N. 203 SENTENZA 11 - 12 aprile 1989

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 Istruzione pubblica - Insegnamento della religione cattolica -
 Facoltativita' - Materia alternativa per i non avvalentisi di tale
 insegnamento - Possibile discriminazione in caso di obbligatorieta' -
 Non obbligo - Non fondatezza nei sensi di cui in motivazione.  Legge
 25 marzo 1985, n. 121, art. 9, punto  érecte: numero) 2; art.
 érecte: punto) 5, lett. éb), n. 2, del Protocollo addizionale).
 Cost., artt. 2, 3 e 19)
(GU n.16 del 19-4-1989 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Francesco SAJA;
 Giudici:  prof.  Giovanni  CONSO,  prof.  Ettore  GALLO,  dott.  Aldo
 CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco  GRECO,  prof.
 Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof.
 Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE,  prof.  Vincenzo
 CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
 ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  9,  punto
 (recte: numero) 2, della legge 25 marzo 1985,  n.  121  (Ratifica  ed
 esecuzione  dell'accordo,  con protocollo addizionale, firmato a Roma
 il  18  febbraio  1984,  che  apporta  modificazioni  al   Concordato
 lateranense  dell'11  febbraio  1929, tra la Repubblica italiana e la
 Santa Sede), e dell'art. (recte: punto) 5, lettera b), numero 2,  del
 Protocollo  addizionale,  promosso  con  ordinanza emessa il 30 marzo
 1987 dal Pretore di Firenze  nel  procedimento  civile  vertente  tra
 Moroni  Anna  Maria  ed  altri  e  l'Amministrazione  della  pubblica
 istruzione,  iscritta  al  n.  575  del  registro  ordinanze  1988  e
 pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale  della Repubblica n. 44, prima
 serie speciale, dell'anno 1988;
    Visto  l'atto  di  costituzione  di  Moroni  Anna  Maria ed altri,
 nonche'  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica del 7 marzo 1989 il Giudice relatore
 Francesco Paolo Casavola;
    Uditi  gli  avvocati  Paolo  Barile, Andrea Proto Pisani e Corrado
 Mauceri per Moroni Anna Maria  ed  altri  e  l'Avvocato  dello  Stato
 Antonio Palatiello per il Presidente del Consiglio dei ministri;
                           RITENUTO IN FATTO
    1.  -  Con  ordinanza  del  30  marzo  1987,  emessa nel corso del
 procedimento civile vertente tra Moroni Anna Maria ed altri contro il
 Ministero  della  pubblica  istruzione,  il  Pretore  di  Firenze  ha
 sollevato la questione di legittimita' costituzionale, in riferimento
 agli  artt.  2, 3 e 19 della Costituzione, dell'art. 9, punto (recte:
 numero) 2, della legge 25 marzo 1985,  n.  121  e  dell'art.  (recte:
 punto) 5, lettera b), numero 2 del Protocollo addizionale.
    Il  giudice  a  quo,  in  parziale accoglimento delle eccezioni di
 parte, rileva che l'art. 9, numero 2, della legge n. 121 del  1985  e
 il  punto  5,  lettera  b),  del  Protocollo addizionale, qualora non
 potessero legittimare la previsione dell'insegnamento religioso  come
 insegnamento  meramente  facoltativo,  posto  al di fuori dell'orario
 ordinario    delle    lezioni,    dovrebbero    essere    considerati
 incostituzionali  per violazione dell'art. 19 della Costituzione (che
 garantisce la liberta' di fede  religiosa  intesa  in  senso  lato  e
 comprensiva di ogni convinzione a tale riguardo, compresa la liberta'
 di non professare  ed  esercitare  alcuna  fede  e  quindi  anche  la
 liberta'  dall'onere della presenza nella scuola o dalla frequenza di
 insegnamenti alternativi imposto,  nell'attuale  assetto  dell'orario
 delle  lezioni,  a  chi  non  ha  scelto  l'insegnamento  religioso);
 dell'art. 3 della Costituzione  (per  la  discriminazione  imposta  a
 carico  degli  allievi  non  avvalentisi  nei confronti di coloro che
 hanno prescelto tale  insegnamento);  ed  infine  dell'art.  2  della
 Costituzione   (per   il  danno  che  l'attuale  assetto  dell'orario
 scolastico cagiona ai diritti inviolabili di  libero  sviluppo  della
 personalita'   del   minore   nell'ambito  della  formazione  sociale
 rappresentata dalla scuola).
    2.  -  Nell'intervento  e  nella memoria presentata nell'imminenza
 dell'udienza, l'Avvocatura dello Stato ha sostenuto - in  difesa  del
 Presidente   del  Consiglio  dei  ministri  -  l'inammissibilita'  o,
 comunque, l'infondatezza della questione.
     a)  Sotto  il primo profilo si denunzia in primo luogo la lettura
 antinomica  (senza,  quindi,  una  esatta  individuazione  del  thema
 decidendum) che il giudice a quo da' della disposizione impugnata; in
 secondo luogo, la mancanza di giurisdizione del giudice remittente in
 ordine   ai  provvedimenti  organizzatori  del  servizio  scolastico,
 rispetto ai quali gli  interessati  vanterebbero  solo  un  interesse
 legittimo.    Infine,   secondo   l'Avvocatura,   che   si   richiama
 all'ordinanza di questa Corte n. 914 del  1988,  "l'apprezzamento  di
 situazioni  contingenti  (...)  venutesi a creare nella fase di prima
 applicazione della normativa, non puo' essere compiuto  nel  giudizio
 di  costituzionalita',  ove  le asserite disparita' siano, come nella
 specie, ricollegabili all'incompletezza delle ordinanze  ministeriali
 o  addirittura alle concrete scelte tecniche di chi e' tenuto a darvi
 esecuzione": la Corte costituzionale e',  infatti,  in  questo  caso,
 chiamata   a   pronunciarsi   sull'organizzazione   dell'insegnamento
 religioso e sulle opportunita' date a chi ha esercitato il diritto di
 non avvalersene.
     b)  Argomentando,  poi,  per  la  infondatezza  della  questione,
 l'Avvocatura fa riferimento in primo luogo ad una  dichiarazione  del
 Presidente  del Consiglio dei ministri alla Camera dei Deputati il 10
 ottobre 1987, in cui si ribadiva, al di la' dell'impegno dello  Stato
 ad  offrire  attivita'  culturali  e  formative  a chi non intendesse
 avvalersi dell'insegnamento religioso, la  facolta'  dello  studente,
 "pur  nel  pieno  rispetto del vincolo dell'orario scolastico, di non
 avvalersi ne' dell'insegnamento religioso, ne' degli  insegnamenti  o
 delle  attivita'  alternative  offertegli  dalla  scuola,  ovviamente
 potendo fruire dei servizi che la scuola mette a  sua  disposizione".
 Evidenzia  inoltre  l'Avvocatura come sia allo studio lo schema di un
 disegno di legge rivolto a "formalizzare" l'esigenza - gia'  presente
 nell'attuale  organizzazione  amministrativa  -  che nessuno abbia di
 piu' o di meno in funzione della scelta  operata,  nell'esercizio  di
 una  facolta'  del  tutto  "coerente  con  i  principi costituzionali
 ricordati dal giudice a quo". Tale diritto di  scelta  non  e'  stato
 certo  limitato  dalla  intesa  di  cui  al  punto  5  del Protocollo
 Addizionale,  che,  tra  l'altro,  ha  determinato  le  modalita'  di
 organizzazione  dell'insegnamento in parola anche in riferimento alla
 sua collocazione nel quadro degli orari delle lezioni e che ha  avuto
 poi  esecuzione col d.P.R. n. 751 del 1985 (che, per la sua natura di
 atto amministrativo, non sarebbe d'altra parte sindacabile in sede di
 giudizio  di legittimita' costituzionale). Ne' la scelta di avvalersi
 o meno e' meno libera per cio'  solo  che  la  religione  si  insegni
 nell'orario  scolastico  ordinario,  una  volta ammesso che lo Stato,
 coerentemente  con  i  principi  superiori  dell'ordinamento,   possa
 liberamente  scegliere  d'impartire  nelle  sue scuole l'insegnamento
 religioso.
    A  parere  dell'Avvocatura,  poi,  l'insegnamento  della  dottrina
 cattolica nella scuola statale  deve  essere  valutato  sia  nel  suo
 aspetto  "concordatario"  (come obbligo assunto verso la Santa Sede),
 sia nel suo aspetto extraconcordatario.
    Sotto  il  primo  profilo, l'obbligo concordatario di insegnare la
 religione nelle scuole va costituzionalmente valutato con riguardo ai
 supremi  principi  dell'ordinamento  cui  la  Corte costituzionale in
 materia concordataria fa costante riferimento,  data  la  "copertura"
 dell'art.  7  della  Costituzione.  Poiche'  tra  i  principi supremi
 dell'ordinamento non rientra l'esigenza di trattare in modo  identico
 tutte  le  confessioni  religiose,  la  preferenza data - nel momento
 dell'insegnamento - alla  religione  cattolica  (non  implicante  una
 pretesa  di  adesione diversa o superiore rispetto a quella richiesta
 per qualsiasi altra materia d'insegnamento) non  comporta  che  venga
 calpestata  la liberta' dei non-cattolici o violata la loro autonomia
 di pensiero.
    Anche  sotto  il  secondo  profilo  - quello della possibilita' di
 porre  tra  le  materie  di  insegnamento  la  dottrina  cattolica  a
 prescindere  dall'obbligo  concordatario  -  e' da ritenersi, secondo
 l'Avvocatura,  infondato  qualunque  dubbio   di   costituzionalita'.
 Infatti,  con  riguardo  all'art. 3, non suona affatto ingiustificata
 una scelta che privilegi i cattolici, dal momento che tale fede viene
 professata dalla maggior parte degli italiani.
    Infine  -  ricorda  l'Avvocatura - la liberta' di fede e quella di
 pensiero  (di  cui,  rispettivamente,  agli  artt.  19  e  21   della
 Costituzione),  non  traducendosi  in un diritto di veto in ordine ad
 ogni scelta non condivisa,  vanno  coordinate  con  le  esigenze  del
 sistema  costituzionale:  lo  Stato  non  limita  ne'  conculca  tali
 liberta', non pretendendo adesione ai principi del  cattolicesimo  e,
 addirittura, concedendo il diritto di scelta.
    3.  - Nelle memorie presentate dalla difesa delle parti si insiste
 per la fondatezza della questione sollevata.
    Secondo  la  difesa, il principio di "non discriminazione" sancito
 nella legge n. 121,  nell'interpretazione  datane  dal  Consiglio  di
 Stato  con  la sentenza n. 1006 del 1988, comporta la legittimita' di
 obblighi chiaramente discriminatori a carico di chi abbia  scelto  di
 non  avvalersi della religione cattolica, sicche' la dichiarazione di
 illegittimita' della disposizione impugnata  non  solo  non  "farebbe
 cadere"  ma  anzi  "ripristinerebbe  la  piena parita' di diritti tra
 tutti gli alunni non piu' discriminati dalla necessita' di optare tra
 un   insegnamento   confessionale   ed  altre  attivita'  alternative
 coercitivamente imposte".
    Gia'  prima dell'emanazione della legge n. 121 - ricorda la difesa
 delle parti - lo stesso principio di non discriminazione  nell'ambito
 dell'insegnamento religioso era stato limpidamente enunciato all'art.
 9 della legge  n.  449  del  1984  (concernente  la  regolazione  dei
 rapporti  tra  lo  Stato  e  le  Chiese  rappresentate  dalla  Tavola
 Valdese),  laddove  si  chiariva  che,  per  dare   reale   efficacia
 all'attuazione   del   diritto  di  non  avvalersi  dell'insegnamento
 religioso, l'ordinamento scolastico  doveva  provvedere  a  che  tale
 insegnamento,  nelle  classi  in  cui  fossero  presenti  alunni  che
 avessero dichiarato di  non  avvalersi,  non  si  svolgesse  ne'  "in
 occasione  dell'insegnamento  di altre materie" ne' secondo orari che
 avessero per detti alunni effetti comunque discriminanti.
    La  successiva  "traduzione"  amministrativa delle norme contenute
 nella legge n. 121 del 1985 ha confermato - secondo la difesa  -  che
 l'interpretazione  accolta dal Pretore di Firenze e fatta propria dal
 Consiglio  di  Stato  da'  luogo   a   un   sistema   di   "flagrante
 discriminazione".  Infatti a una prima circolare ministeriale (n. 368
 del 20 dicembre 1985) - che correttamente si  limitava  ad  affermare
 che  il  rispetto  del diritto di non avvalersi implica che la scuola
 assicuri ai non avvalentisi ogni opportuna attivita' culturale  e  di
 studio,  con  l'assistenza  degli  insegnanti,  escluse  le attivita'
 curricolari comuni a tutti gli allievi -  seguivano  varie  circolari
 applicative  (nn.  128,  129,  130  e 131 del 3 maggio 1986) volte ad
 organizzare  genericamente  le  attivita'  alternative  nelle  scuole
 materne,  elementari  e  medie  e  infine  la circolare n. 302 del 29
 ottobre 1986 nella quale  drasticamente  si  affermava  il  principio
 della  obbligatorieta'  della  frequenza  delle attivita' integrative
 anche per i non avvalentisi.
    Annullata  (con  sentenze  nn.  1273 e 1274 del 17 luglio 1987) la
 circolare ministeriale n. 302 del 1986, il  Tribunale  amministrativo
 regionale  per  il  Lazio affermava il diritto dei non avvalentisi di
 allontanarsi dalla scuola sulla base di una correlativa riduzione del
 normale  orario  scolastico.  Con  le  ordinanze nn. 578 e 579 del 28
 agosto 1987  il  Consiglio  di  Stato,  mentre  confermava  in  parte
 l'esecutivita'  delle  suddette sentenze del Tribunale amministrativo
 regionale per il Lazio, sospendeva le stesse decisioni proprio  nella
 parte  in  cui  era  stato  affermato che i non avvalentisi potessero
 allontanarsi dalla scuola. Nelle more del  giudizio  di  appello,  la
 circolare  n.  284  del 1987 disponeva che, a parziale modifica della
 circolare n. 302 e ad integrazione  della  circolare  n.  131  del  3
 maggio  1986,  "per gli alunni che non si avvalgono dell'insegnamento
 della religione cattolica ne' delle attivita' formative e integrative
 il genitore o chi esercita la potesta' puo' chiedere di optare per la
 semplice   presenza   nei   locali   scolastici,   senza,   peraltro,
 allontanarsene".  Con  la  sentenza  n. 1006 del 1988 il Consiglio di
 Stato  ha  quindi  definitivamente  sancito  l'obbligo  per   i   non
 avvalentisi  di  frequentare  le  ore  alternative:  si  e', con tale
 intepretazione delle leggi n. 121 del 1985 e n. 449 del 1984, creato,
 secondo  la difesa, un insanabile contrasto non solo con fondamentali
 principi costituzionali, ma anche con "la piu' corretta lettura della
 norma   neoconcordataria",   risultante,   tra  l'altro,  dai  lavori
 preparatori della legge n.  121,  di  cui  la  difesa  riporta  amp/'
 squarci.
    Nell'insistere    per    la    declaratoria    di   illegittimita'
 costituzionale, la difesa ribadisce  che  il  dettato  costituzionale
 viene  violato  non  dal fatto che nella scuola pubblica s'impartisce
 l'insegnamento religioso, ma dalla mancata previsione  a  favore  dei
 non  avvalentisi  della  "possibilita'  di  restare assenti senza per
 questo essere  discriminati",  possibilita'  che  "non  implicherebbe
 alcuna  violazione  (attuale  o  potenziale) dei diritti degli alunni
 avvalentisi dell'insegnamento della religione cattolica, ma  potrebbe
 allo stesso tempo efficacemente salvaguardare i diritti degli alunni"
 non avvalentisi.  Naturalmente,  precisa  la  difesa,  cio'  vale  in
 quanto,  in  virtu'  della  legge  n. 449 del 1984 appare tacitamente
 abrogata la previgente disciplina della dispensa, prevista  dall'art.
 6 della legge 24 giugno 1929, n. 1159.
    Ne', ad avviso della difesa, la fondatezza delle censure sollevate
 e' scalfita dall'ordinanza della Corte costituzionale n.  914  del  7
 luglio  1988;  mentre  il  Tribunale di Milano contestava soltanto il
 vuoto   normativo   caratterizzante    le    attivita'    alternative
 all'insegnamento  religioso, il Pretore di Firenze "contesta le norme
 neoconcordatarie in quanto suscettibili di portare a un  insegnamento
 religioso  non  facoltativo.  Cio' che interessa, in questo giudizio,
 non  e'  (...)  la   deficitaria   organizzazione   delle   attivita'
 alternative;  ma  sono,  al  contrario,  le  palesi violazioni che da
 questa organizzazione derivano per i  diritti  fondamentali  dei  non
 avvalentisi".  Sul  punto  la  difesa  richiama  la motivazione della
 decisione di inammissibilita' dell'eccezione sollevata dal  Tribunale
 di  Milano in cui si sottolinea che la medesima si configura come una
 "generalizzata  censura  delle  carenze   organizzative   conseguenti
 all'attuazione che le norme impugnate avrebbero ricevuto da una serie
 di disposizioni amministrative" e che "l'apprezzamento di  situazioni
 contingenti - anche se per piu' versi criticabili - venutesi a creare
 nella fase di prima applicazione della  normativa,  non  puo'  essere
 compiuto   nel   giudizio   di  costituzionalita',  ove  le  asserite
 disparita' siano, come nella specie, ricollegabili  all'incompletezza
 delle  ordinanze  ministeriali  o  addirittura  alle  concrete scelte
 tecniche di chi e' tenuto a darvi  esecuzione".  A  differenza  della
 questione sollevata dal Tribunale di Milano - conclude la difesa - la
 questione ora all'esame della Corte  costituzionale  investe  non  le
 "carenze   organizzative"  ma  la  stessa  "organizzazione"  dell'ora
 alternativa.
                         CONSIDERATO IN DIRITTO
    1.  -  Il  Pretore  di  Firenze,  con  ordinanza del 30 marzo 1987
 (pervenuta alla Corte costituzionale il 30 settembre  1988,  R.O.  n.
 575/1988),  solleva  questione  di  legittimita'  costituzionale,  in
 riferimento agli artt. 2, 3 e 19  della  Costituzione,  dell'art.  9,
 punto  (recte: numero) 2, della legge 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica
 ed esecuzione dell'accordo, con  protocollo  addizionale,  firmato  a
 Roma  il  18  febbraio  1984, che apporta modificazioni al Concordato
 lateranense dell'11 febbraio 1929, tra la Repubblica  italiana  e  la
 Santa  Sede)  e dell'art. (recte: punto) 5, lettera b), numero 2, del
 suddetto Protocollo  addizionale,  nel  dubbio  ch'essi  causerebbero
 discriminazione    a    danno    degli   studenti   non   avvalentisi
 dell'insegnamento  di  religione   cattolica   "ove   non   potessero
 legittimare    la   previsione   dell'insegnamento   religioso   come
 insegnamento meramente facoltativo".
    2.  - Prima di passare al merito, occorre prendere in esame le tre
 eccezioni di inammissibilita' opposte per il Presidente del Consiglio
 dei   ministri   dall'Avvocatura  dello  Stato:  a)  natura  ancipite
 dell'ordinanza di rimessione; b) difetto di giurisdizione del Pretore
 in  ordine  a provvedimenti organizzatori del servizio scolastico; c)
 improponibilita' nel giudizio  costituzionale  dell'apprezzamento  di
 situazioni  contingenti  verificatesi  in  fase di prima e incompleta
 applicazione della normativa.
    L'eccezione  sub  a)  non  e' nella specie accoglibile, perche' il
 giudice a quo, prospettando anche  l'effetto  discriminante  a  danno
 degli  studenti avvalentisi dell'insegnamento di religione cattolica,
 precisa,  proprio  per   la   descritta   reciprocita'   di   effetti
 discriminatori,  il  thema decidendum, se l'insegnamento di religione
 cattolica, compreso tra gli altri insegnamenti del  piano  didattico,
 con  pari  dignita' culturale, come previsto nella normativa di fonte
 pattizia, sia o non causa di discriminazione.
    Quanto  al  punto b), versandosi in materia di diritto soggettivo,
 qual e' il diritto di avvalersi o di non avvalersi  dell'insegnamento
 di  religione  cattolica,  non  e'  contestabile la giurisdizione del
 giudice ordinario, ne' puo' assumere  rilevanza  in  questa  sede  il
 possibile contenuto del provvedimento di urgenza che il giudice a quo
 potrebbe adottare.
    Per il punto c), il criterio ancor recentemente ribadito da questa
 Corte (ordinanza n. 914 del 1988) che "l'apprezzamento di  situazioni
 contingenti  (...) venutesi a creare nella fase di prima applicazione
 della  normativa,  non  puo'  essere   compiuto   nel   giudizio   di
 costituzionalita',  ove  le  asserite  disparita'  siano,  come nella
 specie, ricollegabili all'incompletezza delle ordinanze  ministeriali
 o  addirittura alle concrete scelte tecniche di chi e' tenuto a darvi
 esecuzione", non e' applicabile allo status quaestionis, essendo  nel
 frattempo  intervenuta  pronuncia del Consiglio di Stato (sentenza n.
 1006 del 1988) con l'effetto di consolidare l'assetto  organizzatorio
 scolastico  che  si  lamenta  causa  di  discriminazione  a  danno di
 studenti non avvalentisi dell'insegnamento  di  religione  cattolica,
 obbligati  alla frequenza di insegnamenti o di attivita' alternative.
    3.  -  Questa  Corte ha statuito, e costantemente osservato, che i
 principi' supremi dell'ordinamento costituzionale hanno "una  valenza
 superiore  rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale,
 sia quando ha ritenuto che anche le disposizioni del  Concordato,  le
 quali  godono  della  particolare  copertura  costituzionale  fornita
 dall'art. 7, secondo comma, della Costituzione,  non  si  sottraggono
 all'accertamento   della   loro   conformita'   ai  principi  supremi
 dell'ordinamento costituzionale (v. sentenze n. 30 del  1971,  n.  12
 del  1972,  n.  175  del  1973,  n. 1 del 1977 e n. 18 del 1982), sia
 quando ha affermato che la legge di  esecuzione  del  Trattato  della
 C.E.E.  puo'  essere  assoggettata  al  sindacato  di questa Corte in
 riferimento  ai  principi   fondamentali   del   nostro   ordinamento
 costituzionale  e  ai  diritti  inalienabili  della persona umana (v.
 sentenze n. 183 del 1973 e n. 170 del 1984)" (cfr. sentenza  n.  1146
 del 1988).
   Pertanto  la  Corte non puo' esimersi dall'estendere la verifica di
 costituzionalita' alla normativa denunziata,  essendo  indubbiata  di
 contrasto    con    uno   dei   principi   supremi   dell'ordinamento
 costituzionale, dati i parametri  invocati,  artt.  2,  3  e  19.  In
 particolare,  nella  materia  vessata  gli  artt.  3  e 19 vengono in
 evidenza  come   valori   di   liberta'   religiosa   nella   duplice
 specificazione  di divieto: a) che i cittadini siano discriminati per
 motivi di  religione;  b)  che  il  pluralismo  religioso  limiti  la
 liberta' negativa di non professare alcuna religione.
    4.  -  I  valori richiamati concorrono, con altri (artt. 7, 8 e 20
 della  Costituzione),  a  strutturare  il  principio  supremo   della
 laicita'  dello  Stato,  che  e' uno dei profili della forma di Stato
 delineata nella Carta costituzionale della Repubblica.
    Il  principio di laicita', quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19
 e 20 della Costituzione, implica non indifferenza dello Stato dinanzi
 alle  religioni  ma  garanzia  dello  Stato per la salvaguardia della
 liberta' di  religione,  in  regime  di  pluralismo  confessionale  e
 culturale.  Il  Protocollo  addizionale alla legge n. 121 del 1985 di
 ratifica ed esecuzione dell'Accordo tra la Repubblica italiana  e  la
 Santa Sede esordisce, in riferimento all'art. 1, prescrivendo che "Si
 considera non piu' in vigore il principio, originariamente richiamato
 dai  Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione
 dello Stato italiano", con chiara allusione all'art. 1  del  Trattato
 del  1929 che stabiliva: "L'Italia riconosce e riafferma il principio
 consacrato nell'art. 1 dello Statuto del regno del 4 marzo 1848,  pel
 quale  la  religione  cattolica,  apostolica  e  romana  e'  la  sola
 religione dello Stato".
    La  scelta  confessionale  dello  Statuto  albertino, ribadita nel
 Trattato  lateranense  del  1929,  viene  cosi'   anche   formalmente
 abbandonata   nel   Protocollo   addizionale  all'Accordo  del  1985,
 riaffermandosi anche in un rapporto bilaterale la qualita'  di  Stato
 laico della Repubblica italiana.
    5.  -  Per  intendere  correttamente  a  qual  titolo  e con quali
 modalita' sia conservato l'insegnamento di religione cattolica  nelle
 scuole  dello  Stato  non  universitarie  entro  un  quadro normativo
 rispettoso del principio supremo  di  laicita',  giova  esaminare  le
 proposizioni che compongono il testo del denunciato art. 9, numero 2,
 della legge n. 121 del 1985.
    Nella prima proposizione ("La Repubblica italiana, riconoscendo il
 valore della cultura religiosa e tenendo conto  che  i  principi  del
 cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano,
 continuera' ad assicurare, nel quadro delle finalita'  della  scuola,
 l'insegnamento  della  religione cattolica nelle scuole pubbliche non
 universitarie di ogni ordine e  grado")  sono  individuabili  quattro
 dati  significativi:  1)  il  riconoscimento del valore della cultura
 religiosa; 2) la considerazione dei principi del  cattolicesimo  come
 parte  del  patrimonio storico del popolo italiano; 3) la continuita'
 di impegno dello Stato italiano nell'assicurare, come precedentemente
 all'Accordo,   l'insegnamento   di   religione   nelle   scuole   non
 universitarie; 4) l'inserimento di tale insegnamento nel quadro delle
 finalita' della scuola.
    I  dati  sub 1), 2) e 4) rappresentano una novita' coerente con la
 forma di Stato laico della Repubblica italiana.
    Con  l'art.  36  del  Concordato  del  1929  ("L'Italia  considera
 fondamento  e  coronamento  dell'istruzione  pubblica  l'insegnamento
 della  dottrina  cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione
 cattolica.  E  percio'  consente  che  l'insegnamento  religioso  ora
 impartito  nelle  scuole  pubbliche  elementari  abbia  un  ulteriore
 sviluppo  nelle  scuole  medie,  secondo  programmi   da   stabilirsi
 d'accordo   tra  la  Santa  Sede  e  lo  Stato")  lo  Stato  definiva
 l'insegnamento della  dottrina  cristiana,  secondo  la  forma  della
 tradizione   cattolica,  "fondamento  e  coronamento  dell'istruzione
 pubblica". La formula "fondamento  e  coronamento"  era  apparsa  nel
 regio  decreto  1› ottobre 1923, n. 2185, all'art. 3, ed era limitata
 alla istruzione elementare. Dopo  il  complesso  dibattito  dell'eta'
 giolittiana  e  del  primo dopoguerra, si ripristinava l'insegnamento
 obbligatorio di religione  cattolica  nelle  scuole  elementari,  con
 quella   formula  dettata  dal  Ministro  della  pubblica  istruzione
 Giovanni  Gentile,  che  intendeva  la  religione  fase  preparatoria
 dell'educazione,  philosophia  minor della mente infantile, destinata
 ad essere superata nella maturazione  successiva.  La  formula  sara'
 ripetuta,  in  identico  contesto,  dall'art. 25 del regio decreto 22
 gennaio 1925, n. 432 e dall'art. 27  del  regio  decreto  5  febbraio
 1928, n. 577.
    6. - Nella vicenda dello Stato risorgimentale, la legge Casati del
 1859, stabili' l'insegnamento obbligatorio di religione cattolica nei
 ginnasi  e  licei  (art.  193),  negli istituti di istruzione tecnica
 (art. 278), nelle scuole  elementari  (artt.  315,  325);  fino  alle
 minuziose disposizioni degli artt. 66, 67, 68 e 183 del regio decreto
 24 giugno  1860,  n.  4151  (Regolamento  per  le  scuole  normali  e
 magistrali  degli  aspiranti  maestri  e  delle  aspiranti  maestre).
 Significativa l'endiadi "La  religione  e  la  morale"  con  cui  era
 indicata  la  prima  delle  nove materie di insegnamento nelle scuole
 normali governative elencate nell'art. 1 del regio decreto 9 novembre
 1861,  n.  315  (Regolamento per le scuole normali e magistrali e per
 gli esami di  patente  de'  maestri  e  delle  maestre  delle  scuole
 primarie),  cosi'  come  ancora  la  collocazione  al  primo posto di
 "catechismo e storia sacra" tra le materie obbligatorie per gli esami
 sia scritti sia orali, nell'art. 22 dello stesso Regolamento.
    Con   legge   23   giugno   1877,  n.  3918  (Legge  che  modifica
 l'ordinamento dei  licei,  dei  ginnasi  e  delle  scuole  tecniche),
 l'ufficio  di  direttore  spirituale in dette scuole e' abolito (art.
 1);  la  legge  15  luglio  1877,   n.   3961   (Legge   sull'obbligo
 dell'istruzione elementare), introduce nel corso elementare inferiore
 "le prime nozioni dei doveri  dell'uomo  e  del  cittadino",  materia
 estesa  dieci  anni  dopo  ai  due gradi dell'insegnamento elementare
 dall'art. 1 del regio decreto 16 febbraio 1888, n. 5292  (Regolamento
 unico  per  l'istruzione  elementare),  che all'art. 2 stabilisce, in
 sintomatica  correlazione  con   il   disposto   dell'art.   1,   che
 l'insegnamento   religioso,  fin  allora  obbligatorio,  sara'  fatto
 impartire solo "a  quegli  alunni,  i  cui  genitori  lo  domandino".
 Codesto  sistema,  della  religione  a  domanda  dei  genitori, sara'
 confermato nei due regolamenti generali per  l'istruzione  elementare
 del 1895 (art. 3 del regio decreto 9 ottobre 1895, n. 623) e del 1908
 (art. 3 del regio decreto 6  febbraio  1908,  n.  150).  Quest'ultima
 norma,  al secondo comma, prevedeva finanche l'insegnamento religioso
 "a cura dei padri di famiglia che  lo  hanno  richiesto",  quando  la
 maggioranza  dei  consiglieri  comunali  non  credesse di ordinarlo a
 carico del Comune.
    7.   -   Esaurito  il  ciclo  storico,  prima,  della  strumentale
 utilizzazione della religione come sostegno alla morale  comune,  poi
 della opposizione positivistica tra religione e scienza, quindi della
 eticita' dello Stato  totalitario,  allontanati  gli  ultimi  relitti
 della  contesa  risorgimentale  tra Monarchia e Papato, la Repubblica
 puo', proprio per  la  sua  forma  di  Stato  laico,  fare  impartire
 l'insegnamento  di  religione  cattolica  in  base  a  due  ordini di
 valutazioni: a) il valore formativo della  cultura  religiosa,  sotto
 cui  s'inscrive  non  piu'  una religione, ma il pluralismo religioso
 della  societa'  civile;   b)   l'acquisizione   dei   principi   del
 cattolicesimo al "patrimonio storico del popolo italiano".
    Il   genus   ("valore  della  cultura  religiosa")  e  la  species
 ("principi  del  cattolicesimo  nel  patrimonio  storico  del  popolo
 italiano")   concorrono   a   descrivere   l'attitudine  laica  dello
 Stato-comunita',  che  risponde  non  a  postulati  ideologizzati  ed
 astratti  di estraneita', ostilita' o confessione dello Stato-persona
 o dei  suoi  gruppi  dirigenti,  rispetto  alla  religione  o  ad  un
 particolare  credo,  ma  si pone a servizio di concrete istanze della
 coscienza civile e religiosa dei cittadini.
    L'insegnamento  della  religione  cattolica  sara' impartito, dice
 l'art. 9, "nel quadro delle finalita' della scuola", vale a dire  con
 modalita' compatibili con le altre discipline scolastiche.
    8. - La seconda proposizione dell'art. 9, numero 2, della legge n.
 121 del 1985 ("Nel rispetto  della  liberta'  di  coscienza  e  della
 responsabilita'  educativa  dei  genitori, e' garantito a ciascuno il
 diritto  di  scegliere  se  avvalersi  o  non  avvalersi   di   detto
 insegnamento")  e' di gran lunga la piu' rilevante dal punto di vista
 costituzionale.
    Vi si richiama, in tema di insegnamento della religione cattolica,
 il rispetto della  liberta'  di  coscienza  e  della  responsabilita'
 educativa  dei  genitori, che trovano tutela nella Costituzione della
 Repubblica rispettivamente agli artt. 19 e 30.
    Ma  dinanzi ad un insegnamento di una religione positiva impartito
 "in conformita' alla dottrina della Chiesa", secondo il disposto  del
 punto 5, lettera a), del Protocollo addizionale, lo Stato laico ha il
 dovere di salvaguardare che non ne risultino limitate la liberta'  di
 cui all'art. 19 della Costituzione e la responsabilita' educativa dei
 genitori di cui all'art. 30.
    Torna  qui la logica strumentale propria dello Stato-comunita' che
 accoglie e garantisce l'autodeterminazione dei cittadini, mediante il
 riconoscimento  di un diritto soggettivo di scelta se avvalersi o non
 avvalersi del predisposto insegnamento della religione cattolica.
    Tale  diritto  ha  come  titolari  i  genitori  e,  per  le scuole
 secondarie superiori, direttamente gli studenti, in base all'art.  1,
 punto  1,  della  legge  18  giugno 1986, n. 281 (Capacita' di scelte
 scolastiche e di iscrizione nelle scuole secondarie superiori).
    Siffatta  figura  di  diritto  soggettivo  non  ha  precedenti  in
 materia.
    Nella legge Casati del 1859, all'art. 222, per i ginnasi e i licei
 era prevista la dispensa "dal frequentare l'insegnamento religioso  e
 dall'intervenire  agli esercizi che vi si riferiscono" per gli alunni
 acattolici o per quelli "il cui padre, o  chi  ne  fa  legalmente  le
 veci,  avra'  dichiarato  di  provvedere  privatamente all'istruzione
 religiosa dei medesimi".
    L'art.  374  della  stessa  legge  riconosceva la dispensa per gli
 allievi delle scuole pubbliche  elementari  "i  cui  parenti  avranno
 dichiarato  di  prendere  essi  stessi  cura  della  loro  istruzione
 religiosa".
    Nel   1865,  con  il  regio  decreto  n.  2498  del  1›  settembre
 (Regolamento per le scuole mezzane e secondarie del Regno),  all'art.
 61   si  disponeva:  "Gli  alunni  debbono  assistere  alle  funzioni
 religiose, se non hanno ottenuta  regolare  dispensa  dal  Preside  o
 Direttore,  sopra domanda per iscritto del padre dell'alunno o di chi
 legalmente lo rappresenta".
    Dal 1888, con regio decreto 16 febbraio n. 5292 (Regolamento unico
 per l'istruzione elementare), l'insegnamento  di  religione  diveniva
 non  piu'  obbligatorio,  ma istituibile dai Comuni solo su richiesta
 dei genitori.  Nella  restaurazione  dell'insegnamento  di  religione
 nelle  scuole  elementari del 1923, ricompariva, all'art. 3 del regio
 decreto 1› ottobre n. 2185, la  esenzione  per  i  fanciulli  "i  cui
 genitori dichiarano di volervi provvedere personalmente".
    L'art. 112 del regio decreto 26 aprile 1928, n. 1297 (Approvazione
 del regolamento generale  sui  servizi  dell'istruzione  elementare),
 aggiungeva  l'ulteriore  onere,  per  i  genitori  che  chiedevano la
 dispensa cosi' motivata, di indicare in che modo avrebbero provveduto
 alla istruzione privata di religione.
    Il  meccanismo  della  dispensa  perdeva  in seguito l'onere della
 motivazione, estendendosi il regime predisposto per i culti ammessi a
 tutti  gli  studenti.  L'art.  6  della legge 24 giugno 1929, n. 1159
 (Disposizioni sull'esercizio dei culti  ammessi  nello  Stato  e  sul
 matrimonio   celebrato  davanti  ai  ministri  dei  culti  medesimi),
 stabiliva: "I genitori o chi  ne  fa  le  veci  possono  chiedere  la
 dispensa  per  i  proprii figli dal frequentare i corsi di istruzione
 religiosa nelle scuole pubbliche". (cfr. anche l'art.  23  del  regio
 decreto  28 febbraio 1930, n. 289 (Norme per l'attuazione della legge
 24 giugno 1929, n. 1159, sui culti  ammessi  nello  Stato  e  per  il
 coordinamento di essa con le altre leggi dello Stato)).
    La  legge  5  giugno  1930,  n.  824 (Insegnamento religioso negli
 istituti medi d'istruzione classica, scientifica, magistrale, tecnica
 ed   artistica),  all'art.  2  disponeva,  infine:  "Sono  dispensati
 dall'obbligo di frequentare l'insegnamento religioso  gli  alunni,  i
 cui genitori, o chi ne fa le veci, ne facciano richiesta per iscritto
 al capo dell'istituto all'inizio dell'anno scolastico".
    E'  palese  il passaggio da motivazioni proprie dell'eta' liberale
 (essere la religione affare privato e l'istruzione religiosa  compito
 elettivamente   paterno)  a  quelle  dello  Stato  etico  (essere  la
 religione un connotato dell'identita'  nazionale  da  farsi  maturare
 nella scuola di Stato).
    Solo  con  l'Accordo  del  18  febbraio  1984  emerge un carattere
 peculiare dell'insegnamento di  una  religione  positiva:  il  potere
 suscitare,   dinanzi  a  proposte  di  sostanziale  adesione  ad  una
 dottrina, problemi di coscienza personale e di educazione  familiare,
 per evitare i quali lo Stato laico chiede agli interessati un atto di
 libera scelta.
    Con  la  terza  proposizione  dell'art.  9, numero 2, dell'Accordo
 ("All'atto  dell'iscrizione  gli   studenti   o   i   loro   genitori
 eserciteranno  tale  diritto, su richiesta dell'autorita' scolastica,
 senza che  la  loro  scelta  possa  dar  luogo  ad  alcuna  forma  di
 discriminazione")   il   principio   di   laicita'  e'  in  ogni  sua
 implicazione rispettato grazie alla convenuta garanzia che la  scelta
 non dia luogo a forma alcuna di discriminazione.
    Il  punto  5,  numero  2, del Protocollo addizionale, non contiene
 disposizione immediata pertinente alla questione di causa e  pertanto
 la   fonte   della  doglianza  non  e'  rinvenibile  nella  normativa
 impugnata.
    9.  -  La  previsione come obbligatoria di altra materia per i non
 avvalentisi sarebbe patente discriminazione  a  loro  danno,  perche'
 proposta  in  luogo  dell'insegnamento  di religione cattolica, quasi
 corresse tra l'una  e  l'altro  lo  schema  logico  dell'obbligazione
 alternativa,  quando  dinanzi all'insegnamento di religione cattolica
 si e' chiamati ad esercitare un diritto  di  liberta'  costituzionale
 non degradabile, nella sua serieta' e impegnativita' di coscienza, ad
 opzione tra equivalenti discipline scolastiche.
    Lo Stato e' obbligato, in forza dell'Accordo con la Santa Sede, ad
 assicurare l'insegnamento di religione cattolica. Per gli studenti  e
 per  le  loro  famiglie  esso  e'  facoltativo:  solo l'esercizio del
 diritto di avvalersene crea l'obbligo scolastico di frequentarlo.
    Per  quanti decidano di non avvalersene l'alternativa e' uno stato
 di  non-obbligo.  La  previsione  infatti   di   altro   insegnamento
 obbligatorio   verrebbe   a  costituire  condizionamento  per  quella
 interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al
 suo  unico  oggetto:  l'esercizio  della  liberta'  costituzionale di
 religione.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondata nei sensi di cui in motivazione la questione
 di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3  e  19
 della Costituzione, dell'art. 9, punto (recte: numero) 2, della legge
 25 marzo 1985, n.  121  (Ratifica  ed  esecuzione  dell'accordo,  con
 protocollo  addizionale,  firmato  a  Roma  il  18 febbraio 1984, che
 apporta modificazioni  al  Concordato  lateranense  dell'11  febbraio
 1929,  tra  la  Repubblica  italiana  e  la  Santa Sede), e dell'art.
 (recte: punto) 5, lettera b), numero 2, del  Protocollo  addizionale,
 sollevata dal Pretore di Firenze con l'ordinanza in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, l'11 aprile 1989.
                          Il Presidente: SAJA
                         Il redattore: CASAVOLA
                        Il cancelliere: MINELLI
    Depositata in cancelleria il 12 aprile 1989.
                Il direttore della cancelleria: MINELLI
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