrontare la vexata quaestio della computabilita' o meno dell'indennita' integrativa speciale nel quantum retributivo da considerare ai fini del calcolo dell'indennita' di buonuscita da parte dell'E.N.P.A.S. (Ente nazionale di previdenza ed assistenza per i dipendenti statali), questo tribunale, se non puo', per un verso, ignorare la posizione negativa assunta dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (VI, 5 ottobre 1984, n. 597; 26 settembre 1985, n. 475; 18 novembre 1985, n. 602), fedele interprete del dato legislativo (art. 1 della legge 27 maggio 1959, n. 324), non e', parimente, insensibile alle esigenze di equita' e di giustizia prospettate da parte ricorrente, le quali hanno una loro intrinseca logicita' e ragionevolezza e meriterebbero un sicuro accoglimento, giacche' l'interpretazione evolutiva della natura e della funzione dell'I.I.S., conforme al diritto vivente ed in comparazione con analoghi istituti, ha ormai configurata la stessa come elemento della retribuzione, proprio in virtu' della "vitalita' normativa" dell'art. 36, primo comma della Costituzione, il quale statuisce il principio della retribuzione "in ogni caso sufficiente ad assicurare a se' e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa" e, per cio' stesso "costantemente adeguata" nel tempo. E' a tutti noto come in forza di tale norma costituzionale, vi e' stata un'elaborazione giurisprudenziale del concetto di retribuzione dotato di "particolare capacita' espansiva" e tale da attrarre in se' tutte le erogazioni effettuate in costanza del rapporto di lavoro. La stessa giurisprudenza amministrativa, dopo un'iniziale resistenza, ha ormai riconosciuta l'immediata e diretta operativita' del principio della "retribuzione sufficiente" (S.c. Ad. Pl. 13 maggio 1966, n. 11 e VI, 28 settembre 1971, n. 701) al rapporto di pubblico impiego e cio' e' stato possibile in virtu' dei precisi interventi della Corte costituzionale (sentenza 22 giugno 1963, n. 105, e 13 gennaio 1966, n. 3). Appare, pertanto, conseguenziale, come l'I.I.S., avendo la funzione di "adeguamento al costo della vita", abbia ormai assunta una posizione di "rilevanza costituzionale" nell'ambito del complesso retributivo e come essa non possa essere relegata in posizione accessoria o sussidiaria, tale da essere pretermessa in sede di determinazione della liquidazione di fine rapporto, sia che tale indennita' abbia natura previdenziale o natura retributiva. Ed invero, nell'una e nell'altra ipotesi, la I.I.S. trova pieno titolo a vedersi computare nel quantum retributivo, perche', in quanto voce stipendiale assoggetata a contribuzione, costituisce comunque o il parametro di determinazione della prestazione previdenziale finale o "elemento frazionale", della retribuzione differita. La legge 27 maggio 1959, n. 324, nel prevedere "miglioramenti economici al personale statale in attivita' ed in quiescenza", viene ad attribuire, a decorrere dal 1 luglio 1959, "una indennita' integrativa speciale mensile" che successivamente (legge 3 marzo 1960, n. 185) si afferma essere non "computabile agli effetti del trattamento di quiescenza, di previdenza e dell'indennita' di licenziamento (art. 1, lett. b), nonche' "esente da qualsiasi ritenuta comprese quelle erariali, non concorrendo alla formazione del reddito complessivo ai fini dell'imposta complementare (art. 1, lett. c)". Con legge 31 luglio 1975, n. 364, la I.I.S. viene corrisposta anche "in aggiunta alla tredicesima mensilita'", assimilandosi cosi' completamente alle altre voci stipendiali corrisposte mensilmente e per tredici mensilita'. Di tale circostanza ne prende atto il legislatore che, con logica conseguenzialita', sottopone a "ritenute in conto entrate Tesoro" (contribuzione) anche "l'indennita' integrativa speciale di cui alla legge 27 maggio 1959, n. 324, e successive modificazioni ed integrazioni, compreso l'importo corrisposto sulla tredicesima mensilita' (art. 13, n. 5, della legge 29 aprile 1976, n. 177), la quale, poi, viene anche considerata reddito in danaro percepito continuativamente e soggetto a tassazione (artt. 1 e 6 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597). Tali sviluppi normativi non consentono piu', sul piano logico e razionale, di ritenere la base retributiva come un quid ingessato dall'art. 1, lett. b), della legge n. 324/1959 (come modificato dalla legge n. 185/1960), atteso che la "base contributiva", posta quale parametro dell'indennita' di buonuscita (art. 3 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032), si e' allargata anche alla I.I.S. Essa sembra non essere prevista neppure dall'art. 38 del d.P.R. n. 1032/1973, ma, per gli sviluppi normativi successivi (legge n. 177/1976), trovasi ad essere automaticamente ricompresa nella "base contributiva" di cui al predetto art. 38 del d.P.R. n. 1032/1973, che al secondo comma contiene una "clausola di chiusura" allargata agli "assegni e le indennita' previsti dalla legge come utili ai fini del trattamento previdenziale". Tale norma va letta necessariamente in coordinazione con l'art. 3, terzo comma, del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, il quale stabilisce che "per la determinazione della base contributiva ai fini dell'applicazione del comma precedente (indennita' per dodicesimi), si considera l'ultimo stipendio e l'ultima paga o retribuzione integralmente percepiti", ovvero anche la I.I.S. che e' funzionalmente e concettualemte assorbita nella retribuzione. Ma a tale corretta interpretazione "evolutiva" appare di ostacolo propria la norma originaria (art. 1), cosi' come modificata dalla legge n. 185/1960, art. 1, lett. b), nonche' l'art. 38, secondo comma, che sembra voler riaffermare, attraverso l'inciso "le indennita' previste dalla legge e come utili ai fini del trattamento previdenziale", la validita' e la vigenza dell'art. 1, terzo comma, della legge 27 maggio 1959, n. 324, cosi' come sostituito dall'art. 1, lett. b), della legge 3 marzo 1960, n. 185, dando un contenuto "ristretto" al concetto di "ultimo stipendio o l'ultima paga o retribuzione integralmente percepiti", cui fa riferimento l'antecedente art. 3, terzo comma, dello stesso d.P.R. n. 1032/1973. Il giudicante, pertanto, se in adesione alla richiesta di parte, provvedesse a considerare implicitamente abrogati l'art. 1, terzo comma, della legge 27 maggio 1959, n.324 (art. 1, lett. b), della legge 3 marzo 1960, n. 185) e l'art. 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, secondo comma, non farebbe allo stato una corretta attivita' ermeneutica, consentita dall'ordinamento, ma verrebbe a cancellare due norme che sono ancora valide, anche se intrinsecamente irrazionali ed in palese contraddizione con altra normativa statale (legge 29 maggio 1982, n. 297, art. 1) e con il "diritto vivente", che si impone ad ogni altra forma di legalismo o di schematismo formale, ancorato alle presunte differenze strutturali tuttora esistenti tra "rapporto di diritto privato e il rapporto di lavoro di diritto pubblico". Essi, infatti, trovano la loro sostanziale "unitarieta'" nel concetto di "lavoro" presente nella Carta costituzionale, la quale all'art. 1 fa del "lavoro" il fondamento della "Repubblica democratica" e strumento di coesione etico-sociale tra tutti i cittadini, che, in quanto "lavoratori" (ovvero esplicanti una qualisiasi "attivita' o funzione che concorra al progresso materiale e spirituale della societa'" - art. 4 della Costituzione -), hanno garantiti l'effettiva partecipazione "all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese" (art. 3 della Costituzione). Va ancora ricordato che "la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni" (art. 35 della Costituzione), garantendo una "retribuzione proporzionata alla quantita' e qualita' del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se' e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa" (art. 36 della Costituzione), che non puo' non essere paritariamente considerata anche per le ipotesi di "cessazione del rapporto", dovendosi escludere artificiose "limitazioni" in sede di liquidazione di indennita' economiche, ancor piu' inconcepibili proprio nelle ipotesi di sussistente contribuzione da parte del "dipendente". Ne' puo' ritenersi che eventuali "differenziazioni" e "sperequazioni" a danno del "lavoratore pubblico" siano del tutto ininfluenti sul "buon andamento" dell'amministrazione (art. 97 della Costituzione) o siano conciliabili con il dovere di "servizio esclusivo alla Nazione" (art. 98 della Costituzione). Orbene il giudice amministrativo, al pari di tutti i giudici, e' soggetto "alla legge" (art. 101 della Costituzione) e non puo' arrogarsi funzioni proprie della Corte costituzionale, cancellando dall'ordinamento norme "censurate di illegittimita'" e ancora vigenti per la colpevole inerzia del legislatore, insensibile ai moniti ed alle sollecitazioni della stessa Corte, la quale, invero, non puo' non aver rilevato come "la disciplina legislativa del trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici", se e' stata stralciata dalla legge 29 maggio 1982, n. 297 (art. 4, sesto comma) per mere ragioni di "sistematica" (la legge infatti, e' venuta a sostituire le norme del codice civile)' non ha alcuna giustificazione "ragionevole", atteso che lo stesso legislatore ordinario ha statuito il principio di "pari trattamento" per tutti i "rapporti di lavoro subordinato per i quali siano previste forme di indennita' di anzianita', di fine rapporto, di buonuscita, comunque denominate e da qualsiasi fonte disciplinate" (art. 4, comma quarto, della legge n. 297/1982). Era, pertanto, pensabile che il legislatore si fosse voluto riservare la disciplina del "settore pubblico" ad altro separato provvedimento legislativo "a breve", ma cosi' non e' stato ed il dipendente pubblico trovasi costretto a "lottare per un suo diritto" sperando nella interpretazione adeguatrice del giudice amministrativo, cosi' come e' gia' avvenuto per l'altra vexata quaestio afferente la "svalutazione monetaria", ove il g.a. necessitate atque aequitate, e' stato costretto a superare lo stesso decisum della Corte costituzionale in merito all'art. 429, terzo comma, del c.p.c. (cosa di cui la Corte ne ha preso atto con successiva sentenza del 24 marzo 1986, n. 52), riconoscendo la forza del diritto vivente), attraverso un'interpretazione analogica e di "pari trattamento" del dipendente pubblico con quanto gia' beneficiava il collega del settore privato. Un analogo sforzo ermeneutico dovrebbe essere fatto dal g.a. anche per la "questione buonuscita" (cosi' come avvenuto, pur tra contrasti, per i dipendenti degli enti pubblici disciplinati dalla legge n. 70/1975), ma appare piu' corretto, anche al fine di determinare una tranquilla certezza giuridica erga omnes, nonche' doveroso, dopo quanto gia' enunciato in merito dalla stessa Corte, rimettere la questione al supremo consesso dominus del giudizio di legittimita' della legge. Il collegio, invero, non ignora che la Corte con sentenza n. 220/1988 (seguita da sentenza n. 408/1988 e ordinanza n. 869/1988) si e' gia' posta la presente problematica, concludendo per l'inammissibilita' della questione di costituzionalita' degli artt. 1, terzo comma, lett. b), della legge 27 maggio 1959, n. 324, e legge 3 marzo 1960, n. 185, e 3 e 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, cosi' come modificati dagli artt. 7, primo comma, della legge 29 aprile 1976, n. 177, e dalla legge 20 marzo 1980, n. 75, ma e' proprio la lettura di tali precedenti che porta a ritenere la "sostanziale illegittimita' costituzionale della normativa de qua", anche se, nel solco della tendenza, non certo di valido apporto costruttivo ai fini della "certezza dei diritti", la Corte si e' limitata ad un monito al legislatore (o forse un invito-richiamo per una palese dimenticanza del completamento dell'opera di riforma dell'istituto in parola, iniziato con la ormai gia' lontana legge n. 297/1982, che partiva da premesse di sicura perequazione per tutti i rapporti subordinati) il quale si e' ben guardato dal dare una sollecita risposta legislativa "adeguata alla sete di giustizia presente nel pubblico impiego", esponendo la stessa Corte a forme di "sentenze suicide", in cui all'espressa "inammissibilita'" fa riscontro una "convinta incostituzionalita' della normativa medesima". Che sia cosi' ne e' controprova la sentenza della Corte costituzionale n. 971/1988, afferente la c.d. destituzione di diritto a seguito di condanna penale irrevocabile, senza la previsione del previo esperimento del procedimento disciplinare, ove la Corte, dopo aver con ordinanza 12 novembre 1987, n. 447 (richiamante la sentenza n. 270/1986) dichiarata la manifesta inammissibilita' della questione, con l'invito "fermamente ribadito" a che il legislatore "abbia a procedere in tempi brevi ad un'attenta riconsiderazione dei valori e dei connessi problemi afferenti la disciplina della sanzione di cui trattasi", ha succcessivamente ritenuto di rompere gli indugi e provvedere per l'immediata declaratoria della illegittimita' della norma lesiva dei principi costituzionali, sussistendo "la necessita' di razionalizzare il sistema... con adeguamento ai criteri di omogeneizzazione emergenti dalla legge-quadro sul pubblico impiego (legge 29 marzo 1983, n. 93)". Con sentenza n. 220 dell'11-25 febbraio 1988, la Corte, preso atto che la I.I.S. in base agli artt. 46 e 48 del d.P.R. n. 597/1973 e art. 42 del d.P.R. n. 601/1973, concorre a formare il reddito complessivo netto ai fini dell'applicazione dell'aliquota e "quindi assoggettata ad imposta cosi' cone tutti gli altri redditi di lavoro", nonche', in base all'art. 22 della legge 3 giugno 1975, n. 160, che la stessa e' pure assoggettata "ai contributi assistenziali e previdenziali", ha focalizzata la sua attenzione sulla legge 29 maggio 1982, n. 297 (art. 2120 del c.c., settore privato), sulla legge 20 marzo 1975, n. 70 (art. 13, personale enti substatali) e sulla legge 7 luglio 1980, n. 299 (art. 3, dipendenti enti locali) "norme queste che prevedono tutte la computabilita', nella base di calcolo delle indennita' di fine rapporto da esse regolate, rispettivamente dell'indennita' di contingenza e dell'indennita' integrita' integrativa speciale". Cio' posto la Corte, dato atto che gli artt. 3 e 38 del d.P.R. 29 dicembre 1983, n. 1032, cosi' come modificati dall'art. 7, primo comma, della legge 29 aprile 1976, n. 177, e dalla legge 20 marzo 1980, n. 75, non prevedono la indennita' integrativa nella "base contributiva", si e' limitata a riproporre, per quanto riferito al settore privato, la tralatizia differenziazione strutturale e funzionale tra rapporto privato e rapporto di diritto pubblico, comportando quest'ultimo l'esercizio di pubblici poteri, che renderebbero improponibile un raffronto tra i predetti rapporti, pur ammettendo una "trasfusione reciproca di principi e di istituti garantistici". La Corte, peraltro, ha parlato di "non compatibilita' dei trattamenti di quiescenza, anche con riferimento alle indennita' di fine rapporto", in quanto l'indennita' corrisposta dall'E.N.P.A.S. "differisce da ogni altra indennita'", quale l'indennita' di fine rapporto dei dipendenti substatali e l'indennita' premio di fine servizio dei dipendenti degli enti locali, precisando che l'attenuarsi dei requisiti "piu' propriamente a vocazione previdenziale, non fa venir meno talune caratteristiche distintive dell'indennita' di buonuscita erogata dall'E.N.P.A.S., rispetto alle indennita' di fine rapporto", sussistendo "differenze sostanziali", tra cui individua "il concorso all'ammontare dell'indennita' dei contributi del pubblico dipendente, contributi ai quali essa e' proporzionata", mentre l'indennita' ex artt. 2120 del c.c. e 13 della legge n. 70/1975, sono collegate ad "accantonamenti" proporzionati alla retribuzione. Ed invero, una tale affermazione lascia fortemente perplesso il comune cittadino, in quanto proprio perche' c'e' un apporto contributivo del dipendente, che si attua anche sulla I.I.S., non si comprende come mai essa possa sfuggire in sede di liquidazione finale. Tali perplessita' risultano accentuate, poi, dalla circostanza, rilevata dalla stessa Corte, che ai sensi del d.P.R. 17 settembre 1987, n. 494, la I.I.S. va conglobata nello stipendio di tutto il personale statale e pubblico, ragion per cui non si comprende quale "discrezionalita' legislativa" possa essere ancora riconosciuta al legislatore, se non quella di abrogare le norme "ostative", cosa che, invero, puo' ben fare la Corte costituzionale, se e' vero che "il sistema gia' soffre di sperequazioni sostanziali" che non puo' non "condurre a valutazioni globali della normativa, che, sulla base dell'accentuazione del carattere irrazionale delle singole componenti", conduce ad "una valutazione di illegittimita' della normazione complessiva". Nella specie il tribunale amministrativo non viene a sollecitare un intervento "additivo", bensi' l'intervento decisorio della Corte su una questione che si trascina da anni comprimendo i legittimi diritti patrimonali del "lavoratore dipendente pubblico", il che e' possibile solo con la declaratoria di illegittimita' degli artt. 1 della legge 27 maggio 1959, n. 324, e 3/38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032. Essa del resto e' una possibilita' gia' ipotizzata nella sentenza n. 220/1988, e non piu' rinviabile, stante la completa latitanza del legislatore. La Corte costituzionale non puo' usurare la propria funzione di "garanzia suprema" in una mera attivita' di ammonimento-avvertimento al legislatore, ne' puo' trincerarsi su insussistenti situazioni di "discrezionalita' legislativa" (la sentenza n. 971/88 docet), pena la stessa credibilita' dell'istituto, cui tutti i cittadini guardano come unico elemento di "certezza" nell'ambito di un sistema normativo frammentario, convulso e rimesso a spinte contingenti o corporative. Questo tribunale amministrativo, pertanto, non potendo directe considerare superate la normativa de qua, attraverso una interpretazione-abrogazione che, per quanto giustificata, sarebbe poco corretta nei confronti del sistema costituzionale, deve necessariamente sollevare l'eccezione di costituzionalita' posta come subordinata da parte ricorrente, essendo la stessa sicuramente fondata e rilevante ai fini decisori del ricorso medesimo, in quanto il giudicante, una volta caducata la normativa ostativa, potra' tranquillamente dare accoglimento alla pretesa atto'rea, superando tutti i dubbi di correttezza interpretativa. La normativa censurata, cosi' come esposta in motivazione, e' costituita dai seguenti articoli: art. 1, terzo comma, lettera b) della legge 27 maggio 1959, n. 324, e legge 3 marzo 1960, n. 185; artt. 3/38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (t.u. avente forza di legge ai sensi art. 134, primo comma, Corte costituzionale), legge 29 aprile 1976 (art. 7, primo comma), n. 177 e legge 20 marzo 1980 n. 75, per la parte in cui esclude, in deroga a quanto stabilito per il settore privato e per gli altri dipendenti pubblici, la indennita' integrativa speciale dal computo della base contributivo-retributiva da considerarsi ai fini della liquidazione della buonuscita, ponendo "sperequazioni sostanziali" tra le diverse categorie di "lavoratori", accentuando il "carattere di irrazionalita'" della "normazione complessiva". Gli articoli della Costituzione violati dalla predetta normativa sono: art. 1 della Costituzione che tutelando "unitariamente" il lavoro non tollera situazioni di privilegio, quali quelle riservate al settore privato, ai dipendenti substatali e degli enti locali, che hanno un trattamento economico di fine lavoro (la natura retributiva o previdenziale non incide sul carattere di "attribuzione patrimoniale finale" al lavoratore subordinato) irrazionalmente differenziato e piu' vantaggioso rispetto ai "pari dipendenti statali"; art. 4 della Costituzione che da' dignita' costituzionale a ogni tipo di attivita' o funzione (materiale e spirituale, ma anche privata, substatale e statale) cui deve corrispondere un pari trattamento di fine rapporto di lavoro, al di la' delle distinzioni teoriche sopra evidenziate; art. 3 della Costituzione, quale diretta conseguenza di quanto espresso in relazione agli artt. 1 e 4 della Costituzione e con riferimento alla "pari dignita' sociale" che oggi e' sentita anche (e fortemente) sul piano dei trattamenti patrimoniali di qualsivoglia tipo; art. 35 della Costituzione in relazione all'art. 3 della Costituzione, in quanto la "tutela del lavoro" si attua anche sul piano della pari considerazione in sede di attribuzione di benefici economici di pari valenza, quali sono le indennita' di fine rapporto; art. 36 della Costituzione in relazione all'art. 3 della Costituzione, perche' la retribuzione "dovuta" non puo' subire "limitazioni" di tipo discriminatorio in sede di applicazione di benefici pur sempre connessi all'attivita' lavorativa, cui la retribuzione medesima e' proporzionata; art. 38 della Costituzione in relazione all'art. 3 della Costituzione, atteso che il carattere previdenziale di una attribuzione patrimoniale, non puo' costituire motivo di "discriminazione in danno", particolarmente quando sussiste una contribuzione di parte; artt. 97 e 98 della Costituzione in relazione all'art. 3 della Costituzione, in quanto il trattamento di sfavore del dipendente statale rispetto ai dipendenti privati e substatali, si riflette negativamente sul piano della efficienza e della funzionalita' della p.a., la quale, al fine di assicurare il buon andamento e la imparzialita' della azione amministrativa, ha chiesto al proprio dipendente un "servizio esclusivo" che deve trovare "pari valutazione" in sede di corresponsione di trattamenti economici equivalenti. Il tribunale ritiene che la Corte ha gia' concesso un sufficiente spatium adeguandi al legislatore che, invero, non puo' invocare in materia alcuna discrezionalita', attesa la unicita' del trattamento "di sfavore" del dipendente statale. Per contro il collegio nel richiedere l'intervento della Corte non pone problemi di "contemperamento fra interessi contrastanti ed ugualmente meritevoli di tutela", tali da richiedere una pronuncia "additiva", ma desidera ottenere una pura e semplice declaratoria di illegittimita' costituzionale della normativa "censurata", limitatamente alla parte in cui esclude la I.I.S. dalla base contributiva-retributiva, da considerare ai fini della liquidazione della indennita' di buonuscita. Una volta cancellati gli articoli de quibus, si determinerebbe una situazione di "uniformita' normativa" ed in sede di applicazione giudiziale non si porrebbero piu' problemi di "equita'", ma vi sarebbe "certezza giuridica" per tutti i dipendenti-lavoratori. Tutto cio' premesso, il tribunale, ritenuta la fondatezza della eccezione di incostituzionalita' e la sua rilevanza ai fini decisori, solleva la questione di costituzionalita' nei termini di cui in motivazione, con rimessione degli atti alla Corte costituzionale ai sensi dell'art. 134 della Costituzione, legge costituzionale 9 novembre 1948 (art. 1) e art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87. Sospende il proseguo del giudizio.
P. Q. M. Dichiara la non manifesta infondatezza della dedotta questione di costituzionalita' e la sua rilevanza decisoria; Dichiara sospeso il giudizio relativo al ricorso in epigrafe; Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che a cura della segreteria del tribunale, la presente ordinanza venga notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonche' che la stessa sia comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Cosi' deciso in Pescara nella camera di consiglio del 15 dicembre 1988. (Seguono le firme) 89C0191