N. 490 SENTENZA 25 ottobre - 7 novembre 1989

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Reati militari - Carabiniere - Sottufficiale - Furto militare
 aggravato - Condanna - Automatica applicazione della pena accessoria
 della rimozione dal grado - Ingiustificato richiamo alla sentenza n.
 971/1988 - Richiesta di sentenza additiva Inammissibilita'.
 
 (C.P.M.P., art. 230, terzo comma).
 
 (Cost., artt. 3 e 27).
(GU n.46 del 15-11-1989 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Giovanni CONSO;
 Giudici:  prof.  Ettore  GALLO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe
 BORZELLINO, dott. Francesco GRECO,  prof.  Renato  DELL'ANDRO,  prof.
 Gabriele   PESCATORE,   avv.  Ugo  SPAGNOLI,  prof.  Francesco  Paolo
 CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO,  avv.
 Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
 ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  230, comma
 terzo, del codice penale militare di pace, promossi con  le  seguenti
 ordinanze:
      1) ordinanza emessa il 10 gennaio 1989 dal Tribunale militare di
 Padova nel procedimento penale a carico di Solla  Giovanni,  iscritta
 al  n.  234  del  registro ordinanze 1989 e pubblicata nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 20,  prima  serie  speciale,  dell'anno
 1989;
      2) ordinanza emessa il 31 gennaio 1989 dal Tribunale militare di
 Verona nel procedimento penale a carico di Fiore Franco, iscritta  al
 n.  235  del  registro  ordinanze  1989  e  pubblicata nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 20,  prima  serie  speciale,  dell'anno
 1989;
    Visti  gli  atti  di  intervento  del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nella  Camera  di  consiglio  del 4 ottobre 1989 il Giudice
 relatore Ettore Gallo;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Il  Tribunale  militare di Padova, con ordinanza 10 gennaio
 1989, sollevava questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
 230, comma terzo, codice penale militare di pace con riferimento agli
 artt. 3 e 27 Costituzione.
    Riferiva  l'ordinanza  che  innanzi  al predetto Tribunale pendeva
 procedimento nei confronti  di  un  carabiniere,  imputato  di  furto
 militare,  aggravato  anche  ai  sensi dell'art. 47 n. 2, per essersi
 impossessato, al fine di trarne profitto, di una paletta  segnaletica
 sottraendola    all'Amministrazione   militare   che   la   deteneva.
 L'aggravante dell'art. 47 n. 2 era in dipendenza  dalla  qualita'  di
 carabiniere   che,   corrispondendo,   com'e'   noto,   al   caporale
 dell'Esercito, e' graduato di truppa.  Ne  deriva  che,  in  caso  di
 condanna,  gli va applicata, oltre alla pena principale, anche quella
 accessoria della rimozione, che lo fa discendere alla  condizione  di
 semplice  soldato  o  militare  di ultima classe: il che significa la
 perdita automatica della qualita' di  carabiniere  e  la  conseguente
 dimessione dall'Arma.
    Ritiene,  tuttavia,  il  Tribunale rimettente che il fatto rivesta
 caratteri  di  lievissima  entita',  anche   perche'   assistito   da
 motivazioni  che  metterebbero  in  luce  l'attaccamento all'Arma del
 militare. In tali  condizioni,  l'automatica  applicazione  di  cosi'
 grave  pena accessoria, che priva l'imputato anche del lavoro, appare
 al Tribunale sproporzionata sia al fatto che  alla  personalita'  del
 colpevole,  per  cui  ritiene  di  riproporre  la  detta questione di
 compatibilita'   del   denunziato   automatismo   con   i   parametri
 costituzionali richiamati.
    Per  verita', il giudice rimettente non ignora che la questione e'
 stata da questa Corte ripetutamente dichiarata inammissibile:  e  non
 tanto  perche'  non  fosse  auspicabile  di  consentire  quanto  piu'
 possibile al giudice di valutare tutte le  circostanze  e  la  stessa
 entita'   del   fatto,  in  modo  da  adeguare  proporzionalmente  le
 conseguenze sanzionatorie in aderenza ai principi costituzionali,  ma
 perche'  la  modificazione  del  sistema  vigente  postula previsioni
 diversificate e alternative, e disposizioni articolate, che competono
 esclusivamente al potere discrezionale del legislatore.
    Secondo  il  Tribunale,  pero',  la giurisprudenza di questa Corte
 avrebbe avuto una successiva evoluzione, culminata nella sentenza  n.
 971  del  1988 che ha dichiarato la parziale illegittimita' dell'art.
 85/ a del d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 (Statuto degli impiegati civili
 dello   Stato)   che   prevedeva   analogo  provvedimento  automatico
 (destituzione di diritto) per  l'impiegato  civile,  irrevocabilmente
 condannato  per uno dei reati elencati nella citata norma (fra cui il
 furto). In tale asserita analoga ipotesi, la Corte ha sentenziato che
 l'impiegato  doveva  essere  sottoposto a procedimento disciplinare e
 non  all'automatica  destituzione,  proprio   per   consentire   alla
 Commissione  disciplinare  di  adeguare  anche la sanzione accessoria
 all'entita' del fatto e delle sue circostanze: e cio' dopo che, anche
 in   quel   settore,   si   erano   verificate  alcune  decisioni  di
 inammissibilita',  motivate  nello  stesso  senso  di  quelle   sopra
 accennate,   concernenti   le   analoghe   questioni  precedentemente
 sollevate dai Tribunali militari.
    2.  - Identica questione, riferita pero' esclusivamente all'art. 3
 della Costituzione, veniva sollevata, con le  stesse  argomentazioni,
 dal  Tribunale  militare  di  Verona.  Riferiva  questo, infatti, con
 ordinanza 31 gennaio 1989, di trovarsi  nella  stessa  situazione  di
 disagio  in  relazione  al  giudizio  in  corso  nei  confronti di un
 sottufficiale effettivo dell'Esercito (Sergente maggiore)  che,  dopo
 essersi  impossessato  di  lire  quarantacinquemila,  sottraendole ad
 altro militare, le aveva immediatamente  restituite  subito  dopo  la
 sottrazione.
    Rilevava  il  Tribunale  rimettente  che,  intendendo concedere al
 sottufficiale due attenuanti  comuni  (art.  62  nn.  4  e  6  codice
 penale),  largamente  prevalenti  sull'aggravante (e percio' una pena
 lievissima), sarebbe stato ciononostante costretto  ad  applicare  la
 pena accessoria della rimozione, con la conseguente perdita del grado
 e del lavoro da parte del sottufficiale.
    Conseguenza  considerata  aberrante  dal  giudice  a  quo  perche'
 avrebbe  determinato  irragionevole  dissoluzione  del  rapporto   di
 adeguatezza fra la sanzione irroganda e l'entita' del fatto.
    3.  -  Interveniva,  in  ambo  i  giudizi  davanti  alla Corte, il
 Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato  dall'Avvocatura
 Generale  dello  Stato,  la  quale  chiedeva dichiararsi infondate le
 questioni sollevate dai due Tribunali militari.
    Secondo l'Avvocatura, il principio ravvisato nella sentenza n. 971
 del 1988 di questa  Corte  non  sarebbe  applicabile  all'ordinamento
 militare,  trattandosi di aree completamente diverse nei loro assetti
 e nelle rispettive esigenze. D'altra parte,  la  sanzione  accessoria
 non  sarebbe  una  pena in senso proprio, in guisa che la sua realta'
 ontologica assolutamente diversa non postulerebbe le stesse  garenzie
 della pena.
    Al   dibattimento,  l'Avvocatura  si  rimetteva  alle  gia'  prese
 conclusioni.
                         Considerato in diritto
    1.  -  Le  due  ordinanze  prospettano  la  stessa  questione  con
 identiche argomentazioni e con riferimento  almeno  ad  un  parametro
 comune  (art.  3  Costituzione).  I  procedimenti  possono, pertanto,
 essere riuniti per essere definiti con unica sentenza.
    2.  -  Il problema riguarda l'automaticita' della pena accessoria,
 della "rimozione", prevista in via  generale,  in  relazione  ad  una
 certa  gravita'  della pena principale inflitta, nell'art. 29, codice
 penale  militare   di   pace,   e   specificamente   poi   comminata,
 indipendentemente  dall'entita'  della  pena  irrogata,  a seguito di
 condanna per determinati reati, e non soltanto militari (cfr. art. 33
 n.  2  e  3  codice  penale militare di pace): fra questi e' anche il
 furto militare (art. 230 codice penale militare di pace) di cui  alla
 fattispecie  dei  due  casi in esame, come del resto il furto comune,
 anche semplice (art. 33 n. 2 codice penale militare di pace).
    Secondo   i  Giudici  a  quibus,  un  siffatto  automatismo  viola
 innanzitutto  l'art.  3  della  Costituzione  perche'  determina   un
 trattamento  gravemente  differenziato  a danno dei militari rispetto
 agli impiegati  civili  dello  Stato,  per  i  quali,  in  situazioni
 analoghe,  la  Corte  ha  eliminato  la "destituzione di diritto" con
 sentenza 12 ottobre 1988 n. 971.
    Ma  secondo  il  Tribunale  di Padova - esso automatismo contrasta
 altresi' con l'art. 27,  primo  e  terzo  comma,  della  Costituzione
 perche impedisce al giudice di avvalersi del suo potere discrezionale
 per adeguare il  trattamento  sanzionatorio  alla  concreta  gravita'
 dell'illecito:  e  cio'  tanto  al  fine di adempiere al principio di
 proporzionalita' quanto allo scopo di favorire  la  rieducazione  del
 condannato.
    L'Avvocatura, pero', contrasta siffatti assunti, affermando che lo
 specifico  dell'ordinamento  militare,  ispirato  ad  esigenze  e  ad
 assetti  diversi da quello civile, non consentirebbe l'estensione del
 principio  affermato  nella  citata  sentenza  di  questa  Corte  per
 gl'impiegati   civili   dello   Stato.  Peraltro,  poi,  la  sanzione
 accessoria, non  essendo  pena  in  senso  proprio,  avrebbe  realta'
 ontologica  cosi'  diversa  dalla pena principale da non postulare le
 stesse garenzie.
    3.  -  Proprio  quest'ultima  opinione non puo' essere accolta, in
 quanto, se fosse esatta, il problema sollevato nemmeno si porrebbe.
    In   realta'   la  pena  accessoria,  anche  a  prescindere  dalla
 denominazione normativa, e' vera e propria pena criminale, anche se a
 carattere   interdittivo,   (almeno  limitatamente  alle  specie  che
 incidono sulla liberta' del cittadino) e come  tale  considerata  dai
 Lavori  preparatori  (cfr.  Relazione  ministeriale  progetto  codice
 penale, Lavori preparatori, V, 1, p.64); non esiste, pertanto,  altro
 criterio  di  distinzione dalla pena principale se non appunto la sua
 astratta  "complementarieta'".  "Astratta"   perche',   in   effetti,
 esistono  invece  rilevanti situazioni nelle quali la pena accessoria
 e' virtualmente la sola ed unica residua  risposta  sanzionatoria  al
 reato, dato che viene a scindersi l'apparente indissolubilita' con la
 pena   principale.   Si   allude   all'ipotesi   della    sospensione
 condizionale,   che   incide   sulla   pena   principale   rendendola
 ineseguibile, ma non sulla pena accessoria (art. 166 codice  penale),
 nonche'  a  quella  della  liberazione  condizionale  che  sottrae il
 condannato all'esecuzione della pena  principale  ma  non  lo  libera
 dalla pena accessoria (come si argomenta dal silenzio degli artt. 176
 e 177 del codice penale).  Altrettanto  dicasi  per  l'indulto  e  la
 grazia,  se  il  decreto  non  dispone  diversamente (art. 174, primo
 comma, codice penale). Del resto, a riprova di quanto radicata  negli
 ordinamenti  sia la consapevolezza dell'omologia fra le due specie di
 sanzioni, riferibili ad una stessa natura penale, va ricordato che il
 codice  Zanardelli  utilizzava  talune  delle attuali pene accessorie
 (come - ad esempio - l'interdizione dai pubblici  uffici)  come  pene
 principali.
    Quanto  all'altro  argomento dell'Avvocatura, esso non puo' essere
 assunto nella estrema genericita'  in  cui  viene  proposto.  Parlare
 ancora  di  aree "completamente diverse nei loro assetti e nelle loro
 esigenze" quando si mettono a raffronto l'organizzazione  militare  e
 quella  civile,  e' per lo meno imprudente. C'e' il rischio, infatti,
 di   scivolare    verso    desuete    concezioni    istituzionistiche
 dell'ordinamento militare, trascurando l'evoluzione che l'istituzione
 ha subito nell'ultimo  trentennio,  sottovalutando  il  principio  di
 democrazia  repubblicana  che la Costituzione vi ha immesso (art. 52,
 ultima parte, Costituzione), e  ignorando  la  generale  tendenza  al
 maggiore possibile avvicinamento dei diritti del cittadino militare a
 quelli del cittadino che tale non e'.
    Il  che,  tuttavia, non esclude che talune particolari situazioni,
 proprie  dello   specifico   dell'una   o   dell'altra   istituzione,
 effettivamente  sussistano.  Esse,  pero',  vanno  esaminate caso per
 caso,  nella  razionalita'  dell'eventuale  particolarita'   che   le
 giustifichi,  e  non nel contesto di una presunta generale diversita'
 delle due aree.
    4.  - In realta', sul piano metodologico, il quesito si propone in
 termini diversi. Cio' che va considerata, infatti, e' la natura delle
 due  sanzioni  che  vengono poste a raffronto, visto che si chiede di
 estendere alla pena accessoria il principio che la Corte ha applicato
 alla  "destituzione  di  diritto"  di  cui  all'art. 85 a) del citato
 decreto presidenziale.
    Ora,   si   e'   gia'   visto  che  la  pena  accessoria,  benche'
 interdittiva, ha natura di  vera  e  propria  "pena  criminale";  non
 cosi',  invece,  per  la  "destituzione  di  diritto" che la pubblica
 amministrazione doveva applicare agli impiegati  civili  dello  Stato
 condannati  per taluni reati. Si consideri che, proprio perche' pena,
 soltanto il magistrato puo' applicare la prima, mentre la  competenza
 ad  infliggere la seconda e' attribuita dal legislatore alla pubblica
 amministrazione. Basta gia' questo per ravvisare  nella  seconda  una
 sanzione      amministrativa,      sia      pure     di     carattere
 afflittivo-interdittivo, che rivela, specie dopo la sentenza  n.  971
 del 1988 della Corte che ha prescritto il previo procedimento, la sua
 manifesta natura disciplinare.
    La  giurisprudenza  di questa Corte ha ripetutamente affermato che
 la sanzione amministrativa, quando non sia meramente  risarcitoria  o
 ripristinatoria   o   revocatoria,  ha  bensi'  carattere  eterogeneo
 afflittivo,  ma  va  tenuta  assolutamente  distinta  dalla  sanzione
 penale,  sopratutto  perche'  adempie a funzioni diverse. Ben e' vero
 che la sanzione disciplinare ha caratteri e  trattamento  particolari
 nel  campo  delle  sanzioni amministrative punitive, come dimostra la
 legge 24 novembre 1981 n. 689  (Modifiche  al  sistema  penale)  che,
 nell'ultimo  inciso dell'art. 12, ha escluso le sanzioni disciplinari
 dall'applicazione  di  quei  principi  generali,  largamente   invece
 dettati  per  le  altre sanzioni amministrative. Ed e' proprio questa
 specie  di  jus  singulare,  che  ha   sempre   regolato   l'illecito
 disciplinare  (come,  del  resto, quello finanziario-tributario; cfr.
 art.  39  della  citata  legge  n.  689  del  1981),  a  giustificare
 l'adozione  di una particolare previa garenzia processuale che questa
 Corte ha  ritenuto  di  introdurre,  con  la  piu'  volte  richiamata
 sentenza, nell'art. 85 a) del d.P.R. n. 3 del 1957.
    Ma  ne'  talune  apparenti  affinita'  esteriori  del procedimento
 disciplinare amministrativo,  ne'  quelle  analoghe  adombrate  dalle
 sanzioni   disciplinari  (derivanti  soltanto  dal  comune  carattere
 punitivo) possono mai fondare una comparazione con l'illecito  e  con
 le  sanzioni penali, attesa la loro natura assolutamente diversa e le
 ben distinte funzioni cui adempiono i due settori.
    Tanto  meno,  percio',  e' ipotizzabile una specie di applicazione
 analogica al campo del diritto penale di cio'  che  questa  Corte  ha
 statuito   in   quello   delle   sanzioni  amministrative,  sia  pure
 disciplinari.
    5. - Va confermato, tuttavia, come piu' volte, del resto, e' stato
 riconosciuto, che il problema esiste: esso resta, pero', nei  termini
 gia'  ventilati  nelle  precedenti  sentenze,  e  non  e'  nemmeno un
 problema che riguardi soltanto il diritto penale militare.
    Come  bene  ha osservato l'Avvocatura Generale, se un confronto e'
 da instaurarsi, esso semmai andrebbe posto nei riguardi  dell'analoga
 pena  accessoria,  prevista  dal codice penale comune: l'interdizione
 perpetua  dai  pubblici  uffici.  Anche  questa,  infatti,  come   la
 rimozione,  consegue  in via generale a pene inflitte che superino un
 determinato limite (anni 5 di reclusione), ed e' poi prevista in  via
 specifica,  indipendentemente  dalla  pena  irrogata, per taluni piu'
 gravi delitti, come quelli  di  peculato  o  malversazione,  previsti
 negli articoli da 314 a 317 codice penale.
    Ora,  si  deve  convenire  che,  dal  diritto  penale  in  genere,
 presunzioni e pene fisse de jure dovrebbero  essere  bandite.  Specie
 dopo  l'avvento  della  Costituzione,  sia l'art. 3 che il primo e il
 terzo comma dell'art. 27 comportano effettivamente che  la  pena  sia
 proporzionata  all'entita'  del  fatto  commesso  e alla personalita'
 dell'autore, e che consenta la rieducazione  del  condannato:  ed  e'
 ovvio   che  soltanto  il  giudice  puo'  compiere  questo  dosaggio,
 valutando le circostanze  tutte  del  fatto  e  la  personalita'  del
 soggetto agente.
    E'  possibile  che  l'introduzione  di quegli strumenti illiberali
 nascondesse, in realta',  una  certa  sfiducia  del  legislatore  nei
 confronti   del  potere  discrezionale  del  giudice:  anche  se  poi
 contraddittoriamente, in altre stagioni,  si  e'  ecceduto  in  senso
 opposto,   ponendo  a  carico  del  giudice,  mediante  un  rilevante
 allargamento  del  potere  discrezionale,  operazioni   di   cui   il
 legislatore  avrebbe  dovuto  assumersi la responsabilita' procedendo
 alla riforma della parte speciale del  codice,  o  almeno  di  talune
 fattispecie che piu' urgentemente la richiedevano (cfr. la riforma n.
 220 del 1974).
    Ciononostante la difficolta' che questa Corte ha sempre opposto e'
 quella di un intervento  settoriale,  al  di  fuori  di  una  riforma
 legislativa  organica,  mediato  da una giurisprudenza costituzionale
 che non ha poteri per l'articolazione di provvedimenti conseguenti  e
 coordinatori  indispensabili,  e  per  di  piu'  in un diritto penale
 speciale, qual e'  quello  militare,  che  lascerebbe  inalterato  il
 corrispondente   settore   del   diritto  penale  comune  di  cui  e'
 complementare. Percio' la Corte ha sempre rimandato  al  legislatore,
 che  ha gia' in corso una riforma del codice penale militare di pace,
 e che ha pure attivato finalmente lo studio di una  legge-delega  per
 la  riforma  del  codice  penale  comune.  Anche se si ipotizzasse un
 adeguamento, ad opera della giurisprudenza costituzionale, del  terzo
 comma  dell'art.  230  codice penale militare di pace al temperamento
 che il secondo inciso del secondo comma dell'art. 314  codice  penale
 introduce  al rigore della perpetuita' dell'interdizione dai pubblici
 uffici,  il  problema  resterebbe  tuttavia  insoluto.  L'art.   314,
 infatti,  non  esclude  la  pena accessoria quando venga inflitta una
 pena principale inferiore ai tre anni di reclusione, ma si  limita  a
 prevedere   una   pena   accessoria   piu'   mite,   qual'e'  appunto
 l'interdizione temporanea dai pubblici uffici.
    Il  codice  penale  militare,  pero',  non  conosce  una rimozione
 temporanea  (l'art.  29   la   definisce,   infatti,   esclusivamente
 "perpetua"),  mentre  la  corrispondente  disposizione  generale  del
 codice penale comune (che, per coincidenza, porta  lo  stesso  numero
 29)  distingue  l'interdizione  dai  pubblici  uffici in "perpetua" e
 "temporanea".
    D'altra  parte,  ogni  altra  soluzione,  quale la possibilita' di
 disporre a discrezione della pena accessoria fino ad  escluderla,  se
 del  caso,  oppure  a  graduarla  per  adeguarla  al caso concreto in
 riferimento  ai  principi  costituzionali,  postula   necessariamente
 l'intervento  del  legislatore:  sia per la formulazione di criteri e
 limiti, in  relazione  alla  pena  principale  inflitta  o  ad  altri
 parametri,  sia  e sopratutto per l'eventuale introduzione ex novo di
 una pena accessoria temporanea, che nel codice penale militare non ha
 attualmente cittadinanza.
    Provvedimenti tutti che sicuramente eccedono i poteri della Corte.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti   i   giudizi,   dichiara  inammissibile  la  questione  di
 legittimita' costituzionale dell'art. 230, comma terzo, codice penale
 militare   di   pace   con  riferimento  agli  artt.  3  e  27  della
 Costituzione, sollevata dai Tribunali militari di  Padova  e  Verona,
 rispettivamente con ordinanze 10 e 31 gennaio 1989.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 25 ottobre 1989.
                          Il Presidente: CONSO
                          Il redattore: GALLO
                        Il cancelliere: MINELLI
    Depositata in cancelleria il 7 novembre 1989.
                Il direttore della cancelleria: MINELLI
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