N. 523 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 luglio 1989

                                 N. 523
 Ordinanza  emessa  l'11  luglio 1989 dal tribunale di sorveglianza di
 Napoli nel procedimento penale a carico di Pietropaolo Antonio
 Ordinamento  penitenziario - Detenzione - Permesso premiale - Mancato
 rientro o grave comportamento tenuto dal detenuto  -  Esclusione  dal
 computo  della  pena del periodo trascorso in permesso Ingiustificato
 aumento di sanzioni penali - Ordinamento penitenziario -  Decreto  di
 non  computabilita'  nella  pena  del periodo trascorso in permesso -
 Reclamo al collegio del tribunale di sorveglianza -  Procedimento  in
 camera  di consiglio - Previsto intervento del procuratore generale e
 del difensore - Esclusione del detenuto - Facolta' per lo  stesso  di
 presentare  memorie  Prevista  garanzia  di  difesa  tecnica  ma  non
 materiale - Disparita' di trattamento  rispetto  al  procedimento  di
 sorveglianza  generale  finalizzato  all'emissione di provvedimenti a
 favore  (prevista   presenza   del   detenuto   all'udienza   e   sua
 partecipazione all'assunzione delle prove).
 (Legge  26  luglio  1975, n. 354, art. 53-bis inserito dalla legge 10
 ottobre 1986, n. 663, art. 17; legge 26 luglio  1975,  n.  354,  art.
 14,  terzo  comma inserito, dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663, art.
 2).
 (Cost., artt. 3, 13 e 24).
(GU n.46 del 15-11-1989 )
                      IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
   Con  decreto  in data 9 dicembre 1988 il magistrato di sorveglianza
 di S. Maria Capua Vetere concedeva al detenuto Pietropaolo Antonio un
 permesso  premiale ( ex art. 30- ter l.p.) della durata di giorni sei
 prescrivendogli "l'obbligo di presentarsi ai  carabinieri  del  luogo
 per  il  visto  arrivare  e  partire nonche' per il visto giornaliero
 delle ore 11,30 e 19,30 e di rincasare entro le ore 21".
    Il Pietropaolo, avviato in permesso alle ore 10,50 del 22 dicembre
 1988 faceva rientro in istituto alle ore 9,10 del 28 dicembre 1988.
    Con   decreto  del  25  gennaio  1989  lo  stesso  magistrato,  in
 conseguenza di una nota dei carabinieri, che riferivano  di  aver  il
 Pietropaolo tenuto un comportamento arrogante e molesto nei confronti
 di alcuni vicini, comportamento culminato nella sera del 27  dicembre
 1988  in un reato di danneggiamento, disponeva, a sensi dell'art. 53-
 bis della l.p., l'esclusione da computo  della  pena  di  sei  giorni
 trascorso dal Pietropaolo in permesso.
    Avverso  detto decreto proponeva tempestivo reclamo l'interessato.
    All'odierna  udienza  il  p.g.  e  la  difesa concludevano come da
 verbale.
    Prima  dell'entrata in vigore della legge 10 ottobre 1986, n. 663,
 era ritenuto pacificamente in giurisprudenza che il  tempo  trascorso
 dal   detenuto   o   dall'internato   in  permesso  o  licenza  fosse
 computabile, ad ogni effetto, nella durata della  misura  restrittiva
 della liberta'.
    L'art.  53-  bis  della l.p., inserito dall'art. 17 della legge n.
 663/1986, ha  legislativamente  affermato  il  principio.  "Il  tempo
 trascorso  dal  detenuto  o  dall'internato  in permesso o licenza e'
 computato a ogni effetto nella durata delle misure restrittive  della
 liberta'". Aggiunge che, in caso "di mancato rientro o di altri gravi
 comportamenti da cui risulta che il soggetto  non  si  e'  dimostrato
 meritevole   del  beneficio",  il  magistrato  di  sorveglianza  puo'
 decidere l'esclusione dal computo di tale tempo con decreto motivato.
    Avverso il decreto e' ammesso reclamo al tribunale di sorveglianza
 che provvede con ordinanza in camera di consiglio entro dieci giorni.
    Il  procedimento  si  svolge con la partecipazione del difensore e
 del p.g. mentre all'interessato e' riconosciuta la sola  facolta'  di
 presentare  memorie  (art.  14-  ter  l.p. inserito dall'art. 2 della
 legge n. 663/1986).
    L'istituto,   cosi'   come  legislativamente  strutturato,  sembra
 presentare aspetti, sia sotto il profilo sostanziale che procedurale,
 di dubbia costituzionalita'.
    La  premessa  e' che il tempo trascorso dal soggetto in permesso o
 in licenza non e' tempo vissuto in liberta'. Permesso e  licenza  non
 interrompono l'esecuzione della pena.
    Per  i  permessi  (artt.  30  e  30-  ter  l.p.)  il magistrato di
 sorveglianza deve adottare le cautele del caso (art. 61 regolamento e
 art. 61-bis, inserito dall'art. 17 del d.P.R. 18 maggio 1989, n. 248)
 che prevedono,  tra  l'altro,  la  possibilita'  che  il  detenuto  o
 l'internato  sia scortato per tutto o parte del tempo del permesso e,
 nel caso di permesso di durata superiore alle  dodici  ore,  che  gli
 venga  imposto  l'obbligo  di  trascorrere  la  notte  in un istituto
 penitenziario.
    Di  norma, i magistrati di sorveglianza prescrivono al detenuto di
 tenere contatti piu' o meno costanti con la forza pubblica e  di  non
 allontanarsi dal domicilio almeno per alcune ore della giornata, come
 nel caso in esame.  Sicche'  il  tempo  trascorso  in  permesso  puo'
 oscillare  tra  una  forma  di  detenzione  domiciliare (permesso con
 divieto assoluto  di  allontanarsi  dal  domicilio  durante  l'intera
 durata  del  permesso);  di  semiliberta'  (obbligo di trascorrere la
 notte in un istituto penitenziario); di liberta'  vigilata  (permesso
 con  divieto  di  allontanarsi  dal domicilio durante alcune ore e di
 tenere costanti contatti con le autorita' di pubblica sicurezza).
    E'  evidente  che ciascuna di tali situazioni e' piu' prossima, se
 non proprio corrispondente, a quella di una misura  limitativa  della
 liberta'  che  a  quella  della  liberta',  senza  con  cio' prendere
 posizione sul  quesito  portato  di  recente  all'esame  della  Corte
 costituzionale,  sul  se  il  permesso  premiale  sia esso stesso una
 misura alternativa e,  quindi,  come  tale  un  modo  sostitutivo  di
 esecuzione  della  pena  (Ord.  trib.  sorveglianza  Brescia  del  22
 novembre 1988).
    Per quanto riguarda le licenze ai semiliberi ed agli internati, il
 discorso e' ancora piu' semplice perche' il condannato e  l'internato
 durante la licenza sono sottoposti al regime della liberta' vigilata,
 secondo comma art. 52 e quarto comma art. 53 l.p.
    Per  il  codice  Rocco  la  pena  aveva  uno  scopo  precipuamente
 retributivo.
    Il  terzo  comma dell'art. 27 della Costituzione ha evidenziato il
 fine rieducativo. Dalla norma la Corte  costituzionale  (sentenza  n.
 12/1966)  ha  fatto discendere l'obbligo per il legislatore di tenere
 costantemente di mira tale finalita' e  di  disporre  tutti  i  mezzi
 idonei a realizzarla. L'espiazione, pertanto, si risolve in una forma
 di rieducazione concorrente con la funzione afflittiva.
    Esiste un dovere dello Stato di rieducare al quale e' correlato un
 diritto alla rieducazione  che  se  realizzato  avra'  influenza  sul
 successivo svolgimento della esecuzione.
    Il  contenuto  centrale  della  pena  detentiva,  a ben vedere, e'
 costituito dall'isolamento del condannato dai consociati,  isolamento
 che  opera  direttamente  sul  diritto  alla  libera circolazione sul
 territorio come fatto di elezione di dimora e con conseguente divieto
 di electio amici ed electio societatis.
    Tutte  le altre rimozioni di liberta', alle quali il condannato e'
 soggetto, sono conseguenza di una stretta connessione che il  divieto
 di  libera  amotio  ha  con  le  modalita'  operative  necessarie per
 l'esercizio dei relativi diritti.
    Tra  le  liberta'  indirettamente  compresse ve ne sono alcune che
 sono ritenute dallo stesso legislatore utili alla rieducazione quali,
 ad  esempio,  l'affectio  familiare,  gli  interessi  culturali  e di
 lavoro.
    Il  problema  e' quello di armonizzare la risposta punitiva con la
 finalita' rieducativa che  sembrano  contrastanti  e  che  per  certi
 aspetti appaiono inconciliabili.
    Sull'affermato diritto al riconoscimento dell'effetto positivo del
 grado di rieducazione  raggiunto,  il  legislatore  ha  costruito  il
 sistema delle misure alternative o sostitutive della pena mediante il
 quale e' consentito il recupero di livelli di liberta', ab initio con
 la  pena  compressi,  come  conseguenza  del  livello di rieducazione
 sortito.
    Da  qui  la  distinzione  tra misure privative e misure limitative
 della liberta' (vedi titolo della legge penitenziaria).
    Le  prime  misure che consentono al condannato di recuparere quote
 di liberta' sono i  permessi,  le  licenze,  l'ammissione  al  lavoro
 all'esterno.
    Questa  categoria  di  provvedimenti  favorisce il riacquisto, per
 prime, di quote di quelle liberta' che il legislatore  ritiene  utili
 ai fini della rieducazione.
    Colui   che   ne  usufruisce  permane  pero',  in  uno  status  di
 esecuzione, in uno status nel quale  l'afflittivita'  della  pena  e'
 piu' limitata rispetto alla detenzione piena ma integra pur sempre un
 modo sia pure diverso, di espiazione.
    Tanto  premesso,  deve  concludersi  che  nel  momento  in  cui il
 magistrato di sorveglianza, ed eventualmente, in sede di  reclamo  il
 tribunale,   accertato   "il   mancato   rientro"   o   "altri  gravi
 comportamenti dai quali risulta che il soggetto non si e'  dimostrato
 meritevole  del beneficio" devono determinare quale parte del periodo
 di tempo  trascorso  in  permesso  od  in  licenza  non  deve  essere
 computato  come  pena  espiata.  In altri termini devono accertare in
 quale momento si e'  interrotta  l'esecuzione  della  pena  inflitta,
 esecuzione,  e'  bene  ricordare, che continua ininterrotta nel corso
 dei permessi, licenze, misure  alternative  e  quindi,  stabilire  la
 durata dell'interruzione che va aggiunta alla scadenza prefissata.
    Ha  ripetutamente  affermato  la  Corte  costituzionale  (vedi per
 ultima  sentenza  n.  282/1989)  che  "non  e'  consentito,  in  sede
 esecutiva,  superare l'entita' della pena detentiva determinata dalla
 sentenza di condanna". Percio', il  tribunale  di  sorveglianza,  nel
 revocare  la  liberazione  condizionale  o  l'affidamento in porva al
 servizio sociale e' tenuto a quantificare  la  "residua"  pena;  deve
 sottrarre,  dalla  pena  detentiva inflitta in sede di cognizione, il
 concreto carico afflittivo subito dal condannato durante l'espiazione
 della misura alternativa, prima della verificazione della causa della
 revoca. "E' quasi superfluo aggiungere che, a seconda che la causa di
 revoca  sia  intervenuta  poco  dopo  l'inizio o quasi al termine del
 prestabilito periodo deve variare, con la determinazione del concreto
 peso limitativo della liberta' subito dal condannato, la quantita' di
 pena detentiva da sottrarre dalla durata della stessa pena  stabilita
 dalla sentenza di condanna". Corte costituzionale n. 282/1989.
    Il  problema  che  dal  collegio viene sollevato non differisce da
 quello risolto cosi' lucidamente dalla Corte.
    Il  soggetto  in  licenza  -  semilibero o internato - nel periodo
 trascorso  in  licenza  e'  sottoposto  alla  liberta'  vigilata;  il
 detenuto  in  permesso  e',  di norma, sottoposto ad un regime ancora
 piu' restrittivo.
    L'automatismo  della  norma (art. 53- bis) che esclude dal computo
 della pena, per il mancato rientro o  per  il  verificarsi  di  altri
 gravi  comportamenti,  tutto  il  periodo trascorso in permesso od in
 licenza senza che si possa tener conto del  carico  di  afflittivita'
 imposto  e  sopportato,  e del momento in cui e' intervenuto il fatto
 che ha provocato l'interruzione della pena, finisce per dare luogo ad
 un  aumento  della sanzione penale, determinata in sede di cognizione
 che "non puo', in nessun caso, essere  oltrepassato  (spostato  verso
 l'alto)   per  fatti  realizzatisi  ex  post"  (Corte  costituzionale
 sentenza n. 282/1989).
    Per   le   ragioni   esposte   questo   tribunale   ritiene,   non
 manifestamente infondata l'opinione che il citato art. 53- bis l.p. -
 inserito  dall'art.  17  della legge 10 ottobre 1986, n. 663 -, nella
 parte in cui  non  consente  alla  magistratura  di  sorveglianza  di
 determinare  quanta  parte  del  periodo  trascorso  in permesso o in
 licenza debba ritenersi come pena espiata, sia in contrasto  con  gli
 artt. 3 e 13 della Costituzione.
    I dubbi di costituzionalita' che il collegio nutre sulla struttura
 dell'istituto, non  si  limitano  alle  disposizioni  di  merito  ma,
 investono anche il rito.
    Il  procedimento di sorveglianza e' regolato dal capo II bis della
 legge penitenziaria n. 354/1975, aggiunto dall'art. 10 della legge 12
 gennaio 1977, n. 1, e modificato dalla legge n. 663/1986.
    E'  un procedimento dalla indiscussa natura giurisdizionale (vedi,
 tra le altre, Cass. 14 maggio 1984, Romano in Giust. pen. 1983',  III
 c.  293  m. 281; Cass. 21 febbraio 1984, Didona, in Giust. pen. 1984,
 c. 554, Cass. 11 marzo 1983 in Riv.  pen.  1983,  p.  1015;  Cass.  6
 aprile  1988,  Zaccaria,  in  Giust.  pen.  1988, III, c. 296) che si
 svolge con le garanzie del  contraddittorio  e  si  conclude  con  un
 provvedimento soggetto ad impugnazione.
    L'oggetto  principale,  nei giudizi davanti al tribunale, riguarda
 la modifica e la estinzione  di  una  situazione  afflittiva  cui  il
 soggetto   e'  sottoposto  in  esecuzione  di  una  condanna  a  pena
 detentiva. E' diretto, pertanto, a modificare lo status del  soggetto
 consentendogli di riacquistare quote di liberta' in rapporto ai gradi
 di rieducazione raggiunti.
    Si   articola:   in   un   invito,   che  indicata  l'oggetto  del
 procedimento, all'interessato ad esercitare la facolta'  di  nominare
 un  difensore;  alla  nomina  di  un difensore di uffico se non viene
 nominato  quello  di  fiducia;  alla  notificazione  di  un   avviso,
 all'interessato, al p.g. e al difensore del giorno della trattazione.
    All'udienza,  che si svolge con il rito camerale, l'interessato ha
 diritto di intervenire personalmente, assistito dal difensore e  puo'
 concorrere  all'acquisizione  dei  documenti  ed all'assunzione delle
 prove. Per effetto di poteri attribuitigli (art. 71-bis, terzo comma,
 l.p.  "...  necessari accertamenti...") l'organo di sorveglianza puo'
 tra l'altro, assumere informazioni,  acquisire  documenti,  ascoltare
 testimoni,  procedere  a  perizie, ispezioni, ricognizioni, confronti
 esperimenti giudiziali,  nel  rispetto  delle  garanzie  proprie  del
 processo di cognizione.
    Il  procedimento in esame, invece, e' introdotto dal magistrato di
 sorveglianza che, con decreto motivato (art. 53- bis) dispone la  non
 computabilita'  nella pena scontata del periodo di tempo trascorso in
 permesso o licenza. Avverso il decreto  l'interessato  puo'  produrre
 reclamo  al  tribunale  nel  termine  di  giorni  dieci. Il tribunale
 provvede nell'ulteriore termine di giorni dieci. Il  procedimento  si
 svolge  con  la partecipazione del difensore e del p.g. L'interessato
 puo' presentare memorie; non ha diritto di partecipare all'udienza.
    Il  magistrato  di  sorveglianza  che ha emesso il decreto, non fa
 parte del collegio che decide sul reclamo (art. 14- ter l.p.).
    Nel  raffronto  tra  le  due  procedure  si  riscontrano  numerose
 differenze, alcune delle quali di rilevante spessore.
    Il procedimento generale, di norma (fatta eccezione per le ipotesi
 di revoca) e' finalizzato al riacquisto da parte dell'interessato  di
 quote  di  liberta',  se  non  proprio  della  liberta'  (liberazione
 anticipata).
    Potrebbe  percio'  dirsi  che  tendenzialmente e' predisposta alla
 emanazione di provvedimenti a favore. Il  secondo,  invece,  consente
 l'interruzione dell'esecuzione e quindi, sostanzialmente e' diretto a
 prolungare  il  termine  di  scadenza  dell   pena.   Tende   ad   un
 provvedimento in danno.
    Il  procedimento  di  sorveglianza  generale si configura (eccetto
 sempre le ipotesi di revoca) come un procedimento  sul  detenuto,  il
 procedimento  de quo e' invece ed anzitutto un procedimento sul fatto
 cioe', sui comportamenti che il magistrato  di  sorveglianza  ritiene
 abbiano  dato causa alla interruzione della esecuzione. L'oggetto del
 procedimento, pertanto, e' per molti versi simile al procedimento  di
 cognizione.  Da  cio'  l'attribuzione  al  giudice di un ampio potere
 discrezionale sia nell'assunzione che nella valutazione dei mezzi  di
 prova.
    Ebbene,  a  fronte  di  tali  premesse  e' proprio colui che viene
 sottoposto  ad  un  giudizio  che  puo'  sfociare  in  una  decisione
 restrittiva    della    sua   liberta'   che   incontra   limitazioni
 nell'esercizio del diritto di difesa garantito dall'art. 24,  secondo
 comma, della Costituzione.
    Non   diversamente   da   quello   generale,  e'  un  procedimento
 giurisdizionale anche se, come il  primo,  e'  temperato  dal  rigore
 camerale.
    E'  un procedimento camerale che si conclude con atto decisionale,
 che pu' assumere  il  carattere  della  definitivita'  potenzialmente
 destinato a produrre effetti limitativi sulla liberta' personale.
    La  circostanza  che  trattasi  di  procedimento  camerale  che si
 conclude  con  atto  "decisionale"  e  non   "interlocutorio"   rende
 obbligatorio,   secondo   la  giurisprudenza  consolidata  (vedi,  in
 particolare, quella relativa al procedimento per l'applicazione delle
 misure di sicurezza, che puo' ritenersi l'istituto il piu' prossimo a
 quello in esame, Cass. pen., prima sezione, 7 ottobre 1987, in giust.
 pen.  1988,  p.  III  pag.  88, Cass. penale, sezione prima 14 aprile
 1986, giust. pen. 1987 p. III, pag. 307,  Cass.  pen.  prima  sezione
 sentenza  17  aprile 1986 Giust. pen. 1987, p. III pag. 307; sentenza
 prima sezione pen. Cass. 24 maggio 1984 in giust. pen.  1985  p.  III
 pag. 94) il rispetto del pieno contraddittorio. Invero, solamente nei
 procedimenti camerali che si concludono con decisioni  interlocutorie
 puo' riscontrarsi un contraddittorio attenuato.
    Il  contraddittorio  pieno  presuppone: il decreto di citazione la
 contestazione  dei  fatti,  la  possibilita'  per  l'interessato   di
 partecipare all'udienza e di concorrere all'assunzione della prova.
    Come  abbiamo  gia' detto, il procedimento e' promosso con decreto
 motivato del magistrato di sorveglianza nel quale vengono  esposti  i
 fatti  che giustificano la decisione di interruzione della esecuzione
 con la conseguente non computazione, come pena espiata, di  tutto  il
 periodo di tempo trascorso in permesso o licenza.
    Avverso   il   decreto  l'interessato  puo'  proporre  reclamo  al
 collegio. La norma sembra configurare un  tipo  di  procedimento  con
 contraddittorio  differito  ed  eventuale  nel  quale si riscontra la
 particolarita' che il contraddittorio eventuale  non  si  costituira'
 davanti  allo  stesso  giudice bensi' davanti al collegio al quale e'
 attribuita, in unico grado di merito,  la  competenza  funzionale  ad
 emettere  provvedimenti  che  influiscono  su  una  pena detentiva in
 esecuzione.
    L'idoneita' del decreto a divenire definitivo e l'incompatibilita'
 del magistrato che lo  ha  prununziato  a  far  parte  del  tribunale
 chiamato  a  decidere sul reclamo (nel rispetto del principio secondo
 il quale lo stesso giudice non  puo'  concorrere  a  pronunziare  due
 giudizi   di  merito  sullo  stesso  fatto,  vedi  art.  61  c.p.p.),
 convalidano l'opinione che trattasi di  procedimento  giurisdizionale
 fin dalla prima fase.
    All'interessato,  pero',  e'  negato  il  diritto  di  partecipare
 all'udienza, che si svolge alla presenza del  difensore  e  del  p.g.
 Deve  limitarsi  a  presentare memorie. In sostanza, nel giudizio sul
 reclamo  viene  garantita  la  piena  difesa  tecnica,   non   quella
 materiale.
    La  Corte  di  cassazione,  sezione  prima,  sentenza  2341 del 12
 novembre 1988 (cc. 24 ottobre 1988) Riv. 179663, ha  giustificato  la
 norma  ed  ha  dichiarato  "manifestamente  infondata la questione di
 legittimita' costituzionale dell'art.  14-  ter  l.p.,  in  relazione
 all'art.  24  della  Costituzione,  nella  parte  in cui non permette
 l'autodifesa dell'interessato mediante la sua comparizione  personale
 davanti  al  tribunale.  Tale  diritto,  invero  -  aggiunge - non e'
 precluso dalla disciplina in esame la quale consente la presentazione
 di  memoria  da  parte del difensore e del detenuto personalmente. Si
 verte, quindi, in un caso di disciplina delle modalita' di  esercizio
 del   diritto   di  difesa  che  il  legislatore  in  relazione  alla
 peculiarita' del procedimento puo' discrezionalmente stabilire".
    La citata decisione, emessa in relazione ad un procedimento avente
 per oggetto un provvedimento di sorveglianza particolare, non  sembra
 posssa  ritenersi estensibile ed appagante nel caso che ci interessa.
    Oggetto   del   procedimento  e'  l'accertamento  di  un  "fatto".
 L'interessato puo' contestare il "fatto" nel reclamo e nelle memorie.
 Orbene,  non  si puo' escludere che nel roso dell'udienza sopravvenga
 l'opportunita', la necessita' di assumere  informazioni  o  prove  ad
 integrazione  o  riscontro  degli  elementi gia' acquisiti. In simili
 eventualita' (nel caso in esame leggi  controllo  sulle  informazioni
 dei  carabinieri)  l'assenza dell'interessato, che e' l'uico in grado
 di contestare circostanze che lo riguardano personalmente, si traduce
 in una sostanziale negazione del diritto di difesa.
    E  non  ci riesce di intravedere nell'istituto aspetti "peculiari"
 atti  a  giustificare  un'attenuazione  del  contraddittorio  che  si
 traduce nel divieto per l'interessato di concorrere all'assunzione di
 una prova in grado di provocare  l'alterazione  del  principio  della
 continuita' della esecuzione e quindi, l'aggravamento della pena.
    Il sistema, importa la violazione:
      dell'art.  24,  secondo comma, della Costituzione che garantisce
 il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento anche  in
 quelli che attengono all'esecuzione (e' principio indiscusso);
      dell'art.  3 della stessa Costituzione che garantisce la parita'
 dei cittadini  davanti  alla  legge,  laddove  si  consideri  che  il
 procedimento  di  sorveglianza  generale  che, come sopra esposto, e'
 diretto  all'emissione  di  provvedimenti   in   favore,   garantisce
 all'interessato  (che  puo'  presenziare  alla udienza e quindi, puo'
 partecipare all'assunzione della prova)  un  piu'  ampio  diritto  di
 difesa  di  quello che l'art. 14- ter - in relazione all'art. 53- bis
 l.p. - garantisce all'interessato nel corso di un procedimento che e'
 finalizzato in danno.
                                P. Q. M.
    D'ufficio,  ritenutane  la  rilavanza ai fini della decisione e la
 non manifesta infondatezza, letti gli artt. 134 della Costituzione  e
 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Sospende il giudizio ed ordina la remissione degli atti alla Corte
 costituzionale perche' controlli la legittimita' costituzionale:
       a)  dell'art.  53-  bis  della  legge  penitenziaria,  inserito
 dall'art. 17 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, in  relazione  agli
 artt. 3 e 13 della Costituzione, nella parte in cui non consente alla
 magistratura di sorveglianza di determinare in quale misura il  tempo
 trascorso in permesso o licenza, prima dell'intervento della causa di
 interruzione dell'esecuzione, debba ritenersi pena espiata;
       b)  dell'art.  14-ter,  terzo comma, della legge penitenziaria,
 inserito  dall'art.  2  della  legge  10  ottobre   1986,   n.   663,
 limitatamente  al  richiamo  che  ne  fa  il  citato  art. 53-bis, in
 relazione agli artt. 24, secondo  comma,  e  3,  della  Costituzione,
 nella  parte  in  cui  non  prevede  il  diritto  dell'interessato  a
 partecipare all'udienza davanti al tribunale;
    Ordina   che   la   presente   sia  notificata  all'intessato,  al
 procuratore generale di  Napoli,  al  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri  e  comunicata  ai  Presidenti del Senato e della Camera dei
 deputati.
                   Il presidente: (firma illeggibile)

 89C1108