N. 321 ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 novembre 1988- 13 giugno 1989
N. 321 Ordinanza emessa l'8 novembre 1988 (pervenuta alla Corte costituzionale il 13 giugno 1989) dalla Corte di cassazione nel procedimento civile vertente tra Pagani Luigi e Caruso Palmina ed altro Fallimento - Esclusione per il piccolo imprenditore - Vigenza del criterio correlato al capitale investito (L. 900.000) Irrilevanza, per fenomeno inflattivo, del valore di tale capitale - Conseguente mancata distinzione legale tra piccola impresa ed impresa, tra insolvenza commerciale e insolvenza civile Lamentato identico trattamento per situazioni diverse e diverso trattamento per fattispecie identiche. (R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 1, secondo comma). (Cost., art. 3).(GU n.27 del 5-7-1989 )
LA CORTE DI CASSAZIONE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto contro la sentenza n. 2759/1986 pronunciata dalla corte d'appello di Milano in data 15 ottobre-25 novembre 1986, da Pagani Luigi rappresentato e difeso dagli avvocati Giovani Valcavi del foro di Varese, Alfredo Quattrocchi Rosmi Gervasoni del foro di Milano e Giuseppe Di Stefano del foro di Roma, presso e nello studio del quale ultimo in Roma, via Lucrino n. 25, ha eletto domicilio, giusta procura a margine del ricorso, ricorrente, contro Caruso Palmina, rappresentata e difesa, per procura speciale a margine del controricorso, dall'avv. Giuseppe Tansini del foro di Milano, elettivamente domiciliata in Roma, via Monserrato n. 34, presso lo studio dell'avv. Giuseppe Gueli, controricorrente, e il fallimento Caruso Palmina, in persona del curatore dott. proc. Gabriella Dusatti, Segrate, via Olgetta n. 35, intimato; Udita la relazione del consigliere Gian Carlo Bibolini; Sentito il p.m. il quale, in persona del dott. Giovanni Lo Cascio ha chiesto il rigetto del ricorso ed in subordine che la Corte sollevi la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 1, secondo comma, della l.f. in riferimento all'art. 3 della Costituzione della Repubblica; PREMESSO IN FATTO Il tribunale di Milano, pronunciando con sentenza in data 7 giugno 1983 su istanza del sig. Luigi Pagani, dichiarava il fallimento di Caruso Palmina. Nel provvedimento veniva espressamente dichiarato che l'attivita' di produzione e commercio di articoli di panetteria, esercitata dalla sig.ra Caruso Palmina, non poteva qualificarsi artigianale ed inoltre che la stessa era imprenditore esercente attivita' commerciale (panificio). Lo stesso tribunale di Milano, adito da Caruso Palmina in sede di opposizione, pronunciando in contumacia del fallimento ed in contraddittorio di Luigi Pagani, con sentenza n. 4328 in data 18 giugno 1984 revocava la dichiarazione di fallimento. Nella pronuncia, pur escludendosi che l'attivita' della Caruso avesse carattere artigianale e che essa potesse essere considerata piccolo imprenditore, sia perche' la rivendita di pane direttamente confezionato e' attivita' commerciale in senso tecnico, sia perche' essa aveva investito un capitale superiore al minimo di legge, si riteneva insussistente lo stato di insolvenza. Avverso la sentenza proponeva appello il sig. Luigi Pagani, il quale chiedeva la conferma della pronuncia dichiarativa di fallimento. Si costituiva anche la sig.ra Caruso Palmina che insisteva per il riconoscimento della qualifica della natura artigianale della sua attivita' o, comunque, di quella di piccolo imprenditore; il curatore rimaneva contumace. La corte d'appello di Milano, con sentenza n. 2759/1986 in data 25 novembre 1986 confermava la sentenza appellata, ancorche' con diversa motivazione. Pur non ritenendo, infatti, fondati i motivi in base ai quali lo stato di insolvenza era stato escluso dal tribunale di Milano, la Corte di merito qualificava Caruso Palmina "piccolo imprenditore". In particolare la pronuncia si fondava sui seguenti passaggi logici: a) a seguito dell'abrogazione dell'imposta di ricchezza mobile, deve ritenersi abrogato il criterio di determinazione del piccolo imprenditore, previsto dall'art. 1, secondo comma, della l.f., con riferimento al reddito accertato ai fini dell'imposta di r.m.; conseguentemente deve ritenersi implicitamente abrogato il criterio sussidiario, sempre previsto dal secondo comma dell'art. 1 della l.f., inerente al minimo capitale investito di L. 900.000, importo mai rivalutato dal 1952; b) l'unico criterio applicabile, ai fini della determinazione del piccolo imprenditore, anche in sede dichiarazione di fallimento, una volta abrogato l'art. 1, secondo comma (salva l'ultima espressione), e' quello previsto dall'art. 2083 del c.c.; c) Il criterio dell'art. 2083 del c.c. e' integrato nel caso di specie, in quanto nell'attivita' esercitata da Caruso Palmina il fattore lavoro era prevalente sul capitale impiegato. Contro la sentenza della corte d'appello di Milano proponeva ricorso il sig. Pagani Luigi, adducendo due motivi, e cioe': 1) violazione dell'art. 360, nn. 3 e 5 del c.p.a. in relazione all'art. 1, secondo comma del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, con riferimento all'art. 2083 del c.c. Il ricorrente, richiamando i precedenti giurisprudenziali di questa Corte e le prevalenti voci di dottrina, sostiene che l'abrogazione del criterio fiscale ai fini della determinazione del piccolo imprenditore commerciale, non ha comportato l'abrogazione implicita del secondo criterio, fondato sul capitale investito, per cui anche attualmente ai fini della determinazione del piccolo imprenditore commerciale in sede fallimentare occorre fare riferimento al capitale investito ed alla misura indicata tutt'ora dalla legge in L. 900.000, con previsione invariata dal 1952; 2) violazione dell'art. 360, n. 5, del c.p.c.: omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. La sig.ra Caruso Palmina, costituitasi con controricorso illustrato da successiva memoria, chiese il rigetto del ricorso. Il procuratore generale nelle conclusioni assunte all'udienza odierna ha motivatamente chiesto il rigetto del ricorso, in principalita' sostenendo l'avvenuta abrogazione implicita dell'art. 1, secondo comma, della legge fallimentare; in subordine propone questione di legittimita' costituzionale della stessa norma, con riferimento all'art. 3 della Costituzione della Repubblica. Tanto premesso in fatto, OSSERVA IN DIRITTO La questione fondamentale emersa dal dibattito delle parti in tutto l'arco del giudizio, e riproposta con il ricorso in esame, attiene alla individuabilita' della qualifica di piccolo imprenditore nell'attivita' svolta dalla sig.ra Caruso Palmina ai fini della sottoponibilita' a fallimento della stessa in presenza dello stato di insolvenza. La questione e' stata risolta in senso negativo dal tribunale di Milano che ha escluso espressamente la qualifica di piccolo imprenditore, sia in sede di dichiarazione di fallimento, sia nelle sentenza che definiva la fase di opposizione, rapportando il capitale investito nell'impresa al limite della 900.000 lire previsto dall'art. 1, secondo comma, della l.f. La stessa questione e' stata risolta in senso opposto dalla corte d'appello di Milano, unicamente, peraltro, in base alla disciplina dell'art. 2083 del c.c., dopo avere ritenuto abrogato il primo dei due criteri, volti all'individuazione del piccolo imprenditore, previsti dal secondo comma dell'art. 1 della l.f., ed implicitamente abrogato quello rapportato al capitale investito, ritenuto sussidiario, dello stesso capoverso, dell'art. 1 della l.f. La questione attinente alla qualifica di "piccolo imprenditore" di Caruso Palmina, pertanto, pone il problema dei criteri normativi applicabili per individuare detta figura ai fini della dichiarazione di fallimento e, in particolare, quello della vigenza del criterio correlato al capitale investito nella misura di L. 900.000 o inferiore, previsto dal citato art. 1, secondo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267. L'attuale vigenza del predetto comma dell'art. 1 della legge fallimentare, infine e' oggetto specifico del giudizio di questa Corte in quanto e' stata dedotta espressamente nel ricorso avverso la sentenza n. 2759/1986 della corte di appello di Milano. Peraltro, in ordine alla ipotizzata abrogazione implicita della predetta disciplina attinente alla misura del capitale investito, questa Corte si e' gia' piu' volte pronunciata (vedi Cass. sent. 14 febbraio 1980, n. 1067; sentenza 29 ottobre 1981, n. 5701) in senso negativo, ritenendo che l'art. 1, secondo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, avente carattere integrativo rispetto alla disciplina dell'art. 2083 del c.c. nell'ordinamento delle procedure concorsuali, ha determinato, nella formulazione originaria, due criteri tra di loro operanti in via gradata, ciascuno dei quali volto a costituire indice della dimensione dell'impresa, ragguagliata al reddito o al capitale investito. Ciascuno dei due criteri ha nella lettera della legge una propria dimensione logica ed una autonoma incidenza nell'individuazione del fenomeno, per cui l'avvenuta abrogazione del criterio collegato al reddito ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, non travolge quello previsto in via gradata, la cui operativita' permane. Di fronte a detto indirizzo precedentemente espresso con pronuncie uniformi da questa Corte, assume rilievo nella decisione del ricorso l'esame della vigenza dell'art. 1, secondo comma, della l.f., nella parte da ritenersi non espressamente abrogato (con esclusione comunque dell'ultima espressione concernente le societa' commerciali), sotto il profilo prospettato dal p.m. per contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione della Repubblica. La questione non appare manifestamente infondata. Il problema non si pone in relazione alla originaria formulazione della norma, ma in relazione alla sua attuale valenza, al suo attuale significato. L'indicazione normativa, infatti, di un valore economico (patrimonio investito) ragguagliato ad una cifra fissa non adeguabile alla svalutazione monetaria, assume nel tempo un significato gradualmente diverso in presenza del notorio fenomeno inflazionistico che, col variare del valore della moneta, modifica il significato stesso della norma, considerata in se' e per se' ed inoltre in relazione alla realta' economica in cui e' destinata ad incidere. Finche' l'importo determinato, ancorche' svalutato, sia ancora atto a svolgere la funzione conferitagli dalla legge di elemento di differenziazione tra due fenomeni imprenditoriali, diversamente qualificati per la dimensione organizzativa e diversamente regolati in un settore essenziale del c.d. statuto dell'impresa, nessun problema di disuguaglianza di trattamento tra fenomeni uguali, o di identita' di trattamento fra fenomeni disuguali si potrebbe verosimilmente porre, dovendo l'interprete limitarsi a constatare che l'ambito della piccola impresa si e' andato gradatamente restringendo nel tempo, in mancanza di interventi normativi di adeguamento. Il problema, pero', si puo' porre quando il fenomeno della svalutazione giunga a livelli tali da ridurre il limite delle 900.000 lire ad un indice insignificante della realta' operativa ed organizzativa dell'impresa, di modo che la soglia della distinzione tra piccola impresa ed impresa soggetta a fallimento piu' non esista, ovvero l'importo fisso non abbia piu' un apprezzabile significato di distinzione tra i due fenomeni imprenditoriali. Tanto premesso in linea di principio, non puo' non constatarsi, in base ad elementi notori, che il limite delle 900.000 lire, munito di un valore concreto nel 1952 allorche' venne introdotto l'adeguamento con la legge 20 ottobre 1952, n. 1357 (basti rilevare che, in base al livello del costo della vita, le originarie L. 900.000 avrebbero un valore attuale di oltre L. 13.500.000), ha ridotto il suo valore reale a meno di un quindicesimo di quello originario, oppure, sotto diverso profilo, che il limite di valore, rimasto invariato, e' destinato ad incidere attualmente su fenomeni reali la cui dimensione e' aumentata di oltre quindici volte, in termini monetari. In proposito giova sottolineare che la Corte costituzionale, investita una prima volta del problema della legittimita' costituzionale dell'art. 2 del d.P.R. 2 marzo 1967, n. 223 nella parte in cui si escludono dall'elettorato attivo i commercianti falliti (v. Corte costituzionale 23 marzo 1970, n. 43), rilevo' che la distinzione posta dalla norma denunciata tra il commerciante fallito da una parte ed il piccolo imprenditore o il non commerciante insolvente dall'altra, e' l'affetto della rifrazione di un'indiscutibile diversita' di fatto nelle posizioni che il piccolo imprenditore o il non commerciante occupano in confronto al commerciante fallito, nella cornice dell'ordinamento economico generale. In altra fattispecie la stessa Corte (v. Corte costituzionale 16 giugno 1970, n. 94), investita del problema della legittimita' costituzionale degli artt. 2221 del c.c. e art. 1 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, in relazione all'art. 3 della Costituzione, pose in luce che "i limiti di applicabilita' delle procedure concorsuali non sono stabiliti in relazione alle diversita' delle condizioni economiche e patrimoniali dei cittadini, ma in relazione alla natura dell'attivita' da essi svolta ed alla sua organizzazione imprenditoriale, nonche' in relazione all'entita' dell'impresa desunta dalla natura del reddito obiettivamente accertato e subordinatamente del capitale investito, anche in considerazione delle diverse ripercussioni che puo' avere il dissesto nell'economia generale". Sostanzialmente, quindi, la Corte costituzionale, respingendo le questioni di illegittimita' sollevate, ribadiva il principio che la diversa disciplina normativa dettata nei confronti di chi svolge un'attivita' commerciale organizzata ad impresa, rispetto a chi o svolge attivita' dello stesso tipo con dimensioni diverse ovvero un'attivita' di tipo diverso, trovava giustificazione nella diversa sittuazione soggettiva alla quale il legislatore ordinario ha inteso provvedere. Quando, pero' l'entita' cui e' demandata la diversificazione tra differenti situazioni soggettive, per una rilevante variazione sostanziale del suo valore non costituisca piu' un significativo elemento di distinzione tra realta' soggettive diverse, tra impresa organizzata da una parte e piccola impresa nonche' insolvente civile dall'altra, il problema della legittimita' costituzionale di un trattamento identico tra situazioni soggettive diverse, e di trattamento diverso tra situazioni soggettive identiche, puo' ragionevolmente porsi. In fatto, il valore del capitale investito di L. 900.000, (tenendo anche conto che per costante interpretazione nel capitale investito deve ricomprendersi non solo quello fisso trasfuso in fattori di produzione, ma anche il capitale circolante), rapportato alla realta' attuale, costituisce una soglia tanto limitativa da non rappresentare piu' un apprezzabile elemento di distinzione tra la situazione soggettiva dell'impresa organizzata e la piccola impresa. Da questa situazione deriva un duplice, e connesso, ordine di rilievi. Da una parte, infatti, al di sopra del limite di capitale di L. 900.000 esiste tutta una fascia di dimensioni imprenditoriali indubbiamente rientranti nella categoria dei piccoli imprenditori secondo i criteri dell'art. 2083 del c.c. e che non dovrebbero essere soggetti a fallimento in base alla disciplina dell'art. 2221 del c.c.; cio' nonostante essi sono assoggettabili al fallimento in base all'art. 1 della l.f., nella sua attuale formulazione, quale norma integrativa dell'art. 2083 del c.c. e come tale operante in sede fallimentare. In sostanza, non essendo piu' significativo il limite di L. 900.000 per la distinzione tra piccoli imprenditori ed imprenditori commerciali organizzati, due realta' diverse, diversamente qualificate e disciplinate dagli artt. 2083 e 2221 c.c., sono soggette ad una disciplina unica, sfumando quella distinzione soggettiva, organizzativa e dimensionale nella quale era stata ravvisata la legittimita' della diversita' di trattamento, dalla legge pur prevista. Sotto diverso profilo, la privazione di significato del limite dimensionale tra piccolo imprenditore ed impresa organizzata, fa sfumare anche la distinzione tra insolvente commerciale ed insolvente civile, per cui al di sopra ed al di sotto della soglia delle L. 900.000 di capitale investito, che non individua piu' il limite inferiore di una dimensione organizzativa imprenditoriale, e' individuabile tutta una fascia di situazioni che, per condizioni soggettive e dimensionali, sono qualificabili, come insolvenze civili, e che, pur tuttavia, nella vigenza dell'art. 1, secondo comma, della l.f., sono soggette a trattamento normativo differenziato, essendo assoggettabili, o no, a fallimento a seconda che il capitale investito superi, o no, il limite indicato. Entrambe queste discrasie, derivanti dal valore attualmente assunto dall'art. 1, secondo comma del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui determina in L. 900.000 il limite di investimento di capitale cui ragguagliare la figura del piccolo imprenditore, inducono a ritenere non manifestamente infondata la questione, sollevata dal p.m., della illegittimita' costituzionale della norma, in relazione al disposto dell'art. 3 della Costituzione della Repubblica.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Sospende la decisione del ricorso proposto da Pagani Luigi avverso la sentenza n. 2759/86 in data 25 novembre 1986 della corte di appello di Milano; Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale affinche' decida sulla questione di legittimita' costituzionale, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione della Repubblica, dell'art. 1, secondo comma del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui determina in L. 900.000 il limite superiore del capitalle investito per l'individuazione del piccolo imprenditore; Ordina che la presente ordinanza sia notificata, a cura della cancelleria, alle parti in causa nonche' al pubblico ministero ed al Presidente del Consiglio dei Ministri ed inoltre che sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Roma, addi' 8 novembre 1988 (Seguono le firme) 89C0720