N. 287 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 gennaio 1989

                                 N. 287
      Ordinanza emessa il 24 gennaio 1989 dal tribunale di Modena
         nel procedimento penale a carico di Maccaferri Ernesto
 Imposta  - Infedele dichiarazione dei redditi - Alterazione rilevante
 - Indeterminatezza,  in  parte  qua,  della  norma  incriminatrice  -
 Violazione  del  principio  di  tassativita' della fattispecie penale
 (richiamo alla sentenza n. 79/1982).
 (Legge 7 agosto 1982, n. 516, art. 4, primo comma, n. 7).
 (Cost., artt. 3 e 25).
(GU n.24 del 14-6-1989 )
                              IL TRIBUNALE
    Visti  gli  atti  del  procedimento  penale  di Maccaferri Ernesto
 imputato e penalizzato come da atti; esaminata la questione sollevata
 dalla difesa dell'imputato;
                      RITENUTO IN FATTO E DIRITTO
    L'art. 4 della legge n. 516/1982, nel prevedere al punto 7 del suo
 primo comma la condotta di chi rediga (tra l'altro) la  dichiarazione
 annuale   dei  redditi.  .  .  "dissimulando  componenti  positivi  o
 simulando componenti negativi del  reddito",  le  attribuisce  penale
 significazione  sol  quando  la  stessa sia stata tale da alterare in
 misura rilevante il risultato della dichiarazione stessa.
    E,  ben  ovviamente,  spetta  al  giudice valutare la rilevanza di
 quella  alterazione  al  fine  di  stabilire  la  ricorrenza  o  meno
 dell'antigiuridicita'  - sotto il profilo penale - di quella condotta
 connessiva ad omissiva che sia.
   Per  la  formulazione  d'un siffatto giudizio (che si risolve nella
 mera valutazione di un quantum) il giudice non puo'  far  ricorso  ad
 alcun  criterio di natura integrativa o sussidiaria magari offertogli
 da norme concorrenti (di legge o  regolamentari)  ovvero,  come  pura
 talvolta  potrebbe  verificarsi,  da  regole  di  comune e ben sicura
 esperienza (si pensi  all'ipotesi  criminosa  di  cui  all'art.  116,
 secondo  comma,  del  regio  decreto  21 dicembre 1933, n. 1736), per
 l'individuazione della cui ricorrenza risulta  d'obbligo  il  ricorso
 all'art.  133  del c.p., ovvero all'ipotesi criminosa di cui all'art.
 72 della legge n. 685/1975 per l'individuazione della cui ricorrenza,
 con  riferimento  alla "modica" quantita', risulta agevole il ricorso
 all'esperienza mutuabile dalle piu' comuni  acquisizioni  in  materia
 clinico-tossicologica e medico-legale.
    E   se,  quindi,  in  sub  acta  materia,  il  giudizio  (rectius:
 valutazione) del giudice e' disancorato - per sua stessa natura -  da
 ogni  criterio  di  sicuro  riferimento  va  da se' che la previsione
 penale in argomento ha carattere di indeterminatezza ed  il  relativo
 giudizio  finisce  inevitabilmente  per  rivelarsi arbitrario e, come
 tale, ne' voluto ne' dovuto.
    Al  giudice,  verrebbe,  cioe'  attribuita  non  una  funzione  di
 interpretazione nella norma (tipica del suo ministero), bensi' quella
 di  posizione  della  norma  stessa.  A ben vedere, infatti, la ratio
 sottostante alla norma in argomento appare essere  non  quella  della
 persecuzione   sempre   e   comunque   dell'infedelta'   fiscale  del
 contribuente  bensi'  quella  della  persecuzione  di   un   siffatto
 comportamento  sol quando la dimensione assunta dallo stesso sia tale
 da risultare intollerabile da parte della collettivita' e, come tale,
 meritevole di adeguata reprimenda.
    Attribuire  percio'  al  giudice  il  compito  di stabilire se sia
 "rilevante" l'alterazione del risultato  dell'infedele  dichiarazione
 significa   in  definitiva  conferirgli  una  funzione  di  carattere
 normativo che non puo' e non deve esser ritenuta sua propria:  quella
 di  stabilire  non  "se"  un  comportamento  umano  abbia  o  meno  a
 costituire reato per la sua corrispondenza al modello legale astratto
 della  relativa  fattispecie incriminatrice speciale, bensi' "quando"
 un siffatto comportamento, in relazione alle esigenze di tutela degli
 interessi  della  collettivita',  possa e debba esser riguardato come
 reato e cioe', come fatto penalmente rilevante. Ebbene questo tipo di
 valutazione  e'  propria  del  legislatore  cui  in  via esclusiva va
 attribuito il potere-dovere di stabilire, facendosi interprete  delle
 ragioni  e  delle  esigenze  del corpo sociale, se e quando una umana
 condotta risulti talmente pregiudizievole da meritare i rigori  della
 reprimenda penale. La conseguenza e', in un siffatto distorto sistema
 di usurpazione di competenze, che ai consociati non viene proposto un
 precetto  chiaro  e  determinato  dal  quale discenda un preciso loro
 obbligo, di fare o di non fare, bensi' un imperativo nebuloso  e  dal
 contenuto  incerto  che  non  consente  a  chiunque dei suoi naturali
 destinatari di adeguare in senso corretto  la  propria  condotta,  in
 quanto la statuizione normativa in parola viene ad acquistare corpo e
 specificazione non gia' in  tal  momento  dalla  sua  statuizione  ed
 espressione  ma soltanto da quello successivo della sua applicazione.
 In buona sostanza, cioe' il cittadino fiscalmente "infedele",  sapra'
 che  la  sua  condotta  integra estremi di reato non dalla preventiva
 lettura della norma ma dalla successiva determinazione  del  giudice.
 Ne'  quest'ultimo  perverra'  (per  tutto quanto in precedenza detto)
 alla determinazione stessa in modo facile³ Basti riflettere al  fatto
 che  la  "rilevanza"  di  cui  e'  discorso puo' essere intesa in una
 duplice eccezione: quale valore in se' e quale valore  rapportato  al
 complessivo  della  dichiarazione dei redditi (ancorche' quest'ultima
 appaia la piu' probabile). Orbene, se la si riguarda quale valore  in
 se',  occorrera'  che  il  giudice stabilisca quale sia l'entita' (da
 tradursi  in   una   cifra   di   denaro)   della   "simulazione"   o
 "dissimulazione";  la  si riguarda quale valore riferito al complesso
 della dichiarazione ancora una volta il giudice dovra'', sulla scorta
 dell'esclusivo   e   personale   suo   intendimento,  quale  rapporto
 (anch'esso traducibile in numerica  espressione)  debba  intercorrere
 tra  l'entita'  di  quanto  nella  specie  simulato (o dissimulato) e
 l'entita' della dichiarazione.  In  entrambi  i  casi,  comunque,  il
 cittadino  apprendera' sol dopo aver posto in essere la sua condotta,
 quale diverso atteggiamento avrebbe dovuto tenere. Altrettanto  ovvia
 (e  necessariamente  derivata)  e'  la considerazione che in siffatta
 situazione e per naturale portato di cose si creeranno  a  danno  dei
 cittadini  non  tanto  e  non  solo  delle  abnormi  sperequazioni di
 trattamento quanto e soprattutto una vera e propria moltiplicita'  di
 previsioni normative (tante quante saranno i diversi intendimenti dei
 vari giudici al cui vaglio decisionale verranno sottoposte le singole
 fattispecie maturate nella pratica).
    Se  cosi' e', appare di tutta evidenza che la norma in esame (art.
 4, primo comma, n. 7, della legge n. 516/1982) cosi' come formulata e
 strutturata  si  pone  in deciso contrasto con gli artt. 25 e 3 della
 Costituzione  perche'  collide  in  modo  vistoso  con   i   principi
 rispettivamente  conclamati  in quei citati articoli di "legalita'" e
 di "uguaglianza".
    Quanto al primo di detti principi, vale osservare, preliminarmente
 come la stessa Corte costituzionale (v. sentenza 29 aprile  1982,  n.
 79,  in giur. Cost. 1982, I, 712) abbia stabilito che il principio di
 legalita'... implica una stretta riserva  di  legge  che  postula  la
 specificazione  del fatto previsto come reato; in questa affermazione
 e'  dato  di   cogliere   la,   sottolineatura   dal   principio   di
 "tassativita'" (principio nel quale quello di legalita' si articola),
 che ha da intendersi quale dovere del legislatore  di  precedere,  al
 momento  della  creazione  della norma, ad una precisa determinazione
 della fattispecie legale, affinche' risulti tassativamente  stabilito
 cio'  che e' penalmente lecito e cio' che e' penalmente illecito e di
 quello che, derivato e conseguente,  di  "tipicita'"  dello  illecito
 penale   stesso,   principio   risaputamente  posto  a  tutela  della
 ragionevolezza  e  coerenza  dell'esercizio  del  potere  legislativo
 sicche' costituisce indizio sintomatico della sua violazione non gia'
 l'esistenza di  uno  spazio  interpretativo  attribuito  al  giudice,
 bensi' l'ambiguita' esplicita o latente della valutazione normativa e
 l'eccessiva   estensione   dell'area   dei   comportamenti    storici
 abbracciati dalla previsione normativa stessa.
    Nella  surricordata  decisione la Corte ha, tra l'altro, osservato
 che a base  del  principio  di  "tassativita'"  sta  in  primo  luogo
 l'intento  di evitare arbitri nell'applicazione di misure limitative.
 . . della liberta' personale ed ha affermato che per effetto di  tale
 principio  e'  onere  della  legge  penale  quello  di determinare la
 fattispecie  criminosa   con   connotati   precisi,   in   modo   che
 l'interprete,  nel  ridurre  un'ipotesi concreta alla norma di legge,
 possa esprimere un giudizio di corrispondenza sorretto da  fondamento
 controllabile;  e la stessa Corte ha aggiunto che tale onere richiede
 una descrizione intellegibile della fattispecie  astratta,  sia  pure
 attraverso  l'impiego di espressioni indicative e di valore e risulta
 soddisfatto fintantoche' nelle norme  penali  vi  sia  riferimento  a
 fenomeni  la cui possibilita' di realizzazione sia stata accertata in
 base a criteri che  allo  stato  delle  attuali  conoscenze  appaiono
 verificabili,  sicche'  ove  abbia a difettare un simile accertamento
 "l'impiego di  espressioni  intelligibili  non  sia  piu'  idoneo  ad
 adempiere   all'onere  di  determinare  la  fattispecie  in  modo  da
 assicurare una corrispondenza tra fatto storico  che  concretizza  un
 determinato illecito ed il relativo modello astratto".
    Orbene,  nel caso di specie, per la gia' asserita indeterminatezza
 della formula legislativa (le "espressioni indicative"  sono  ridotte
 al  mero  aggettivo  "rilevante"  e quelle "di valore" sono del tutto
 assenti), manca proprio ogni e qualsiasi possibilita'  di  assicurare
 e,  quindi,  di  verificare la "corrispondenza" affermata dalla Corte
 tra  il  fatto  dell'infedelta'  fiscale  del   conribuente   ed   il
 corrispondente  "modello". E sorprende non poco (ed anzi corrobora il
 convincimento del collegio sul punto) il poter  constatare  come  nel
 corpo  della  stessa  legge  n. 516/1982 siano previste (artt. 1 e 2)
 figure di reato per la determinazione della  configurabilita'  si  e'
 fatto  ricorso  da  parte del legislatore a ben precisi ed articolati
 parametri di valore, sicche' ancor  piu'  risulta  incomprensibile  e
 centurabile  l'indeterminatezza  invece  ricorrente  nella previsione
 della figura criminose di cui all'art. 4 della legge medesima.
    Quanto  al  secondo  dei citati principi (quello di cui all'art. 3
 della Costituzione), s'e' gia' detto  che  le  pronunce  dei  giudici
 sulle   svariate  fattispecie  concrete  sottoposte  al  loro  vaglio
 decisorio  risultano   necessariamente   tali   da   realizzare   una
 sostanziale  condizione  di  disuguaglianza tra imputato ed imputato:
 alcuno di essi puo' esser condannato per un'evasione di valore minore
 ed  altri  assolti per un'evasione di valore maggiore, senza che alla
 base di siffatta disuguaglianza sia comunque rinvenibile qualsivoglia
 spunto  di ragionevolezza³ Ed infatti pure a volere, a mero titolo di
 esemplificazione, ipotizzare che il  reato  si  configuri  quando  il
 reddito  dissimulato  sia  pari  a  quello  dichiarato  (ma  potrebbe
 benissimo  ipotizzare  il  doppio,  il  triplo  etc.),   verrebbe   a
 verificarsi  una situazione per la quale il dissimulatore d'una fonte
 di reddito di L. 10.000.000 e che abbia esposto un reddito  a  quella
 somma  almeno  superiore  non  verrebbe punito, mentre lo sarebbe chi
 avesse dissimulato un reddito  inferiore  ai  citati  10  milioni  ma
 corrispondente  o  magari superiore al reddito da se' dichiarato. Non
 v'e' chi  non  veda  che  una  siffatta  conclusione  (ben  possibile
 nell'attuale   realta'   normativa   da  un  lato  e  giurisdizionale
 dall'altro) e' aberrante ed in contrasto con  lo  stesso  rato  legis
 che,   richiamandosi   a  quanto  prima  detto,  non  consiste  nella
 individuazione e persecuzione da parte del legislatore della maggiore
 o minore "disonesta' individuale" riguardante attraverso un'ottica di
 tipo soggettivo ed ispirata a canoni di etica comportamentale, bensi'
 nell'individuazione  d'un  preciso  danno sociale e nella valutazione
 della sua tollerabilita' o meno da parte della collettivita'  secondo
 una   visuale   doverosamente   oggettiva  che  e'  l'unica  a  poter
 determinare un risultato di uguaglianza  e,  quindi,  di  sostanziale
 giustizia.
    Tutto   quanto   sopra   ritenuto  e  premesso,  la  questione  di
 costituzionalita' della norma di cui all'art. 4, primo comma,  n.  7,
 nella parte in cui non prevede un preciso limite di valore rimettendo
 ogni determinazione all'incontrollabile arbitrio del giudice, non  e'
 manifestamente  infondata  ed  e'  rilevante  per  la definizione del
 procedimento  in  corso  come  l'imputazione  rivolta  al  Maccaferri
 Ernesto  rivela  con  tutta  evidenza  sicche' il procedimento stesso
 andra' sospeso con rimessione degli atti  alla  Corte  costituzionale
 perche' la stessa abbia a pronunziarsi sulla sollevata questione.
                                P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
    Dichiara  rilevante  e  non  manifestamente infondata la tollerata
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4, comma 1, n.  7,
 della  legge n. 516/1982 per suo contrasto con gli artt. 3 e 25 della
 Costituzione e, conseguentemente, sospende il presente giudizio;
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale;
    Ordina  che  a  cura della cancelleria la presente ordinanza venga
 notificata alle parti in causa ed al pubblico  ministero  nonche'  al
 Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri  e comunicata ai Presidenti
 delle due Camere del Parlamento.
      Modena, addi' 24 gennaio 1989
                   Il presidente: (firma illeggibile)

 89C0647