N. 672 ORDINANZA (Atto di promovimento) 31 maggio 1989

                                 N. 672
 Ordinanza  emessa  il 31 maggio 1989 dalla corte d'appelo di Roma nei
 procedimenti  civili  riuniti  vertenti  tra  Manfredi   Goffredo   e
 Ministero delle Finanze ed altri
 Espropriazione   per   pubblico   interesse  -  Determinazione  delle
 indennita'  di  espropriazione  per  i  terreni  di   Capocotta   (ad
 integrazione   della  adiacente  tenuta  di  Castelporziano  gia'  in
 dotazione del Presidente della Repubblica) con richiamo all'art.   13
 della  legge  15 gennaio 1885, n. 2892 (media del valore venale e dei
 fitti coacervati dell'ultimo decennio o, in difetto,  dell'imponibile
 netto  agli  effetti  delle  imposte  sui terreni e sui fabbricati) -
 Violazione del principio di uguaglianza per la ingiustificata  deroga
 al   principio,   affermato   nella  giurisprudenza  della  Corte  di
 cassazione e della Corte costituzionale (v.  sentenze n. 5/1980 e  n.
 223/1983), della necessaria generalita' dei criteri di determinazione
 della  indennita'  di  espropriazione,  secondo  il  quale  non  puo'
 consentirsi  che beni con caratteristiche identiche o analoghe, o con
 caratteristiche diverse (perche'  per  es.  agricoli  o  edificatori)
 siano  indennizzati,  nella  prima  ipotesi,  diversamente  o,  nella
 seconda, egualmente, a seconda delle  finalita'  per  cui,  nei  vari
 casi, si procede all'espropriazione.
 (Legge 23 luglio 1985, n. 372, art. 5, quinto comma).
 (Cost., art. 3).
(GU n.2 del 10-1-1990 )
                           LA CORTE D'APPELLO
    Ha  pronunciato  la seguente ordinanza nella causa civile di prima
 istanza iscritta al n. 851 + 3245 di ruolo generale  per  gli  affari
 contenziosi   dell'anno  1988,  posta  in  deliberazione  all'udienza
 collegiale  del  24  maggio  1989,  vertente  tra  Manfredi  Goffredo
 elettivamente  domiciliato presso l'avv. Francesco Agati in Roma, via
 Claudio Monteverdi, 15, dal quale e' difeso e rappresentato  come  da
 procura a margine della citazione unitamente all'avv. Giuseppe Greco,
 opponente, contro:
      1) Ministero delle finanze, in persona del Ministro pro-tempore,
 rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato presso la
 quale e' domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12, opposti;
      2)  Intendenza di finanza di Roma, in persona dell'intendente di
 finanza, contumaci;
      3) Prefetto di Roma, contumaci.
    Oggetto: Opposizione alla stima di indennita' di esproprio;
    Esaminati  gli  atti del procedimento civile n. 851/88 r.g. avente
 ad oggetto l'opposizione alla stima di indennita' di espropriazione;
    Letti gli atti difensivi delle parti;
                             O S S E R V A
    1.  -  La  vicenda  espropriativa  che  forma oggetto del presente
 processo trae origine dalla  legge  23  luglio  1985,  n.  372,  che,
 all'art.  5,  dispone  che  alla dotazione immobiliare del Presidente
 della  Repubblica,  di  cui  all'art.   84,   ultimo   comma,   della
 Costituzione,  e'  conferita  la  tenuta di Capocotta ad integrazione
 della adiacente  tenuta  di  Castelporziano  gia'  in  dotazione  del
 Presidente  della  Repubblica  (prima  comma). Lo stesso art. 5, dopo
 avere stabilito che l'ampliamento della tenuta di  Castelporziano  e'
 dichiarato  di  pubblica utilita' e le relative opere sono dichiarate
 indifferibili e urgenti (secondo comma),  autorizza  l'espropriazione
 dei  beni  compresi  nell'area delimitata in base ai confini indicati
 nella stessa legge (terzo comma)  e  prescrive  che  l'indennita'  di
 espropriazione  e'  determiata  in  base  all'art.  13 della legge 15
 gennaio 1885, n. 2892 (quinto comma),  richiamando,  per  quanto  non
 diversamente  previsto, le norme di cui alla legge 25 giugno 1865, n.
 2359 (sesto comma).
    Con  l'opposizione, la cui cognizione e' attribuita a questa Corte
 dall'art. 5, ottavo comma, della citata legge  n.  372/85,  e'  stata
 solevata   la   questione   di   legittimita'   costituzionale  della
 disposizione contenuta nel quinto comma  dell'art.  5  che,  ai  fini
 della  determinazione dell'indennita' di esproprio, rende applicabili
 i criteri dettati dall'art. 13 della legge 15 gennaio 1885, n.  2892:
 quest'ultima  disposizione  stabilisce,  com'e noto, che l'indennita'
 dovuta ai proprietari degli immobili  espropriati  sara'  determinata
 sulla  media  del  valore  venale  e dei fitti coacervati dell'ultimo
 decennio o, in difetto,  dell'imponibile  netto  agli  effetti  delle
 imposte sui terreni e sui fabbricati.
    Premesso  che  la  questione e' sicuramente rilevante nel presente
 giudizio,   in   quanto   ha   diretta    e    immediata    influenza
 sull'applicazione  dei  criteri  in  base  ai  quali  deve liquidarsi
 l'indennita' di esproprio e, quindi, sulla definizione della causa di
 opposizione  alla  stima,  deve sottolinearsi che un primo profilo di
 incostituzionalita' e' stato prospettato con riferimento all'art. 42,
 terzo    comma,   della   Costituzione,   essendo   stato   sostenuto
 dall'opponente che  l'attribuzione  di  una  indennita'  inferiore  a
 quella  corrispondente  al valore di mercato dell'immobile risulta in
 contrasto con il  principio  costituzionale  sancito  dalla  predetta
 norma  secondo  cui  "la  proprieta'  privata  puo'  essere, nei casi
 preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi  di
 interesse generale".
    Il dubbio di incostituzionalita' non ha giuridica consistenza e la
 relativa questione e'  manifestamente  infondata  nei  termini  sopra
 enunciati.
    La  giurisprudenza  della  Corte  costituzionale  ha costantemente
 interpretato il termine "indennizzo", che figura nella citata  norma,
 in   termini   tali  da  escludere  che  esso  debba  necessariamente
 corrispondere al valore  venale  del  bene  espropriato,  secondo  il
 criterio  accolto  dall'art.  39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359.
 Gia' a partire dalla sentenza n. 61 del 25 maggio 1957, la  Corte  ha
 chiarito  che  la  necessita' di coordinazione col pubblico interesse
 comporta   che   l'indennizzo   non   puo'   significare    integrale
 risarcimento,  ma  soltanto il massimo di contributo e di riparazione
 che, nell'ambito degli  scopi  di  interesse  generale,  la  pubblica
 amministrazione  puo'  garantire  all'interesse privato: ditalche' e'
 rimessa al legislatore ordinario la valutazione comparativa  di  tali
 interessi  e  del  modo  in cui pervenire al massimo della rispettiva
 soddisfazione sulla base  della  ponderazione  di  elementi  tecnici,
 economici, finanziari, politici. E' stato, peraltro, precisato che il
 potere discrezionale del legislatore  ordinario  incontra  un  limite
 nell'esigenza   che  la  misura  dell'indennizzo  non  sia  puramente
 simbolica, atteso che in una siffatta  ipotesi  l'indennizzo  sarebbe
 sostanzialmente  inesistente  e la norma colliderebbe inevitabilmente
 con  il  precetto  contenuto  nell'art.   42,   terzo   comma   della
 Costituzione.
    I principi affermati nella sentenza n. 61/1957 sono stati ribaditi
 nella   successiva   produzione   giurisprudenziale    della    Corte
 costituzionale   con   la  quale  l'indentificazione  dell'ambito  di
 operativita' della garanzia che presidia il diritto  dell'espropriato
 e'  stata  compiuta  sottolineando la necessita' che l'indennizzo sia
 "congruo", "equo", "adeguato", "non irrisorio" (Corte  costituzionale
 9  luglio 1959, n. 41; 8 luglio 1969, n. 115; 24 giugno 1976, n. 155;
 6 dicembre 1977, n. 138).
    Gli sviluppi di tale linea interpretativa hanno condotto alla nota
 pronuncia  n.  5  del  30  gennaio  1980  con  cui,  nel   dichiarare
 l'illegittimita'  costituzionale delle norme contenute nella legge 22
 ottobre 1971, n. 865, che recepiscono il criterio del valore agricolo
 medio  per  la  determinazione dell'indennita' di esproprio, la Corte
 costituzionale   ha   precisato    che    "l'indennizzo    assicurato
 all'espropriato dall'art. 42, terzo comma, della Costituzione, se non
 deve costituire una integrale riparazione per la perdita subita -  in
 quanto  occorre coordinare il diritto del privato con l'interesse che
 l'espropriazione mira a realizzare - non puo' essere tuttavia fissato
 in  una  misura irrisoria o meramente simbolica ma deve rappresentare
 un serio ristoro", dovendo essere determinato  con  riferimento  alle
 caratteristiche  essenziali  e  alla  destinazione economica del bene
 espropriato.
    Le  medesime  linee  argomentative costituiscono il supporto delle
 piu'  recenti  decisioni  della  Corte  costituzionale  nelle   quali
 l'indicazione dell'esigenza insopprimibile del serio ristoro a favore
 del soggetto  che  subisce  l'espropriazione  e'  accompagnata  dalla
 precisazione   che   questo   non   deve   necessariamente   tradursi
 nell'attribuzione dell'integrale valore  effettivo  del  bene  (Corte
 costituzionale  21  dicembre 1985, n. 355; 30 luglio 1984, n. 231; 19
 luglio 1983, n. 223).
    2.  - La scelta del criterio per la determinazione dell'indennita'
 di esproprio degli  immobili  compresi  nella  tenuta  di  Capocotta,
 compiuta  con  l'art. 5, quinto comma, della legge 23 luglio 1985, n.
 372, non appare in contrasto con la disciplina  posta  dall'art.  42,
 terzo  comma,  della Costituzione a tutela del diritto all'indennizzo
 riconosciuto all'espropriato.
    Occorre  premettere  che non ha fondamento la censura rivolta alla
 legge n. 372/1985 che, facendo richiamo all'art. 13  della  legge  n.
 2892/1885  sul  risanamento di Napoli, sarebbe inficiata dal vizio di
 eccesso di potere legislativo  per  avere  ripristinato  disposizioni
 ormai  abrogate  (come,  appunto,  quella  per  Napoli)  e  per avere
 sovvertito l'ordine delle fonti del diritto,  determinando,  in  modo
 surrettizio  e  indiretto,  la  reviviscenza  di  quelle disposizioni
 mediante una legge che ad  esse  fa  riferimento  e  la  cui  vigenza
 presuppone.
    Anche  a  non  voler  tener  conto  della  disparita'  di opinioni
 esistente in dottrina sulla figura dell'eccesso di potere legislativo
 e   dell'estrema   cautela  riscontrabile  sullo  stesso  tema  nelle
 posizioni della giurisprudenza, non sembra dubbia l'insussistenza del
 vizio   denunciato  essendo  evidente  che  dal  sistema  su  cui  e'
 imperniata la gerarchia delle fonti del diritto non possono inferirsi
 limiti  che  precludano  al  legislatore ordinario di ripristinare la
 vigenza di norme gia' abrogate sia attraverso il fenomeno della  vera
 e  propria  reviviscenza  che  mediante  l'emanazione  di  una  nuova
 disciplina,  autonoma  nel  fondamento  formale  ancorche'  in  tutto
 ricalcata  sul contenuto di disposizioni precedentemente abrogate. In
 una  siffatta  situazione  potrebbe  configurarsi  una   ipotesi   di
 illegittimita'  costituzionale  soltanto  se  il  legislatore facesse
 rivivere norme gia' dichiarate incostituzionali dalla Corte,  essendo
 stato  chiarito  che dal primo comma dell'art. 136 della Costituzione
 deriva che "le decisioni di accoglimento hanno  per  destinatario  il
 legislatore  stesso,  al  quale,  e'  quindi,  precluso  non  solo il
 disporre che la norma dichiarata incostituzionale conservi la propria
 efficacia,   bensi'   il   perseguire   e  il  raggiugere,  anche  se
 indirettamente, esiti corrispondenti a quelli  gia'  ritenuti  lesivi
 della  Costituzione" (Corte costituzionale 19 luglio 1983, n. 223; 30
 maggio 1963, n. 73).
   L'art.   5,   quinto  comma,  della  legge  n.  372/1985  non  puo'
 considerarsi,   tuttavia,   inficiato   da   un   simile   vizio   di
 incostituzionalita'  in  quanto  i criteri dettati dall'art. 13 della
 legge 15 gennaio 1885, n. 2892, espressamente recepiti dalla predetta
 disposizione,  hanno  superato  il  vaglio  del  giudizio della Corte
 costituzionale e sono stati riconosciuti compatibili con il  precetto
 ex  art. 42, terzo comma, della Costituzione (Corte costituzionale 18
 febbraio   1960,   n.   5:   l'infondatezza   della   questione    di
 costituzionalita'  e' stata dichiarata, incidentalmente, anche con la
 sentenza n. 15 del 22 gennaio  1976  concernente  l'art.  14,  ultimo
 comma,  della  legge 28 luglio 1967, n. 641, che, nel disciplinare le
 espropriazioni relative all'edilizia scolastica e  universitaria,  ha
 richiamato   i  criteri  per  la  determinazione  dell'indennita'  di
 esproprio fissati dall'art. 13  della  legge  sul  risanamento  della
 citta' di Napoli).
    3.  -  Va  rilevato,  a questo punto, che dubbi sulla legittimita'
 costituzionale dell'art. 5, quinto comma, della legge n. 372/1985 non
 possono   essere   giustificati   neppure   attraverso   il  richiamo
 dell'indirizzo giurisprudenziale  col  quale  -  mediante  un'analisi
 ricostruttiva   del   vigente   sistema  normativo  risultante  dalle
 dichiarazioni di  incostituzionalita'  delle  norme  contenute  nella
 legge  n.  865/1971  -  e'  stato  stabilito  che  per  le  aree  con
 destinazione edificatoria l'indennita' deve  essere  liquidata  sulla
 base  del  valore  venale  del bene espropriato, secondo la normativa
 generale posta dall'art. 39 della legge  25  giugno  1965,  n.  2359:
 pertanto,   ad   avviso   dell'opponente,   nell'attuale   quadro  di
 riferimento normativo, dovrebbe considerarsi in conflitto con  l'art.
 42,  terzo  comma, della Costituzione qualsiasi disposizione di legge
 che determini la misura dell'indennita' di esproprio  in  un  importo
 inferiore a quello corrispondente al valore di mercato del bene.
    La  tesi  non  puo'  essere  condivisa  nell'impostazione  e negli
 sviluppi, in quanto muove dell'errato  presupposto  che  l'evoluzione
 giurisprudenziale   possa   avere   avuto  incidenza  innovativa  sul
 contenuto della  norma  sancita  dall'art.  42,  terzo  comma,  della
 Costituzione,   sino   al   punto  da  far  coincidere,  puramente  e
 semplicemente, l'indennita'  dovuto  all'espropriato  con  il  valore
 venale  del  bene:  questo,  cioe',  indicato  quale  unico  criterio
 indennitario dall'art. 39 della legge del 1865,  sarebbe  divenuto  -
 nell'attuale   sistema   del   "diritto   vivente"   -  un  principio
 costituzionale da cui il legislatore non potrebbe piu' discostarsi.
    Le argomentazioni esposte devono essere disattese per il fatto che
 confondono i  diversi  piani  sui  quali  sono  chiamati  ad  operare
 l'interprete  e  il  legislatore  e  trascurano  di tener conto della
 differente     valenza     giuridica     attribuita,      all'interno
 dell'ordinamento,  ai  rispettivi  interventi.  In particolare, e' da
 sottolineare che, a seguito delle pronunce di incostituzionalita' dei
 criteri  di  indennizzo  fissati  dalla  legge n. 865/1971, l'opzione
 interpretativa  compiuta  dalla   giurisprudenza   a   favore   della
 sopravvivenza della legge generale del 1865 e del criterio del valore
 venale da essa sancito costituisce  probabilmente  l'unica  soluzione
 possibile  per  l'interprete  al  fine  di superare i vuoti normativi
 prodottisi nel sistema in dipendenza  della  perdurante  inerzia  del
 legislatore,  essendo  interdette, in sede giurisdizionale, le scelte
 discrezionali ritenute piu' idonee  ad  assicurare  il  bilanciamento
 degli  interessi  in conflitto e a individuare il punto di equilibrio
 nel  quale  possano  essere  contemperati   l'interesse   individuale
 dell'espropriato e l'interesse generale sotteso alla funzione sociale
 della proprieta'.
    Tuttavia,   simili  scelte,  traducentisi  nella  possibilita'  di
 riconoscere un indennizzo inferiore al valore effettivo del bene, non
 possono  considerarsi  precluse  al  legislatore, come, del resto, ha
 piu' volte ribadito la stessa Corte  costituzionale,  anche  dopo  la
 fondamentale  pronuncia  del  1980,  quando  ha precisato, in termini
 espliciti, che "La  Corte  non  ha  mai  ritenuto,  ne'  intende  ora
 affermare,   che  il  serio  ristoro,  garantito  al  privato,  debba
 corrispondere all'integrale valore effettivo del  bene  espropriato",
 sottolineando  che  "detto  valore  viene  bensi' in rilievo, ma come
 criterio di riferimento, e  non  necessariamente  come  misura  nella
 determinazione dell'indennita': il legislatore... gode, allora, entro
 i  limiti  stabiliti  in  Costituzione,  della  discrezionalita'   di
 valutazione  che  giova a contemperare la scelta del valore effettivo
 con l'adozione di un qualche altro meccanismo  normativo,  sempre  in
 modo,  beninteso,  che  l'ammontare  dell'indennizzo  non scada sotto
 l'indispensabile livello  di  congruita'"  (Corte  costituzionale  30
 luglio  1984,  n.  231:  cfr. altresi' Corte costituzionale 19 luglio
 1983, n. 223, secondo cui  l'indennizzo  richiesto  dal  terzo  comma
 dell'art.  42 della Costituzione non deve essere necessariamente pari
 al giusto prezzo di mercato  secondo  la  prescrizione  dell'art.  39
 della  legge  n.  2359/1865,  essendo sufficiente la previsione di un
 ristoro serio). Su questa stessa linea e', del resto, collocata anche
 la  giurisprudenza  della Corte di cassazione che, nell'affermare che
 l'art. 39 della legge del 1865 non e' in  contrasto  con  l'art.  42,
 terzo  comma,  della  Costituzione  ha  precisato,  conformemente  al
 costante indirizzo della  Corte  costituzionale,  che  tale  precetto
 costituzionale   affida   al   legislatore   ordinario   la  concreta
 quantificazione dell'indennizzo, fra un limite minimo,  rappresentato
 da  un'apprezzabile  e  non simbolica compensazione della perdita del
 bene, ed un limite massimo, rappresentato dall'effettiva  entita'  di
 tale  perdita (Cass. 3 giugno 1988, n. 3785; 26 gennaio 1988, n. 671;
 11 agosto 1982, n. 4525).
    Cosi'  individuato  l'effettivo  contesto normativo al cui interno
 deve essere condotto il giudizio di non manifesta infondatezza  della
 questione di legittimita' costituzionale del quinto comma dell'art. 5
 della legge  n.  372/1985,  va  rilevato  che  tale  disposizione  ha
 recepito  un  criterio di determinazione dell'indennita' di esproprio
 (media tra il valore venale del bene e i fitti  dell'ultimo  decennio
 o, in difetto, l'imponibile netto ai fini delle imposte sui terreni o
 sui fabbricati) che non puo' considerarsi in collisione con la  norma
 ex art. 42, terzo comma, della Costituzione, non potendo l'indennizzo
 previsto certamente qualificare come meramente simbolico,  apparente,
 irrisorio,  non  serio,  secondo le diverse aggettivazioni ricorrenti
 nelle decisioni della Corte costituzionale per definire il  contenuto
 e  l'ambito di operativita' della garanzia costituzionale che assiste
 il diritto all'indennita' di esproprio.  In  tale  prospettiva,  deve
 altresi'  precisarsi  che  il  riferimento  al valore venale del bene
 espropriato, assunto quale uno dei parametri nella media del  calcolo
 dell'indennita',  non  solo  esclude  che  questa possa ridursi ad un
 valore monetario simbolico e assolutamente incongruo, ma ne assicura,
 nel contempo, l'aderenza alle specifiche caratteristiche del bene, in
 se'  considerato.   Al   riguardo,   e'   opportuno   richiamare   le
 considerazioni   svolte   dalla  stessa  Corte  costituzionale  nella
 decisione con cui e'  stata  dichiarata  infondata  la  questione  di
 costituzionalita' dell'art. 4, primo comma, del regio decreto-legge 8
 luglio 1931, n. 981, convertito nella legge 24 marzo 1932, n. 355,  e
 dell'art.  1,  terzo  comma, del decreto-legge 29 marzo 1966, n. 128,
 convertito nella legge 26 marzo 1966, n.  366,  nelle  parti  in  cui
 stabiliscono  che l'indennizzo da corrispondere per le espropriazioni
 disposte in attuazione dei piani particolareggiati  nella  citta'  di
 Roma  si  liquida  con un sistema di calcolo simile a quello previsto
 dalla legge del 1885 per il risanamento di Napoli (media  del  valore
 venale e dell'imponibile netto accertato alla data del predetto regio
 decreto-legge, capitalizzato ad un tasso dal 3,50% al  7%  a  seconda
 delle condizioni dell'edificio e della localita').
    Infatti,  nella  sentenza  predetta, la Corte ha osservato che "il
 riferimento al valore venale del fondo fuor di dubbio consente, sulla
 base  di  dati  oggettivamente  accertabili,  che  la liquidazione si
 avvicini  adeguatamente  alla  realta'  ed  attualita'   dei   valori
 economici" (Corte costituzionale 30 luglio 1981, n. 160).
    Alla   luce   di   tutti   gli  argomenti  sin  qui  svolti,  deve
 conclusivamente  riconoscersi  che  e'  manifestamente  infondata  la
 questione di costituzionalita' dell'art. 5, quinto comma, della legge
 23 luglio 1985, n. 372, sollevata con riferimento all'art.  42  terzo
 comma  della Costituzione, in quanto l'indennita' determinabile sulla
 base  della  predetta  diposizione  non  appare  in   contrasto   con
 l'effettiva portata della norma costituzionale.
    4.  - I dubbi sulla legittimita' costituzionale dell'art. 5 quinto
 comma, della legge n. 372/1985 appaiono, invece,  non  manifestamente
 infondati  quando tale norma sia esaminata con riferimento all'art. 3
 della Costituzione, atteso che, in tale diversa ottica, lo  specifico
 criterio  di determinazione dell'indennita' di esproprio, anche se in
 se' non contrastante col precetto ex  art.  42,  terzo  comma,  della
 Costituzione,  sembra  dare  origine ad una disparita' di trattamento
 non giustificata da alcun ragionevole fondamento.
    Per una migliore comprensione della questione occorre rilevare che
 la legge 25 giugno 1865, n. 2359, aveva stabilito,  in  sintonia  con
 l'art.  29 dello Statuto albertino, il principio generale secondo cui
 l'indennita' di espropriazione deve coincidere con il  valore  venale
 realizzabile  dalla  vendita  del  bene in una libera contrattazione.
 L'unitarieta' di detto criterio indennitario, cui era  conformato  il
 sistema  delle espropriazioni, fun ben presto intaccata da successive
 leggi speciali con le quali furono  adottati  criteri  divergenti  da
 quello  del  valore  venale:  la  prima,  in  ordine  di  tempo  e di
 importanza, e' stata la legge  15  gennaio  1885,  n.  2892,  per  il
 risanamento  della  citta' di Napoli. Il processo di diversificazione
 dei criteri di determinazione  dell'indennita'  ha  avuto,  poi,  una
 progressiva  accelerazione  attraverso  numerose  deroghe introdotte,
 volta per volta, in relazione a singole categorie di opere  pubbliche
 alle quali le espropriazioni erano finalizzate.
    Un   momento   fondamentale  nella  disciplina  della  materia  e'
 rappresentato dall'entrata in vigore della legge 22 ottobre 1971,  n.
 865,  modificata  dalla  legge  28  gennaio  1977, n. 10, che ha reso
 omogenei  i  criteri  indennitari   stabilendo   il   principio   che
 l'indennita'  deve  essere determinata sulla base del valore agricolo
 medio dell'immobile, anche per le aree comprese  nei  centri  urbani.
 Tale    criterio,    applicabile    originariamente   soltanto   alle
 espropriazioni realizzate per le finalita' indicate nell'art. 9 della
 stessa  legge n. 865/1971, con legge 27 giugno 1974, n. 247, e' stato
 esteso  a  tutte  le   espropriazioni   comunque   preordinate   alla
 realizzazione  di  opere  o di interventi da parte dello Stato, delle
 regioni, delle province, dei comuni o di altri  enti  pubblici  o  di
 diritto pubblico, anche non territoriali.
    Con  le  leggi  del  1971  e del 1974 e' stato, quindi, attuato un
 regime giuridico unitario in  materia  di  indennita'  di  esproprio,
 conformemente  agli  auspici  di  una larga parte della dottrina, che
 aveva  segnalato  da  tempo,  in  posizione  critica  rispetto   agli
 interventi  della Corte costituzionale, che la pluralita' dei criteri
 indennitari, distinti sulla sola base delle singole  opere  pubbliche
 da  realizzare,  si  traduceva  in  vere  e  proprie  violazioni  del
 principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione.
    Tale  assetto normativo ha subito profonde modificazioni a seguito
 della piu'  volte  citata  sentenza  della  Corte  costituzionale  n.
 5/1980,  con  cui e' stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale
 del criterio del valore agricolo medio,  di  cui  all'art.  16  della
 legge   n.   865/1971,   in   quanto  privo  di  qualsiasi  specifica
 correlazione con le caratteristiche essenziali e con la  destinazione
 economica degli immobili espropriati.
    Per  effetto  della ulteriore dichiarazione di incostituzionalita'
 della legge 29 luglio 1980, n. 385, con cui era stato  stabilito  che
 le   indennita'  di  esproprio  dovessero  essere  liquidate  in  via
 provvisoria secondo  i  medesimi  criteri  previsti  dalla  legge  n.
 865/1971, salvo il conguaglio effettuato in base ad apposita legge da
 emanarsi entro un anno (il termine e' stato, poi, prorogato con d.-l.
 29  maggio  1982,  n.  298, convertito nella legge 29 luglio 1982, n.
 481, e con legge 23 dicembre 1982, n. 943), si e' prodotto  un  vuoto
 legislativo  che,  in mancanza di un intervento del Parlamento per il
 ripristino dell'organicita' del sistema, ha spinto la  giurisprudenza
 a  svolgere  un  ruolo di supplenza al fine di colmare le lacune e di
 comporre le nuove basi del regime delle espropriazioni.
    In una simile opera di ricostruzione sistematica della disciplina,
 va registrata una piena concordanza tra gli  interventi  della  Corte
 costituzionale  e della Corte di cassazione, le cui posizioni possono
 essere sintetizzate nei seguenti punti:
       a)  le  pronunce  di  incostituzionalita'  hanno determinato la
 caducazione dei criteri fissati dalla legge n. 865/1971 soltanto  per
 le  aree  con  destinazione  edificatoria,  mentre  per  le  aree con
 destinazione agricola continua ad applicarsi il criterio  del  valore
 agrario  medio  previsto  dalla stessa legge (Corte costituzionale 21
 dicembre 1985, n. 355 e 30 luglio 1984,  n.  231;  Cass.  20  gennaio
 1988,  n.  402; Cass. 15 gennaio 1987, n. 253; Cass. 16 gennaio 1986,
 n. 226; Cass. 24 ottobre 1984, n. 5401);
       b)     a    seguito    delle    indicate    dichiarazioni    di
 incostituzionalita', l'indennita' dovuta per le aree edificabili deve
 essere  liquidata  in base al criterio del valore venale o di mercato
 dell'immobile stabilito dall'art. 39 della legge 25 giugno  1865,  n.
 2359,  che,  avendo  carattere  generale,  e'  stata  derogata, e non
 abrogata, dalla legge n. 865/1971 (Corte  costituzionale  9  novembre
 1988,  n. 1022; Cass. 14 ottobre 1988, n. 5599; Cass. 28 aprile 1988,
 n. 3202; Cass. 16 marzo 1987, n. 2688; Cass.  26  febbraio  1987,  n.
 2035; Cons. Stato, sezione quarta, 10 dicembre 1986, n. 831).
    In un siffatto tessuto normativo, ricostruito dalla giurisprudenza
 costituzionale e di legittimita' per eliminare i  vuoti  verificatisi
 nell'ordinamento,  si e' inserita la legge 23 luglio 1985, n. 372, il
 cui art. 5, quinto comma, dispone che  per  le  espropriazioni  degli
 immobili  compresi  nel  comprensorio  di Capocotta l'indennita' deve
 essere determinata in base all'art. 13 della legge 15  gennaio  1885,
 n.   2892,  calcolando  la  media  del  valore  venale  e  dei  fitti
 dell'ultimo  decennio  o,  in  difetto,  dell'imponibile  netto  agli
 effetti delle imposte sui terreni e sui fabbricati.
    Ad  avviso  di  questo  collegio,  l'individuazione di un criterio
 indennitario per una specifica e determinata  categoria  di  beni  (e
 cioe'  per  gli  immobili  inclusi nel comprensorio di Capocotta) da'
 origine ad una discrepanza dalla  disciplina  generale  che,  per  il
 fatto di non essere giustificata da ragionevoli motivi, si risolve in
 un trattamento arbitrario e discriminatorio che vulnera il  principio
 di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione.
    A ben vedere, con il richiamo alla legge n. 2892/1885, la legge n.
 372/1985 si e' discostata dal principio di unitarieta'  del  criterio
 di determinazione dell'indennita', espressamente recepito dalla legge
 27 giugno 1974, n. 247, per tornare alla scelta di criteri  di  volta
 in   volta  variabili  in  funzione  dell'opera  cui  e'  preordinata
 l'espropriazione, di guisa che, in un simile sistema, la  misura  del
 ristoro  spettante  all'espropriato  e'  fatta dipendere, nelle varie
 forme di espropriazione, non da valori economici inerenti alla natura
 e  alla  destinazione  dei beni, ma unicamente dai diversi fini per i
 quali viene autorizzata l'espropriazione.
    Ne consegue che la perdita di beni aventi medesime caratteristiche
 e destinazione economica risulta coperta da un ristoro  che  varia  a
 seconda  delle  finalita'  in  vista  delle  quali  e' stata disposta
 l'espropriazione: nel caso di  specie,  l'applicazione  dell'art.  5,
 quinto  comma, della legge n. 372/1985 comporta che l'indennita' deve
 essere liquidata in misura pari alla semisomma tra  valore  venale  e
 fitti  del  decennio  per  il solo fatto della inclusione del terreno
 entro i confini del comprensorio di Capocotta indicati  dall'art.  5,
 terzo   comma,   della   stessa   legge,  mentre  per  altri  terreni
 espropriati,  nonostante  l'identita'   di   caratteristiche   e   di
 destinazione,  dovrebbero  liquidarsi  indennizzi diversi per la sola
 ragione  che  le  espropriazioni  sono  dirette  a  realizzare   fini
 differenti. Al riguardo va precisato che nel caso in esame l'indicata
 disparita' di trattamento e' riscontrabile tanto nell'ipotesi in  cui
 i terreni abbiano attitudine edificatoria secondo i vigenti strumenti
 urbanistici, come sostiene l'opponente, quanto  nell'ipotesi  in  cui
 essi   abbiano   destinazione   agraria,   giacche'  nel  primo  caso
 l'indennita' corrisponderebbe al valore venale del bene e nel secondo
 al  valore agricolo medio: con la conseguenza che per terreni vicini,
 siti nella stessa zona di Capocotta e con identiche  caratteristiche,
 la   misura   dell'indennita'   varierebbe  in  relazione  alla  sola
 circostanza della inclusione o meno nell'area delimitata dall'art. 5,
 terzo comma, della legge 23 luglio 1985, n. 372.
    Dalle  precedenti  riflessioni  si  evince che la disciplina posta
 dall'art.  5,  quinto  comma,  di  tale  testo  normativo  non   puo'
 considerarsi  in sintonia col canone di ragionevolezza e di coerenza,
 che trova espressione nel principio di uguaglianza sancito  dall'art.
 3  della  Costituzione,  e  contribuisce,  anzi,  ad acuire le aporie
 dell'attuale sistema delle espropriazioni dando vita  ad  irrazionali
 discriminazioni.
    L'opinione  e'  avvalorata dal recente orientamento della Corte di
 cassazione, che ha perspicuamente osservato  che  dalle  sentenze  n.
 5/1980   e   n.   223/1983   della   Corte   costituzionale   risulta
 inequivocabilmente delineato il profilo di incostituzionalita' insito
 in  un  regime  che prevede diversi criteri indennitari per i singoli
 settori  espropriativi,  aggiungendo,  a  chiare  lettere,  che   una
 valutazione   discriminatoria,   in  contrasto  con  l'art.  3  della
 Costituzione, "si ripresenterebbe immediatamente ove si  ritenesse  -
 come  chiede  la ricorrente pubblica amministrazione - che beni dalle
 caratteristiche  identiche   o   analoghe   andrebbero   diversamente
 indennizzati  a  seconda delle diverse finalita' dell'espropriazione"
 (Cass. 14 ottobre 1988, n. 5599).
    In   definitiva,  tenuto  anche  conto  dei  rilievi  esposti  nel
 precedente  punto  3),  va   riconosciuto   che   la   questione   di
 costituzionalita'  non scaturisce dal fatto che la legge n. 372/85 ha
 determinato  l'indennita'  di  esproprio  mediante  il  richiamo  del
 contenuto  dell'art.  13  della  legge  15  gennaio 1985, n. 2892, ma
 dall'avere limitato - senza evidenziare elementi discriminatori  tale
 criterio  alla  specifica  espropriazione  avente  ad oggetto le aree
 comprese nella tenuta di Capocotta e in funzione di  una  determinata
 finalita' (ampliamento della tenuta presidenziale di Castelporziano).
    5. - Sono, invece, palesemente destituite di fondamento le censure
 di incostituzionalita' mosse  dall'opponente  alla  legge  23  luglio
 1985,  n. 372, considerata nella sua globalita', sul rilievo che essa
 perseguirebbe scopi non rilevanti costituzionalmente e autorizzerebbe
 l'espropriazione  per  una  finalita'  (ampliamento  della  dotazione
 immobiliare  del  Presidente  della  Repubblica)   alla   quale   non
 corrisponde  un effettivo interesse generale, tanto piu' che, mirando
 la citata legge alla tutela dell'ambiente, il legislatore si  sarebbe
 sostituito alla regione e al comune comprimendo i poteri riconosciuti
 in materia a tali enti.
    Le  deduzioni  non  possono  essere condivise in quanto tendono ad
 introdurre un sindacato di merito sulle scelte discrezionali  operate
 dal  legislatore  e  sulla valutazione del pubblico interesse ad esse
 sotteso:  ditalche',  come  ha  ripetutamente   ritenuto   la   Corte
 costituzionale,  deve  considerarsi  precluso il controllo sul merito
 politico dell'atto legislativo, conformemente all'esplicito  disposto
 dell'art.  28  della  legge  11  marzo  1953,  n. 87, secondo cui "il
 controllo di legittimita' della Corte costituzionale su una  legge  o
 su  un  atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura
 politica e ogni  sindacato  sull'uso  del  potere  discrezionale  del
 Parlamento"  (sul punto v. gia' Corte costituzionale 26 gennaio 1957,
 n. 28, e 10 marzo 1966, n. 22).
    D'altro  canto, rilevato che le medesime questioni di legittimita'
 costituzionale della legge  n.  372/1985  sono  state  disattese  dal
 giudice   amministrativo   (cfr.  t.a.r.  Lazio,  sezione  prima,  16
 settembre 1987, n. 1505), va messo in  risalto  che,  a  giudizio  di
 autorevole   dottrina,   la   dotazione  prevista  dall'ultimo  comma
 dell'art. 84 della Costituzione costituisce una destinazione pubblica
 di  beni  pubblici a disposizione del Presidente della Repubblica per
 lo svolgimento dei compiti inerenti alla  carica  ed  e'  coperta  da
 garanzia  costituzionale:  ond'e'  che,  posto  che nessun plausibile
 elemento sintomatico autorizza ad affermare che la legge n.  372/1985
 persegue  un  fine  diverso da quello reso palese dalla sua obiettiva
 ratio, non si vede come possa dubitare dell'esistenza  dell'interesse
 pubblico avuto di mira dal legislatore.
    Infine,   deve   considerarsi   manifestamente   infondata   anche
 l'eccezione di incostituzionalita' dell'art. 5, ottavo  comma,  della
 stessa  legge  n.  372/1985 sollevata, in riferimento agli artt. 24 e
 113 della Costituzione, per il fatto che, attribuendo  la  competenza
 per  l'opposizione alla stima alla corte di appello di Roma, la norma
 esclude il diritto  al  doppio  grado  del  giudizio  di  merito.  Al
 riguardo e' sufficiente osservare che la Corte costituzionale ha gia'
 dichiarato manifestamente infondate le questioni di costituzionalita'
 degli  artt.  19  e  20  della  legge  22  ottobre  1971, n. 865, che
 attribuiscono alla Corte di appello, in unico grado, la competenza  a
 conoscere  delle controversie in materia di indennita' di esproprio e
 di indennita' di occupazione (ordinanza 11 luglio  1984,  n.  198,  e
 sentenza 29 marzo 1984, n. 78: negli stessi termini v. Cass. 27 marzo
 1987, n. 3007 e 3 agosto 1987, n. 6685), atteso che il principio  del
 doppio   grado   di   giurisdizione   non   e'  coperto  da  garanzia
 costituzionale (cfr. Corte costituzionale 7 marzo 1984, n. 52).
    6.   -   Pertanto,   a   conclusione   di   tutte   le  precedenti
 considerazioni, deve dichiararsi la non manifesta infondatezza  della
 questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 5, quinto comma,
 della legge 23 luglio 1985, n. 372, in riferimento all'art. 3,  primo
 comma,  della  Costituzione,  e  devono  pronunciarsi i provvedimenti
 previsti dall'art. 23, secondo e quarto comma, della legge  11  marzo
 1953, n. 87.
                                P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara  non manifestamente infondata, in riferimento all'art. 3,
 primo  comma,  della  Costituzione,  la  questione  di   legittimita'
 costituzionale dell'art. 5, quinto comma, della legge 23 luglio 1985,
 n.  372,  che  regola  la  determinazione  dell'indennita'   per   le
 espropriazioni   dei   terreni   destinati   ad  ampliare  la  tenuta
 presidenziale di Castelporziano;
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale;
    Sospende  il  processo sull'opposizione alla stima dell'indennita'
 di  esproprio  proposta  da  Manfredi  Goffredo  nei  confronti   del
 Ministero  delle  finanze,  dell'intendenza di finanza di Roma, e del
 prefetto di Roma;
    Dispone  che  la presente ordinanza sia notificata alle parti e al
 Presidente del Consiglio dei Ministri e che la stessa sia  comunicata
 al  Presidente  della  Camera dei deputati e al Presidente del Senato
 della Repubblica.
    Cosi'  deciso  il  31  maggio 1989 nella camera di consiglio della
 prima sezione civile della corte di appello di Roma.
                   Il presidente: (firma illeggibile)

 89C1366