N. 325 SENTENZA 18 maggio - 6 giugno 1989

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.  Reati
 militari - Ignoranza dei doveri militari - Errore conseguente sulla
 norma incriminatrice - Rilevanza Inevitabilita' escludente la
 colpevolezza - Richiamo alla sentenza n. 364/1988 - Difetto di
 rilevanza - Inammissibilita'.  Cod. pen. mil. pace, art. 39, in
 relazione all'art. 5 del c.p.).  Cost., artt. 2, 3, 13, 25, sesto
 comma, 27 e 52, terzo comma).  Reati militari - Ignoranza dei doveri
 militari - Errore vertente sul presupposto storico  Manifesto di
 chiamata alla classe di leva militare) - Atto amministrativo per
 l'attuazione del dovere in concreto - Non fondatezza.  C.P.M.P., art.
 39, in relazione all'art. 47).  Cost., artt. 2, 3, 13, 25, secondo
 comma, 27 e 52, terzo comma)
(GU n.24 del 14-6-1989 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Francesco SAJA;
 Giudici:  prof.  Giovanni  CONSO,  prof.  Ettore  GALLO,  dott.  Aldo
 CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco  GRECO,  prof.
 Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof.
 Francesco Paolo  CASAVOLA,  prof.  Antonio  BALDASSARRE,  avv.  Mauro
 FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
 ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 39 del codice
 penale militare di pace, promosso  con  un  ordinanza  emessa  il  27
 ottobre  1988  dal  Tribunale  militare  di  Padova, nel procedimento
 penale a carico di Pavan Emanuele, iscritta al n.  811  del  registro
 ordinanze   1988   e   pubblicata   nella  Gazzetta  Ufficiale  della
 Repubblica, n. 3, prima serie speciale, dell'anno 1989;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 12 aprile 1989 il Giudice
 relatore Ettore Gallo;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con  ordinanza  27  ottobre  1988,  il  Tribunale  militare
 territoriale  di   Padova   sollevava   questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  39  codice  penale  militare  di  pace con
 riferimento agli artt. 2, 3, 13,  25,  secondo  comma,  e  52,  terzo
 comma,  della  Costituzione. Riferiva il Tribunale nell'ordinanza che
 tale Emanuele Pavan, giostraio, era stato  tratto  a  giudizio  sotto
 l'imputazione  di  mancanza  alla  chiamata aggravata (art.151, primo
 comma, codice penale militare di pace) perche',  chiamato  alle  armi
 mediante  manifesto  per adempiere al servizio di leva, aveva omesso,
 senza giusto motivo, di raggiungere, come prescritto,  il  23  agosto
 1987,  il  Distretto militare di Udine, rendendosi assente arbitrario
 fino al 25 aprile 1988, data in cui  veniva  tratto  in  arresto  dai
 carabinieri di Piove di Sacco.
    Al   dibattimento  il  giovane,  confermando  quanto  aveva  detto
 nell'istruttoria, si era discolpato assumendo  che,  sulla  base  del
 precedente  di  due  suoi  fratelli maggiori, che si erano presentati
 alle armi a seguito di cartolina-precetto, si era  fatta  convinzione
 di  dovere rispondere alla chiamata soltanto a seguito della notifica
 della detta cartolina. Non aveva,  percio',  prestato  attenzione  al
 manifesto, in quanto ignorava che, indipendentemente dalla cartolina,
 egli si sarebbe comunque dovuto presentare, per la data predetta,  al
 suo   Distretto   militare,  sulla  base  dell'ordine  contenuto  nel
 manifesto stesso.
    Di  cio'  dato  atto,  rileva  pero'  il Tribunale che l'ignoranza
 invocata dall'imputato non puo' avere  alcun  riflesso  sull'elemento
 soggettivo del reato data la categorica disposizione dell'art. 39 del
 codice penale militare di pace.  Per  essa,  "il  militare  non  puo'
 invocare a propria scusa l'ignoranza dei doveri inerenti al suo stato
 militare", e la relazione,  anzi,  precisa  che  la  disposizione  fu
 introdotta  proprio  nell'intento  di "eliminare tutte le dubbiezze e
 perplessita' giurisprudenziali... in tema di conoscenza dei manifesti
 di  chiamata  alle  armi",  ribadendo  cosi'  "l'inutilita'  di  ogni
 indagine  sulla  effettiva  conoscenza  dei  doveri   inerenti   alle
 molteplici   manifestazioni  del  servizio  militare  ai  fini  della
 determinazione del dolo".
    Vero  e' che - osserva l'ordinanza - questa Corte ha dichiarato la
 parziale illegittimita' dell'art.5 del codice penale, con la sentenza
 n.  364  del  1988,  cosi'  com'e'  pur vero che recenti orientamenti
 giurisprudenziali, formatisi proprio sul tema in esame,  disattendono
 relazione   e  lavori  preparatori,  e  ritengono  che  possa  essere
 valorizzato, agli effetti del dolo, il contenuto dell'errore,  almeno
 nei limiti di cui all'art. 47, primo comma, del codice penale.
    Ma,  ad avviso del Tribunale, l'art. 39 del codice penale militare
 di pace, in quanto norma speciale, opera sicuramente in deroga  tanto
 all'art.  5  (cosi'  come  risultante  dalla declaratoria di parziale
 illegittimita' costituzionale di questa Corte) e 47, terzo comma, del
 codice   penale,  quanto  all'art.47,  primo  comma,  stesso  codice.
 Dev'essere,  percio',  rinnovata   la   questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  39,  codice  penale  militare  di pace, in
 riferimento a tutti i richiamati parametri  costituzionali.  All'art.
 3,  innanzitutto,  perche'  viene  cosi'  a  determinarsi  un diverso
 trattamento fra civili e militari in ordine  all'art.  5  del  codice
 penale  senza  che  sussista  una giustificazione razionale; ma anche
 all'art. 27, primo comma della Costituzione, perche', legittimando la
 responsabilita'  sulla  base  di un dolo fittizio, si elude il valore
 piu' pregnante del detto principio costituzionale che implica,  nella
 personalita'  della responsabilita', il principio di colpevolezza: il
 che varrebbe anche per il  parametro  di  cui  all'art.  25,  secondo
 comma, della Costituzione.
    D'altra  parte,  cosi'  alterando  il  concetto di responsabilita'
 personale verrebbe ad inquinarsi la stessa funzione della pena  (art.
 27,  terzo comma della Costituzione) che, assumendo puro carattere di
 esemplarita', apparirebbe "inadeguata  alla  dignita'  della  persona
 umana" (artt. 2 e 52, secondo comma della Costituzione), ed al valore
 riconosciuto alla liberta' personale (art. 13 della Costituzione).
    Tutti  principi  fondamentali che non potrebbero, comunque, essere
 sacrificati a garanzia degl'interessi di difesa della Patria.
    2.  -  Pubblicata, comunicata e notificata ritualmente l'ordinanza
 in esame, e' intervenuto nel  giudizio  innanzi  a  questa  Corte  il
 Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
 dall'Avvocatura Generale dello  Stato.  Questa,  facendo  riferimento
 alle  ordinanze  n.  221  del  1987 e 151 del 1988 di questa Corte, e
 rilevando che  l'attuale  questione  si  presenterebbe  negli  stessi
 termini  gia'  esaminati  con  le  predette  ordinanze  di  manifesta
 inammissibilita', chiede che  essa  venga  dichiarata  manifestamente
 infondata.
                         Considerato in diritto
    1. - Il Tribunale militare di Padova dubita ancora una volta della
 legittimita' costituzionale dell'art. 39 del codice  penale  militare
 di  pace, denunziandolo in riferimento agli stessi parametri invocati
 nelle precedenti ordinanze. Non e' esatto, pero', che la questione si
 presenti  negli  stessi  termini, come afferma l'Avvocatura Generale:
 nel  qual  caso,  comunque,  la  conseguenza  sarebbe  stata  analoga
 declaratoria di manifesta inammissibilita', e non d'infondatezza come
 da essa viene richiesto.
    In  realta', qui si tratta di un giostraio che, aggirandosi con la
 sua modesta carovana per le piazze  di  vari  paesi,  ha  sicuramente
 notato  -  e,  del  resto,  non lo nega - il manifesto che dispone la
 chiamata alle armi della sua classe. Egli  sostiene,  pero',  di  non
 avere  soffermato  l'attenzione  su  di  esso  a causa dei precedenti
 concernenti  i  suoi  due  fratelli  maggiori,  ai  quali  era  stata
 notificata  la cartolina-precetto. Egli nutriva, percio', ragionevole
 convinzione che  solo  da  questo  momento  decorresse  l'obbligo  di
 presentarsi al Corpo designato.
    Questa   volta,   dunque,  a  differenza  dei  casi  esaminati  in
 precedenza, l'ignoranza, e l'errore ad essa conseguente,  venivano  a
 cadere proprio su quei doveri inerenti al proprio stato che l'art. 39
 del codice penale militare di pace dichiara irrilevanti come scusanti
 dell'illecito perpetrato.
    Ritiene,  peraltro,  il Tribunale militare che la norma impugnata,
 essendo norma speciale, deroghi tanto all'art. 5 del codice penale  -
 cosi'  come dichiarato parzialmente illegittimo dalla citata sentenza
 di questa Corte - quanto all'art.47, primo e terzo comma  del  codice
 penale:  anche perche' l'ordinanza mostra di non condividere un certo
 recente favorevole orientamento giurisprudenziale che  disattende  il
 rigore  interpetrativo  dei  lavori  preparatori e della relazione al
 codice penale militare di pace.
    Di qui, la nuova denunzia a questa Corte.
    2.   -   Occorre  tenere  distinti  nella  questione,  cosi'  come
 sollevata, il profilo che si riferisce all'art. 5 del codice  penale,
 da  quello  che  ha riguardo all'errore nei sensi di cui all'art. 47,
 primo e terzo comma del codice penale.
    Sotto  il  primo  profilo,  infatti, se e' vero che la sentenza 23
 marzo 1988 n. 364 di questa Corte ha aperto un  ambito  di  rilevanza
 scusante dell'errore, e' pur vero, pero', che lo ha posto in funzione
 dell'inevitabilita' dell'errore stesso, additando tutta una serie  di
 indicazioni  di principio che consentono di delineare con sufficiente
 certezza l'ambito stesso. Essenzialmente  -  secondo  la  sentenza  -
 l'errore  inevitabile  e'  riferito,  sul piano soggettivo, ai doveri
 strumentali di diligenza, fra cui sopratutto  quelli  d'informazione.
 In altri termini, inevitabile - e quindi escludente la colpevolezza -
 e' soltanto  quell'errore  che  non  si  e'  potuto  evitare  nemmeno
 adempiendo  ai doveri strumentali d'informazione e conoscenza: doveri
 peraltro mediati dalla normale socializzazione degli individui e  dal
 funzionamento  delle  varie  fonti sociali d'informazione, alle quali
 chi e' tenuto ad attingere puo', di fatto e di regola, attingere.
    Orbene,  un'eventuale  delegittimazione  dell'art. 39 citato sotto
 questo riflesso - (in quanto, cioe', non  contempla  l'inevitabilita'
 dell'errore  nei limiti di cui sopra) - postulerebbe che il Tribunale
 rimettente avesse motivato, agli effetti della rilevanza,  sul  punto
 relativo   all'inevitabilita'   dell'errore  del  Pavan.  E'  questo,
 infatti, il dato da cui nasce  l'imprescindibilita'  di  un  giudizio
 della Corte ai fini della decisione di merito, in quanto, allo stato,
 nell'art. 39 del codice penale militare di pace non  sarebbe  appunto
 previsto   -   almeno   secondo  l'interpetrazione  dell'ordinanza  -
 quell'ambito di  rilevanza  scusante  dell'errore  che  la  Corte  ha
 riconosciuto nell'art. 5 del codice penale.
    Ma  sul  punto  il  Tribunale non si e' pronunziato, limitandosi a
 dare atto che il Pavan era caduto in errore sulla portata  imperativa
 del   manifesto   di   chiamata,   senza   precisare  se  lo  ritenga
 eventualmente inevitabile, e per quali motivi.
    Sotto tale riflesso, percio', la questione e' inammissibile.
    3.  -  Non  cosi', invece, per quanto si riferisce all'art. 47 del
 codice penale.
    Ferma   restando   l'inescusabilita'   dell'errore  sul  la  norma
 incriminatrice (non piu' interessano qui i limiti  posti  dalla  piu'
 volte  richiamata  sentenza),  l'errore nel quale e' incorso il Pavan
 non cade sulla norma penale (l'ordinanza riferisce, infatti, che egli
 era  ben consapevole dell'obbligo di rispondere alla chiamata) ma sul
 suo dovere di  presentarsi  alle  armi  per  effetto  del  manifesto,
 quand'anche  non  gli  fosse pervenuta la cartolina-precetto. Errore,
 percio', che cade sui doveri che promanano da un atto amministrativo,
 quale  il  manifesto di chiamata alle armi: piu' precisamente, errore
 derivato da ignoranza della fonte amministrativa  da  cui  il  dovere
 promana.
    Ora,  e'  ben vero che dai passi delle relazioni della Commissione
 reale (n.  40)  e  della  Commissione  ministeriale  (n.  41)  appare
 evidente  che  il  legislatore  dell'epoca,  attraverso l'art. 39 del
 codice penale militare  di  pace,  intendesse  estendere  la  portata
 dell'art. 5 del codice penale a qualsiasi errore sui doveri militari,
 derivato da ignoranza od erronea interpetrazione, qualunque fosse  la
 fonte da cui il dovere derivava. Cosi' come e' vero che, obbedienti a
 tale "mens legislatoris", dottrina e giurisprudenza militare hanno in
 passato  pressoche'  costantemente  interpetrato l'art. 39 del codice
 penale  militare  di  pace  nel  senso  che  ivi  sarebbe  posta  una
 limitazione  - in relazione ai doveri militari all'efficacia scusante
 dell'errore su legge extra penale di cui all'art. 47,  ultimo  comma,
 del codice penale.
    Senonche'   una   tale   interpetrazione   certamente  rispondente
 all'ideologia  degli  autori   del   codice,   non   e'   piu'   oggi
 giustificabile,  sia  perche'  contraria ai principi fondamentali del
 diritto penale (che sono principi di civilta'), sia perche' nel nuovo
 ordinamento democratico, anche militare, quei principi sono collegati
 all'ispirazione  di  fondo  della  Costituzione   che   rende   ormai
 anacronistica  quella  interpetrazione.  In  realta',  "ignoranza dei
 doveri", secondo il linguaggio comune della scienza e  della  pratica
 del  diritto,  sta  a significare "ignoranza dei doveri in astratto",
 vale a dire "ignoranza delle fonti normative dei doveri". Ma gli atti
 amministrativi che condizionano il dovere in concreto sono "fatti" od
 "atti" (come il manifesto) che rendono operanti il dovere in astratto
 disciplinato  dalla  norma  giuridica,  e  percio'  si ricollegano al
 principio di cui alla prima parte dell'art. 47 del codice penale.
    Su  questa  piu'  moderna  linea  si  e'  posta,  del resto, ormai
 notevole parte della giurisprudenza militare,  la  quale  ha  appunto
 ritenuto  che  l'errore  sulla  portata del manifesto, vertendo su un
 atto amministrativo, e' in realta' errore sul presupposto storico per
 l'attuazione  del  dovere  in  concreto. Errore di fatto, dunque, che
 incide sul dolo, secondo i principi del diritto  penale  militare  ex
 art.  16  del  codice  penale, rendendo rilevante questo errore anche
 nell'area dell'art. 39 del codice penale militare di pace.
    In  tali  sensi,  e  cioe'  aderendo  ad  una interpetrazione che,
 nell'adeguarsi ai principi ispiratori della  Costituzione,  evita  di
 punire  comportamenti  che,  al piu', possono essere qualificati come
 colposi, non puo' considerarsi fondata, nemmeno sotto questo profilo,
 la  questione  di  legittimita' costituzionale sollevata sotto i vari
 parametri enunciati in epigrafe.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   1)  dichiara  non  fondata,  nei  sensi  di  cui in motivazione, la
 questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  39  del  codice
 penale  militare  di  pace in relazione all'art. 47 del codice penale
 con riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25,  secondo  comma,  27  e  52,
 terzo  comma, della Costituzione, sollevata dal Tribunale militare di
 Padova con ordinanza 27 ottobre 1988;
    2)   dichiara   inammissibile   la   questione   di   legittimita'
 costituzionale dell'art. 39 del codice penale  militare  di  pace  in
 relazione  all'art.  5  del codice penale, e con riferimento ai detti
 parametri costituzionali, sollevata dal  medesimo  Tribunale  con  la
 stessa ordinanza.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 18 maggio 1989.
                          Il Presidente: SAJA
                          Il redattore: GALLO
                        Il cancelliere: MINELLI
    Depositata in cancelleria il 6 giugno 1989.
                Il direttore della cancelleria: MINELLI
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