N. 543 SENTENZA 30 novembre - 14 dicembre 1989

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Coniugi - Separazione personale - Appello avverso le sentenze
 pubblicate dopo l'introduzione della nuova normativa - Decisione in
 camera di consiglio - Violazione del diritto di difesa Richiamo alla
 giurisprudenza della Corte (ordinanza n. 748/1988,  sentenze nn.
 103/1985, 202/1975, 119/1974, 126/1971, 16/1970, 122/1966, 5/1965,
 46/1957) - Discrezionalita' legislativa - Non fondatezza.
 
 (Legge 6 marzo 1987, n. 74, artt. 8, dodicesimo comma, e 23, terzo
 comma).
 
 (Cost, artt. 3, 24 e 101).
(GU n.51 del 20-12-1989 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Francesco SAJA;
 Giudici:  prof.  Giovanni  CONSO,  prof.  Ettore  GALLO,  dott.  Aldo
 CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco  GRECO,  prof.
 Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof.
 Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE,  prof.  Vincenzo
 CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
 ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  degli artt. 8, comma
 dodicesimo, e 23, comma terzo, della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove
 norme  sulla  disciplina  dei  casi  di  scioglimento di matrimonio),
 promosso con  ordinanza  emessa  il  15  novembre  1988  dalla  Corte
 d'appello  di  Trento  nel  procedimento civile vertente tra Pirhofer
 Karl e Janser Siglinde Elisabeth in Pirhofer, iscritta al n. 186  del
 registro  ordinanze  1989 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
 Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell'anno 1989;
    Visto  l'atto  di  costituzione di Pirhofer Karl nonche' l'atto di
 intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del  5 luglio 1989 il Giudice
 relatore Vincenzo Caianiello;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Nel  corso  di  un  giudizio  di  separazione personale fra
 coniugi, la Corte d'appello di  Trento,  con  ordinanza  in  data  15
 novembre  1988  (r.o.  n.  186  del  1989), ha sollevato questione di
 legittimita' costituzionale  dell'art.  4,  comma  dodicesimo,  della
 legge  1›  dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento
 del matrimonio), come sostituito dall'art.  8  della  legge  6  marzo
 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di
 matrimonio), nonche'  dell'art.  23,  comma  terzo,  di  quest'ultima
 legge, nella parte in cui prevedono che l'appello avverso le sentenze
 di separazione personale, pubblicate dopo l'entrata in  vigore  della
 nuova normativa, e' deciso in camera di consiglio.
    Ad avviso del giudice a quo, l'introduzione del rito camerale, che
 non consente di utilizzare quel complesso  di  norme  che,  nel  rito
 contenzioso ordinario, rappresentano altrettante garanzie processuali
 a tutela del diritto di difesa costituzionalmente garantito, potrebbe
 giustificarsi  solo  in  presenza di effettive e superiori ragioni di
 giustizia.  Tale  ragioni,  tuttavia,   non   sussisterebbero   nella
 fattispecie  normativa in esame, in quanto l'esigenza di imprimere al
 giudizio  di  appello  una  maggiore  celerita'  ben  poteva   essere
 egualmente   soddisfatta,   nell'ambito  delle  scelte  discrezionali
 spettanti al legislatore, mediante l'introduzione di  una  disciplina
 analoga a quella prevista per le cause di lavoro. Sotto tale profilo,
 pertanto, le  norme  impugnate  violerebbero  il  diritto  di  difesa
 sancito  dall'art.  24  della  Costituzione dal momento che la deroga
 alle  generali  norme  processuali  poste  a  tutela   del   predetto
 principio,  dovrebbe  essere  consentita  solo  in  casi di "assoluta
 eccezionalita'", nella fattispecie insussistenti.
    Per  altro  verso,  le  disposizioni  denunciate  si porrebbero in
 contrasto, in assenza di valide ragioni giustificatrici, anche con il
 generale  principio  della  pubblicita' delle udienze (art. 101 della
 Costituzione), strumento di controllo della  regolarita'  processuale
 e, quindi, componente essenziale dello stesso diritto di difesa.
    Un'ulteriore  ed  ultima  censura viene poi formulata in relazione
 all'art. 3 della Costituzione, sostenendosi  che  l'introduzione  del
 rito  camerale  in una fase processuale delicata ed importante, quale
 quella che rende definitivo l'apprezzamento di merito, violerebbe  il
 principio  di  ragionevolezza,  determinando,  altresi',  un'illogica
 discriminazione rispetto al giudizio di primo grado e  di  cassazione
 che, nella stessa materia, si svolgono con il rito ordinario.
    2. - Delle parti private, una sola si e' costituita peraltro fuori
 termine,  mentre,  l'Avvocatura  generale  dello  Stato,  intervenuta
 tempestivamente,  ha preliminarmente osservato che le norme impugnate
 prevederebbero la camera di consiglio per la sola  "fase  decisoria",
 donde l'impossibilita' di ledere il diritto di difesa delle parti con
 la semplice esclusione  dell'udienza  collegiale  e  delle  eventuali
 comparse conclusionali.
    La  questione, poi, risulterebbe comunque infondata, in quanto, ad
 avviso dell'interveniente, l'introduzione del rito camerale anche non
 limitatamente  alla  fase  decisoria,  non  sarebbe,  di  per se', in
 contrasto con l'art. 24 della Costituzione, come, del  resto,  questa
 Corte avrebbe gia' ritenuto in relazione a fattispecie analoghe.
                         Considerato in diritto
    1.  -  E' stata sollevata questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 4, comma dodicesimo, della legge 1› dicembre 1970, n.  898,
 come  sostituito dall'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74, nonche'
 dell'art. 23, comma terzo, di quest'ultima legge, nella parte in  cui
 prevedono che l'appello avverso le sentenze di separazione personale,
 pubblicate dopo l'entrata in vigore della nuova normativa, e'  deciso
 in camera di consiglio.
    Si  sostiene nell'ordinanza di rimessione che il rito camerale non
 consentirebbe di utilizzare quel complesso di  norme  che,  nel  rito
 contenzioso ordinario, rappresentano altrettante garanzie processuali
 a tutela  del  diritto  di  difesa  costituzionalmente  garantito  e,
 quindi,  la  loro  attenuazione  potrebbe essere giustificata solo in
 presenza di effettive e  superiori  ragioni  di  giustizia.  Mancando
 queste   ragioni   dovrebbe   ravvisarsi  il  contrasto  delle  norme
 denunciate con l'art. 24 della Costituzione, mentre  altro  contrasto
 sussisterebbe   anche  in  riferimento  agli  artt.  3  e  101  della
 Costituzione,  non  apparendo  ragionevole  l'introduzione  del  rito
 camerale in una fase processuale delicata ed importante, con riguardo
 alla quale si verrebbe a  determinare  una  illogica  discriminazione
 rispetto  al giudizio di primo grado ed a quello di cassazione che si
 svolgono con il rito ordinario.
    2. - La questione non e' fondata.
    In  relazione al rilievo formulato dalla Avvocatura Generale dello
 Stato secondo cui le norme denunciate  prevederebbero  la  camera  di
 consiglio  per la sola fase decisoria, onde verrebbero meno i profili
 di  illegittimita'  costituzionale  denunciati,  va   preliminarmente
 precisato  che,  ad avviso di questa Corte, il rito camerale riguarda
 invece  l'intero  giudizio  di  appello,  altrimenti  non  potrebbero
 ritenersi  soddisfatte quelle esigenze, enunciate nella relazione che
 accompagna la legge 6 marzo 1987, n. 74, di celerita' processuale che
 il rito contenzioso ordinario non sarebbe in grado di assicurare. Pur
 ritenendo esteso il carattere camerale alla intera fase del  giudizio
 di   appello,   non  possono  tuttavia  condividersi  le  censure  di
 illegittimita' costituzionale prospettate dal giudice a quo.
    Secondo   la   costante   giurisprudenza   di   questa  Corte,  il
 procedimento camerale non e' di per se' in contrasto con  il  diritto
 di  difesa,  in  quanto  l'esercizio  di  quest'ultimo  e' variamente
 configurabile dalla legge, in relazione alle peculiari  esigenze  dei
 vari processi "purche' ne vengano assicurati lo scopo e la funzione",
 cioe' la garanzia del contraddittorio, in modo che sia  escluso  ogni
 ostacolo  a  far  valere le ragioni delle parti (ordinanza n. 748 del
 1988, sentenze nn. 103 del 1985, 202 del 1975, 119 del 1974, 126  del
 1971, 16 del 1970, 122 del 1966, 5 del 1965, 46 del 1957).
    L'adozione  della  procedura camerale, anche nei casi in cui si e'
 in presenza di elementi  della  giurisdizione  contenziosa,  risponde
 dunque  a  criteri di politica legislativa, inerenti alla valutazione
 che  il  legislatore  compie   circa   l'opportunita'   di   adottare
 determinate   forme   processuali  in  relazione  alla  natura  degli
 interessi da regolare ed, in quanto tale, sfugge quindi al  sindacato
 di  questa Corte "nei limiti in cui, ovviamente, non si risolve nella
 violazione di specifici precetti costituzionali e non sia viziata  da
 irragionevolezza"  (ordinanza  n.  748 del 1988 e sentenza n. 142 del
 1970).
    Nella  specie  il  procedimento  camerale, caratterizzato, come e'
 noto, da una fase istruttoria solo eventuale e comunque piu'  rapida,
 in  quanto  non  formale - purche', quando si tratta di giurisdizione
 contenziosa, siano osservati i principi sulla prova propri di essa  -
 appare  previsto  in  ragione  delle  esigenze  di  celerita'  che il
 legislatore ha dichiarato di voler perseguire in un grado processuale
 in  cui, in determinate materie, l'istruttoria e' certamente semplice
 e al massimo avente carattere integrativo di quella gia' esperita  in
 primo  grado.  Aspetto  questo  che  e'  stato  tenuto  presente  dal
 legislatore, risultando (Relazione al Senato della 2a Commissione  in
 sede  referente) che la scelta e' stata sorretta dalla considerazione
 che "l'esperienza ha permesso infatti di constatare che i giudizi  in
 appello   sono,   nell'attuale   sistema,  i  piu'  lunghi,  pur  non
 modificando mai gli elementi di fatto acquisiti  nell'istruttoria  di
 primo grado". Cio' comunque non senza tenere conto che, non avendo il
 doppio grado di giudizio garanzia costituzionale (sentenze nn. 80 del
 1988,  78  del  1984  e  186  del  1980)  e,  quindi,  potendo essere
 addirittura soppresso quello di appello, a maggior ragione non appare
 in  contrasto  con  il diritto alla difesa ne' irragionevole che, pur
 addivenendosi  per  determinate  controversie,  al  mantenimento  del
 secondo  grado,  si  scelga un rito semplificato rispetto a quello di
 primo grado nel quale le  parti  hanno  gia'  avuto  possibilita'  di
 esplicare nel modo piu' completo la propria attivita' difensiva.
    In  proposito  va  sottolineato  che,  in  ogni  caso,  secondo la
 richiamata giurisprudenza, e' da escludere che ogni rito  processuale
 diverso  da quello ordinario possa, di per se', essere considerato in
 contrasto  con  l'art.  24  della  Costituzione,   e   cio'   perche'
 quest'ultimo rito non costituisce, come sembrerebbe invece ravvisarsi
 nella  prospettazione  del  giudice  a  quo,  l'unico  ed   esclusivo
 strumento  di  attuazione  della  garanzia  costituzionale. Una volta
 percio' verificato  che  il  procedimento  speciale  e  la  specifica
 disciplina  di volta in volta presa in considerazione non contrastano
 di per se' con lo scopo e la funzione del processo, la disciplina del
 rito   ordinario   non   puo'  assumere  il  carattere  di  normativa
 interposta.
    3.1.  -  Sulla base delle considerazioni di carattere generale che
 precedono, la scelta alternativa rispetto al procedimento  ordinario,
 specificamente  considerata,  non appare in contrasto con la garanzia
 costituzionale del  diritto  alla  difesa  dal  momento  che  risulta
 assicurato  il  principio  del  contraddittorio,  sia per la generale
 applicabilita' dell'art. 101 del  codice  di  procedura  civile,  sia
 perche',  in  grado di appello, il relativo giudizio non potrebbe non
 svolgersi che nei confronti dei medesimi soggetti che sono gia' stati
 parti nel giudizio di primo grado.
    Quanto   ai  termini  per  la  proposizione  dell'appello  non  si
 manifesta alcuna deroga ai principi  del  rito  ordinario  che  possa
 ritenersi  lesiva  del diritto ad appellare. Difatti, come ritiene la
 prevalente giurisprudenza anche piu' recente,  la  mancanza  di  ogni
 previsione  in  ordine  ad  essi, fa si che debbano osservarsi quelli
 propri delle impugnazioni delle  sentenze.  Tale  orientamento  trova
 ulteriore  conforto  nel rilievo che, nella specie, si e' in presenza
 di una sentenza emessa in un giudizio contenzioso  ordinario,  mentre
 la  circostanza  che l'appello debba seguire il rito camerale attiene
 alla forma da seguire,  senza  incidere  -  in  difetto  di  espresse
 disposizioni derogative - sui termini da osservare.
    Neppure  puo'  ritenersi  violato  il diritto di prova, perche', a
 parte il considerare che  esso  ha  gia'  avuto  modo  di  esplicarsi
 compiutamente  nel giudizio di primo grado, va rilevato che anche nel
 rito camerale in appello e' possibile acquisire ogni specie di  prova
 precostituita   e   procedere  alla  formazione  di  qualsiasi  prova
 costituenda, purche' il relativo modo di assunzione  -  comunque  non
 formale nonche' atipico - risulti, da un lato, sempre compatibile con
 la natura camerale del procedimento, e, d'altro lato,  non  violi  il
 principio   generale   della  idoneita'  degli  atti  processuali  al
 raggiungimento del loro scopo (sentenza n. 238 del 1976). Inoltre  va
 osservato  che  in  un sistema istruttorio nel quale alla limitazione
 dell'iniziativa probatoria della parte corrisponde un  piu'  incisivo
 potere   ufficioso  del  giudice,  rimane  egualmente  assicurata  la
 possibilita' di accertamento dei fatti controversi.
    E'   da   ritenersi  poi  pienamente  garantita  l'assistenza  del
 difensore,  in  quanto  "e'  nel  sistema,  anche  a  proposito   dei
 procedimenti  speciali,  che  la  parte  si possa far rappresentare o
 comunque assistere da un difensore. Onde, in mancanza  di  una  norma
 che  vieti  detta  assistenza, questa si deve ritenere implicitamente
 ammessa e consentita" (sentenza n. 111 del 1972), il che  implica  la
 possibilita'  che,  qualora  lo  richieda,  il difensore possa essere
 sentito anche in modo non formale, comunque osservate le  regole  del
 contraddittorio.
   3.2.  -  Il  giudice  a  quo  sostiene poi che la carenza di tutela
 offerta dal rito camerale, rispetto a quello ordinario,  sarebbe  fra
 l'altro   dimostrata   dalla  mancanza  di  norme  che  prevedano  le
 impugnative incidentali e la specificita' dei motivi di impugnazione.
 Al  riguardo  e'  sufficiente  osservare  che  la locuzione usata dal
 legislatore, nell'art. 8, comma dodicesimo, della  legge  n.  74  del
 1987,  secondo  cui "l'appello e' deciso in camera di consiglio", se,
 da un canto, richiama il procedimento di cui all'art. 737 e  ss.  del
 codice    di    procedura   civile,   d'altro   canto   non   esclude
 l'applicabilita' di  quelle  norme  che  disciplinano  l'appello  nel
 processo ordinario, come ad esempio quelle sull'appello incidentale e
 sulla specificita' dei motivi  di  appello,  perche'  esse  non  sono
 incompatibili  con il rito camerale, ne' incidono sulla celerita' del
 giudizio. Quest'ultima esigenza il legislatore ha  inteso  perseguire
 con  una disciplina diretta essenzialmente alla fase istruttoria, che
 la specialita' del rito camerale consente di  svolgere  in  modo  non
 formale e con i poteri ufficiosi propri di esso.
    4.  -  Per  quel  che concerne infine il profilo di illegittimita'
 costituzionale prospettato con riferimento agli artt. 3 e  101  della
 Costituzione,  va  rilevato che l'esigenza perseguita dal legislatore
 di rendere piu' celere il grado di appello con una  fase  istruttoria
 semplificata   -   e   cio'  nella  constatazione,  desumibile  dalla
 esperienza, di una  sua  sostanziale  inutilita'  in  relazione  alla
 materia  da  giudicare - giustifica pienamente il diverso trattamento
 normativo che il legislatore ha voluto introdurre rispetto agli altri
 gradi  di  giudizio,  in  particolare per quel che riguarda il regime
 della pubblicita' delle udienze. Per questo aspetto, la Corte ha piu'
 volte  ribadito (sentenze nn. 212 del 1986, 12 del 1971, 25 del 1965)
 che  quello  della  pubblicita'  e'  un  principio   che   non   puo'
 considerarsi   assoluto,  ma  puo'  subire  eccezioni,  e  cio'  vale
 soprattutto in questo caso, in cui si intende perseguire un  migliore
 e piu' rapido funzionamento del processo.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione
 di legittimita' costituzionale degli artt. 8, comma dodicesimo, e 23,
 comma  terzo,  della  legge  6  marzo  1987, n. 74 (Nuove norme sulla
 disciplina dei casi di scioglimento  del  matrimonio)  sollevata,  in
 riferimento agli artt. 3, 24 e 101 della Costituzione, dalla Corte di
 appello di Trento con l'ordinanza indicata in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 30 novembre 1989.
                          Il Presidente: SAJA
                        Il redattore: CAIANIELLO
                        Il cancelliere: MINELLI
    Depositata in cancelleria il 14 dicembre 1989.
                Il direttore della cancelleria: MINELLI
 89C1300