N. 41 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 novembre 1989

                                 N. 41
 Ordinanza emessa il 22 novembre 1989 dal tribunale di sorveglianza di
 Trieste nel procedimento di sorveglianza relativo a Bellavia Calogero
 Pena   -   Misure  alternative  -  Detenzione  domiciliare  -  Figlio
 convivente infratreenne - Assenza o impossibilita' di  assisterlo  da
 parte della madre - Omessa previsione di concessione del beneficio al
 padre detenuto - Discriminazione del  padre  rispetto  alla  madre  -
 Conseguente  violazione  della  uguaglianza  morale  e  giuridica dei
 genitori  nonche'  dei  minori  privi   dell'assistenza   materna   -
 Trattamento sanzionatorio contrario al senso di umanita' nonche' alla
 funzione  di  rieducazione   e   risocializzazione   della   pena   -
 Diseguaglianza  giuridica e morale dei coniugi rispetto all'interesse
 dell'unita' familiare  e  della  tutela  del  minore  Violazione  del
 principio di pari responsabilita' dei genitori.
 (Legge  26  luglio  1975,  n.  354, art. 47-ter, primo comma, n. 1, e
 successive modificazioni; legge 10 ottobre 1986, n. 663).
 (Cost., artt. 3, 29, 30 e 31).
(GU n.6 del 7-2-1990 )
                      IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
    Ha  pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento iscritto al
 n. 517/1989 r.g. promosso  dal  detenuto  Bellavia  Calogero  nato  a
 Favara  (Agrigento)  il  19 marzo 1953 residente Casarsa (Pordenone),
 detenuto casa circondariale di Pordenone, per affidamento in prova al
 servizio sociale, detenzione domiciliare e semiliberta'.
    Bellavia  Calogero  ha  presentato  istanza  intesa  ad ottenere i
 benefici di cui agli artt. 47, 47-  ter,  48  e  50  della  legge  n.
 354/1975 modificata dalla legge n. 663/1986.
    Arrestato  in data 28 settembre 1989, deve espiare la pena di anni
 tre e mesi otto di reclusione  (condonati  anni  tre)  inflitta,  per
 bancarotta  fraudolenta, con sentenza del tribunale di Agrigento d.d.
 17 maggio 1989.
    L'istanza  di affidamento in prova al servizio sociale deve essere
 dichiarata inammissibile.
    Ritiene  infatti questo tribunale, conformemente a quanto disposto
 dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione con sentenza dd.
 26 aprile 1989, e da altre, anche piu' recenti, pronunce della stessa
 Corte, che nessun rilievo possa  essere  attribuito  al  condono  nel
 valutare  il  presupposto temporale, stabilito dal legislatore con il
 primo comma dell'art. 47, dell'ordinamento penitenziario.
    Nel  caso  di  specie,  pertanto,  la  pena  inflitta al Bellavia,
 superando  il  limite  di  tre  anni,  comporta   l'inesistenza   del
 presupposto  temporale  indispensabile  per  procedere  all'esame del
 merito della sua istanza.
    Il  collegio  -  pur  non  ignorando  il  diverso  e  contrastante
 indirizzo giurisprudenziale discendente da  numerose  sentenze  della
 Corte  di  cassazione,  (si  veda,  tra  le  ultime, quella di data 8
 settembre 1989 - considera rispondente alla volonta' del  legislatore
 unicamente l'indirizzo che, facendo riferimento all'espressione "pena
 inflitta" usata nel primo comma dell'art. 47 della legge n. 354/1975,
 esclude  la  detraibilita'  del  condono  della  pena originariamente
 irrogata dal giudice di cognizione.
    Non    puo'   convincere   l'opposta   opinione   che   si   fonda
 sull'interpretazione    sistematica    dell'art.    47    ordinamento
 penitenziario,  anziche'  su quella letterale, per concludere che non
 la pena irrogata dal giudice di cognizione ma quella residua dopo  lo
 scomputo  di  eventuali condoni deve essere considerata dal tribunale
 di sorveglianza per la valutazione della  sussistenza  del  requisito
 temporale  per  la  concessione  dell'affidamento  in  prova, poiche'
 l'interpretazione sistematica sarebbe giustificata esclusivamente dal
 permanere  di  incertezze  in  seguito all'interpretazione letterale,
 cioe' all'attribuzione ex art. 12, primo  comma,  delle  disposizioni
 sulla  legge  in  generale,  del  senso "fatto palese dal significato
 proprio delle parole secondo la connessione di esse", incertezze  che
 l'espressione  "pena  inflitta", introdotta con l'art. 11 della legge
 n. 663/1986, che ha modificato l'art.  47  della  legge  n.  354/1975
 laddove  questo  faceva generico riferimento alla pena che non superi
 una certa durata ed ha percio' il  significato  di  una  precisazione
 appositamente   apportata   dal   legislatore,  non  puo'  suscitare,
 riferendosi evidentemente alla  pena  irrogata  con  la  sentenza  di
 condanna  (vedi  sentenza  26 aprile 1989 sez. unite Corte cassazione
 gia' citata).
    L'assenza  di  lacune  legislative  esclude  poi  il  ricorso alla
 analogia con altri istituti, in particolare  modo  con  quello  della
 liberazione condizionale che, pur riguardando l'esecuzione della pena
 e costituendo una forma alternativa di espiazione  della  stessa,  ha
 presupposti  e  finalita' diversi da quelli dell'affidamento in prova
 al servizio sociale.
    Mentre per concedere l'affidamento in prova al servizio sociale e'
 sufficiente ritenere, in  base  all'osservazione  della  personalita'
 condotta  per un mese in istituto o ai piu' semplici criteri indicati
 nel terzo  comma  dell'art.  47  gia'  citato,  che  le  prescrizioni
 inerenti  a tale misura alternativa alla detenzione siano idonee alla
 rieducazione del condannato e ad escludere la probabilita' che questi
 commetta  ulteriori  reati,  per accogliere un'istanza di liberazione
 condizionale e' necessario verificare  l'esistenza  del  pregnante  e
 significativo  presupposto  del  sicuro  ravvedimento  del soggetto e
 quello del risarcimento dei danni derivanti dal reato dopo  un  lungo
 periodo   di   detenzione   (almeno   trenta   mesi)   che   consente
 un'approfondita conoscenza del condannato.
    In  sostanza,  mentre l'affidamento in prova puo' sostituire quasi
 completamente la sanzione  della  privazione  della  liberta'  ed  e'
 basato  su  requisiti  abbastanza  ampi  ed  elastici, la liberazione
 condizionale, istituto che risale alla formulazione del codice  Rocco
 e  precede  quindi  la  costituzionalizzazione  del  principio  della
 finalita' rieducativa della pena,  puo'  essere  concessa  quando  la
 pena,  gia' espiata in larga misura, cessa di assolvere alle funzioni
 retributiva e di prevenzione generale e speciale che sono proprie  in
 seguito  all'accertato  pentimento  del  soggetto, il quale del resto
 viene sottoposto, fino alla scadenza della  pena,  alle  prescrizioni
 della liberta' vigilata, ben piu' limitative della liberta' personale
 di quelle relative all'affidamento in prova.
    Non  sembra  convincente  nemmeno  l'argomento  dell'insufficienza
 dell'interpretazione letterale dell'espressione "pena inflitta" (vedi
 sentenza  della  Corte  di  cassazione  dd. 8 settembre 1989) a causa
 delle numerose eccezioni che le stesse sezioni unite hanno  preso  in
 considerazione con la gia' menzionata sentenza del 26 aprile 1989, in
 quanto l'esempio dell'abolitio  criminis  di  cui  al  secondo  comma
 dell'art.   2   del   c.p.,   quello  della  pluralita'  di  sentenze
 irrevocabili di condanna nei confronti della stessa  persona  per  il
 medesimo  fatto ex art. 579 del c.p.p. e gli altri esempi di cause di
 estinzione ritenute incidenti sul limite  della  pena  dei  tre  anni
 stabilito  per  l'affidamento  in  prova  al  servizio sociale di una
 persona, non rappresentano affatto delle eccezioni ma  sono  previste
 con  norme  che  devono necessariamente trovare applicazione tutte le
 volte che venga presa in considerazione  la  materia  dell'esecuzione
 delle    sentenze    di    condanna,   poiche'   costituiscono   casi
 legislativamente regolari di tangibilita' del giudicato.
    Quanto  ai  motivi  per i quali i criteri interpretativi di cui al
 primo comma dell'art. 12 delle  preleggi  (interpretazione  letterale
 secondo  la  connessione  delle  parole,  intenzione del legislatore,
 ecc...) comportano l'esclusione del condono dal computo del limite di
 pena  dei tre anni, il collegio rinvia all'esauriente ed approfondita
 disamina compiuta dalle sezioni unite, con  la  sentenza  piu'  volte
 menzionata,  che  condivide  nella  sua  intierezza,  osservando,  in
 particolare,   che   quando    il    legislatore,    nell'ordinamento
 penitenziario,  ha  voluto  riferirsi  alla  pena  residua anziche' a
 quella inflitta, lo ha fatto in modo esplicito e tale da  evitare  le
 ambiguita'  che  vogliono  attribuire  al  primo  comma  dell'art. 47
 dell'ordinamento penitenziario.
    Risulta  opportuno  comunque richiamare l'attenzione sull'elemento
 di valutazione costituito dall'intenzione  del  legislatore,  che  ha
 modificato  l'art.  47  dell'ordinamento  penitenziario  escludendo i
 limiti alla concessione  del  beneficio  previsti  con  la  legge  n.
 354/1975  e  stabilendo  invece,  con l'introduzione dell'espressione
 "pena inflitta"  e  l'eliminazione  dei  margini  di  dubbio  che  la
 precedente  formulazione  dell'articolo poteva lasciar sussistere, un
 limite oggettivo, un parametro legislativo che potesse delimitare  la
 discrezionalita'  derivante  dagli  ampi  presupposti  inerenti  alla
 valutazione, nel merito, dell'idoneita' dell'affidamento  rispetto  a
 ciascun richiedente.
    In  sostanza il legislatore ha ritenuto che persone condannate dal
 giudice di cognizione ad una pena superiore a tre anni, in base  alla
 valutazione  della  gravita' del reato e della capacita' a delinquere
 del  colpevole  pevista  dall'art.  133  del  c.p.,   devono   essere
 automaticamente  escluse  dall'ambito  di  coloro  che possono essere
 giudicati meritevoli del beneficio, poiche' l'elevata  entita'  della
 pena  inflitta,  secondo  i criteri del citato articolo 133 del c.p.,
 dimostra l'inesistenza di una capacita'  immediata  di  recupero  del
 soggetto.
    Le  funzioni  della  pena  della  prevenzione  generale e speciale
 escludono cioe' la concessione, sulla base di un  brevissimo  periodo
 di  osservazione  della  personalita'  o  della ancora piu' generiche
 valutazioni richieste dal terzo comma dell'art.  47  dell'ordinamento
 penitenziario,   dell'ampio   beneficio  dell'affidamento  a  persone
 condannate per reati di rilevante gravita'.
    Non  puo' attribuirsi valore, pertanto, ad una causa di estinzione
 della pena, qual'e' il condono,  che  verrebbe  ad  incidere  su  una
 valutazione del giudice di cognizione in modo arbitrario, trattandosi
 di  istituto  che  viene   previsto   legislativamente   per   motivi
 contingenti di politica criminale.
    Non  appare  inoltre  rispondente alla finalita' rieducativa della
 pena il fatto che la possibilita' o l'impossibilita' di concedere  un
 beneficio ad una persona condannata ad una pena superiore ai tre anni
 dipenda dall'intervento o meno, in modo  del  tutto  causale  per  la
 persona stessa, di un provvedimento di clemenza.
    Sembra  doveroso, infine, ricordare che il condono e' suscettibile
 di revoca, provvedimento  quest'ultimo  che  comporterebbe  il  venir
 meno, ex post, di un presupposto di ammissibilita' della domanda.
    Anche   l'istanza   di   semiliberta'   deve   essere   dichiarata
 inammissibile.
    Il  Bellavia  non  ha ancora scontato meta' della pena ex art. 50,
 secondo comma, della legge n. 354/1975 e successive modifiche  e  non
 ricorre, stante l'interpretazione esposta, uno dei casi di condannati
 a  pena  inferiore  a  tre  anni  che  possono  essere  ammessi  alla
 semiliberta'  anziche'  al  piu'  ampio beneficio dell'affidamento in
 prova al servizio sociale (si veda il richiamo dell'art. 47 dell'ord.
 pen. effettuato nel secondo comma del citato art. 50).
   Quanto  alla domanda di detenzione domiciliare, dal contenuto della
 richiesta del Bellavia si deduce che lo stesso ha inteso fare ricorso
 al  primo comma, n. 1, dell'art. 47- ter, dell'ord. pen., che prevede
 la concessione del beneficio in  esame  alla  "donna  incinta  o  che
 allatta  la  propria  prole ovvero madre di prole di eta' inferiore a
 tre anni con lei convivente".
    Dalla documentazione esistente in atti risulta, in effetti, che il
 Bellavia e' padre di una bambina, Simona, nata prematura  l'8  luglio
 1989,  che  necessita'  della sua assistenza. La figlia del Bellavia,
 che pesava 620  grammi  al  momento  della  nascita,  e'  attualmente
 ricoverata   presso   l'ospedale   civile   di  Udine,  divisione  di
 neonatologia,  ha  da  poco  superato   delle   situazioni   cliniche
 particolarmente critiche e necessita' della presenza dei genitori per
 realizzare una stimolazione psicomotoria idonea allo  sviluppo  della
 sfera affettiva.
    La  moglie  del detenuto non puo' autonomamente fornire assistenza
 alla figlia poiche'  risulta  invalida,  nella  misura  del  70%  non
 riducibile  mediante  idoneo trattamento di riabilitazione, in quanto
 affetta da psicosi d'arresto in debole di mente.
    I  servizi del territorio si sono attivati per garantire al nucleo
 familiare  gli  interventi  di  sostegno  divenuti  improrogabili  in
 seguito  all'arresto  del condannato, senza ovviamente che cio' possa
 comportare una opportuna soluzione del problema dell'assistenza della
 piccola figlia ricoverata in ospedale.
    Orbene,  sembra  al  collegio  che  la possibilia' di estendere al
 padre la concedibilita' del beneficio suindicato non  sia  ricavabile
 in  via interpretativa, poiche' l'interpretazione estensiva, invocata
 dall'interessato  e  dalla  difesa,  pare  esclusa  dall'analitica  e
 precisa previsione legislativa.
    Dall'esame  della  norma  in  questione  risulta  evidente  che il
 legislatore  ha  inteso  riferirsi,  nel  prevedere  la   fattispecie
 menzionata,  esclusivamente  al  genitore  di  sesso  femminile.  Non
 appare,  infatti,  superabile  il  dato  letterale,   laddove   viene
 individuato  con  precisione  il genitore avente diritto al beneficio
 usando la locuzione "madre di prole di eta' inferiore ai tre anni con
 lei  convivente". Il caso in esame inoltre e' stato collocato dopo le
 due fattispecie della donna incinta o che allatta la propria prole ed
 il fatto che sia stato stabilito un rapporto di alternativita' tra le
 stesse - le tre ipotesi sono legate dalle particelle grammaticali  o,
 ovvero che hanno valore disgiuntivo - costituisce ulteriore prova che
 il destinatario della norma e' un solo soggetto: la madre.
    Nemmeno  il  ricorso  all'analogia puo' essere utilizzato, poiche'
 non esistono norme penali paragonabili in modo proficuo a  quella  in
 esame,  mentre  non  appare  possibile,  cosi'  come  richiesto dalla
 difesa, un'applicazione diretta ed integrativa delle  pronunce  della
 Corte  costituzionale  intervenute, in materia del diritto di lavoro,
 in merito alla estensibilita' al padre del diritto all'estensione dal
 lavoro  ed  ai  riposi  giornalieri  di  cui all'art. 7 della legge 9
 dicembre 1977, n. 903, in caso di decesso o  grave  infermita'  della
 madre.
    Ritiene,  invece,  il collegio di sollevare d'ufficio questione di
 legittimita' costituzionale  in  relazione  al  primo  comma,  n.  1,
 dell'art.  47-  ter,  dell'ordinamento  penitenziario,  che  pare  in
 contrasto con i principi costituzionali della uguaglianza giuridica e
 morale  dei  genitori  e dei minori e del diritto-dovere dei primi di
 educare i figli e di essere supportati, in caso di impossibilita', da
 un appropriato intervento da parte della legge.
    L'importanza  decisiva  della  questione  rispetto  alla  presente
 pronuncia - a parte le parziali ed insufficienti soluzioni  pratiche,
 quali  la  concessione  di  permessi  premio  e di altre opportunita'
 trattamentali, che potranno essere adottate per  porre  rimedio  alle
 esigenze indifferibili ed urgenti del condannato e della sua famiglia
 - rende evidente la sussistenza del presupposto della rilevanza della
 stessa.
    La  fondatezza  della  questione  puo'  desumersi  dai  motivi che
 seguono.
    I  casi  di  detenzione  domiciliare  previsti  dall'art.  47- ter
 citato, ad eccezione di quello di cui  al  n.  4)  del  primo  comma,
 riguardano  persone bisognose di sostegno che risultano anche, per la
 particolare situazione in cui si trovano, scarsamente pericolose.  Il
 beneficio  non  viene  quindi concesso con un intento trattamentale e
 rieducativo  ma  appare  improntato   ad   esigenze   umanitarie   ed
 assistenziali, piu' che di risocializzazione e di prevenzione.
    Nella  fattispecie  in esame, in particolare, sembra prevalere, su
 tutti   le   altre,   l'esigenza   di   tutela   della    maternita',
 dell'interesse-funzione  di  assistenza  familiare  e del diritto dei
 minori al mantenimento, istruzione ed educazione.
    La mancata previsione della concedibilita' del beneficio al padre,
 in caso di decesso o di impossibilita' per  la  madre  di  provvedere
 alle  esigenze  del  o  dei figli, sembra pertanto violare i principi
 stabiliti con gli artt. 3, 29,  30  e  31  della  Costituzione  della
 Repubblica italiana.
    Quanto  all'art.  3  della Costituzione, rileva il collegio che la
 norma  de  quo  discrimina  il  padre   rispetto   alla   madre,   in
 considerazione  della  particolare forma di esecuzione della pena che
 viene concessa solo per quest'ultima, in presenza  di  un  figlio  di
 eta'  inferiore  ai  tre anni con lei convivente, quando non vi siano
 motivi per escludere la capacita' del genitore di sesso  maschile  ad
 assolvere  i compiti di assistenza ed educazione in caso di assenza o
 di impossibilita' della madre.
    E' evidente e documentata, nel caso esaminato, l'incapacita' della
 moglie  del  condannato  a  provvedere  alla  figlia,  mentre  appare
 superfluo  osservare  che  il  ricovero della bambina in ospedale non
 esclude il  requisito  della  convivenza,  che  non  potra'  comunque
 realizzarsi materialmente fino alla scarcerazione del Bellavia.
    L'art.   3   appare   anche   violato,  nella  parte  che  dispone
 l'uguaglianza dei cittadini senza distinzioni di condizioni personali
 e  sociali,  con riferimento ai minori rimasti privi della assistenza
 della madre rispetto a  tutti  gli  altri.  Sono  soltanto  i  primi,
 infatti,  che  vengono  privati  del  sostegno materiale e morale che
 potrebbe essere fornito dall'unica figura familiare  di  riferimento,
 quella   paterna,  loro  rimasta,  e  cio'  a  causa  dell'assenza  o
 dell'impedimento della madre  e  del  contemporaneo  permanere  dello
 stato detentivo nei confronti del padre.
    La  grave  sofferenza  causata  al  detenuto  dalla  disparita' di
 trattamento discendente dalla mancata previsione  della  possibilita'
 di  concedere la detenzione domiciliare in presenza di una situazione
 familiare gia' resa particolarmente difficile dalla invalidita' della
 moglie  e  dalla  conseguente  mancanza di assistenza alla figlia che
 versa in precarie condizioni di salute, potrebbe, in qualche  misura,
 essere  anche  considerata  come contrastante con il principio - art.
 27, terzo comma, della Costituzione - per cui  le  pene  non  possono
 consistere  in  trattamenti  contrari  al  senso di umanita' e devono
 tendere alla rieducazione del condannato.
    Inoltre    non   puo'   dirsi   rispondente   alla   funzione   di
 rieducazione-risocializzazione quella pena che venga eseguita anche a
 costo  di  privare  il  padre  della  possibilita' di svolgere le sue
 funzioni di genitore, che diventano essenziali in tutti i casi simili
 a  quello  descritto  e che presentano una pregnante e non secondaria
 valenza sociale.
    In  analogia  a  quanto  stabilito  con  la  sentenza  della Corte
 costituzionale 14 gennaio 1987, n. 1, depositata in cancelleria il 19
 gennaio 1987, in materia di diritto del lavoro; anche l'art. 29 della
 Costituzione appare violato, laddove prevede l'uguaglianza  giuridica
 e   morale  dei  coniugi,  nel  rispetto  dell'interesse  dell'unita'
 familiare e della conseguente tutela del minore.
    La disposizione legislativa in considerazione viola inoltre l'art.
 30, primo comma, della  Costituzione,  che  stabilisce  il  principio
 della  pari  responsabilita'  dei  genitori nel compito di mantenere,
 istruire ed educare i figli.
    Non   sembra  proponibile  infatti  una  interpretazione  di  tale
 principio che prescinda dall'orientamento che vede impegnato  ciascun
 genitore,   a   seconda  delle  diverse  situazioni  che  si  possono
 presentare, nella presentazione di tutti gli interventi di assistenza
 che appaiono necessari nei confronti dei figli e comporta, sulla base
 della  riconosciuta  parita'  fra  uomo  e  donna,   il   superamento
 dell'anacronistica   ripartizione   dei   compiti  all'interno  della
 famiglia.
    Anche  in  questo caso, comunque, il legislatore costituzionale ha
 riconosciuto primaria importanza alla tutela del minore.
    Il  primo comma, n. 1, dell'art. 47- ter, dell'ord. pen. contrasta
 infine con l'art. 31 della Costituzione, laddove e' previsto  che  la
 Repubblica  agevola  la formazione della famiglia e l'adempimento dei
 compiti relativi.
                                P. Q. M.
    Visti  gli  artt.  47,  47- ter, 48 e 50 della legge n. 354/1975 e
 successive modifiche, 134 della Costituzione  e  13  della  legge  11
 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara  inammissibili  le  istanze  di  affidamento  in prova al
 servizio sociale e di semiliberta' proposte da Bellavia Calogero;
    Dichiara  d'ufficio  rilevante  e non manifestamente infondata, in
 riferimento agli  artt.  3,  29,  30  e  31  della  Costituzione,  la
 questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 47- ter, primo
 comma, n. 1, della  legge  26  luglio  1975,  n.  354,  e  successive
 modifiche  apportate, in ultimo, dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663,
 nella  parte  in  cui  non  prevede,  in  caso  di   assenza   o   di
 impossibilita'  della  madre,  la  concedibilita' del beneficio della
 detenzione domicilare al padre di prole di eta' inferiore a tre  anni
 con lui convivente;
    Sospende   il   presente  giudizio  in  relazione  all'istanza  di
 detenzione domiciliare;
    Dispone  la formazione di un nuovo fascicolo, con riferimento alla
 detenzione domiciliare, e la trasmissione  dello  stesso  alla  Corte
 costituzionale;
    Demanda  alla  cancelleria  di  notificare  la  presente ordinanza
 all'interessato, al procuratore generale, alla Corte  di  cassazione,
 al Presidente del Consiglio dei Ministri e di comunicare la stessa al
 Presidente del Senato e della Camera dei deputati.
      Trieste, addi' 22 novembre 1989
                   Il presidente: (firma illeggibile)
                                  Il giudice est.: (firma illeggibile)
 90C0113