N. 218 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 gennaio 1990

                                 N. 218
 Ordinanza  emessa  il 23 gennaio 1990 dalla corte d'appello di Torino
 nel procedimento penale a carico di Brizio Matteo ed altro
 Imposte  -  Infedele  dichiarazione  dei  redditi  - Estensione della
 punibilita',   secondo   il   "diritto   vivente"   (conforme    alla
 giurisprudenza  della  Corte  di  cassazione), alla mera omissione di
 componenti positivi del reddito  e  alla  simulazione  di  componenti
 negativi  dello  stesso  -  Difformita'  dall'interpretazione accolta
 dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247/1989 (necessita'  di
 un'attivita'  preparatoria fraudolenta) - Irragionevole disparita' di
 trattamento:   1)   tra   eguali   comportamenti   sanzionati    come
 contravvenzione  oblazionabile  se relativi a redditi non soggetti ad
 annotazioni contabili e invece come delitto  se  relativi  a  redditi
 autonomi  o d'impresa; 2) punibilita' a titolo di contravvenzione per
 colui che omette le  dichiarazioni  dei  redditi  o  dell'I.V.A.,  se
 l'evasione  superi  una  certa  soglia,  e a titolo di delitto per il
 contribuente evasore parziale.
 (D.L.  10 luglio 1982, n. 429, art. 4, primo comma, n. 7, convertito
 in legge 7 agosto 1982, n. 516).
 (Cost., art. 3).
(GU n.20 del 16-5-1990 )
                           LA CORTE D'APPELLO
                            RITENUTO IN FATTO
    Nel  corso  di  quello che nella appellata sentenza 21 maggio 1987
 del tribunale di Torino  e'  definito  il  cosiddetto  "primo  blitz"
 disposto  dalla procura della Repubblica di Torino per l'accertamento
 e la repressione dei reati di  evasione  fiscale,  venivano  eseguite
 indagini nei confronti di Brizio Matteo e Vaira Fiorenza, titolari di
 varie attivita' commerciali e in particolare soci  della  S.n.c.  Bar
 Zucca Di Brizio & C.
    Veniva  sequestrata,  nel corso di perquisizioni nel domicilio dei
 coniugi Brizio-Vaira e nei luoghi in cui essi  esercitavano  la  loro
 attivita', una ingente documentazione bancaria e contabile.
    L'imputato  Brizio  compariva  spontaneamente  il  28  giugno 1985
 avanti al p.m. (f. 67) e dichiarava  in  sintesi  quanto  segue,  per
 quanto qui interessa.
    Il Bar Zucca era in proprieta' e gestito dalla S.n.c. Bar Zucca di
 Brizio & C., di cui erano soci lui e la moglie (e dal  1985  anche  i
 figli).  Per  quanto riguardava il Bar Zucca, per l'esercizio 1983 il
 "nero" ammontava a circa L. 400.000.000 e per quello 1984 a circa  L.
 600.000.000.
    Quanto  all'esercizio  1984 aveva inserito nella dichiarazione dei
 redditi (mod. 750) anche il "nero", cercando di ricostruirlo in  modo
 induttivo. Il "nero" si formava non registrando le entrate, cioe' non
 battendo alla cassa l'importo delle consumazioni.
    Il  p.m. disponeva perizia contabile, assegnando al perito rag. E.
 Stasi l'incarico di accertare quali fossero stati il volume d'affari,
 i  ricavi  e  i conseguenti redditi imponibili degli imputati per gli
 anni 1983-84, sia individuali  sia  delle  societa'  cui  gli  stessi
 eventualmente  partecipassero,  calcolando  l'entita'  delle  imposte
 Irpef,  Irpeg,  Ilor  e  Iva  conseguenti   ai   redditi   accertati,
 quantificando  l'eventuale  divergenza  tra il valore dell'imposta in
 tal modo calcolata e quella  dichiarata  all'Erario  dagli  imputati,
 illustrando  in  quale  modo  gli  imputati,  nella  redazione  delle
 scritture contabili obbligatorie, avessero eventualmente  dissimulato
 componenti  positivi  di  redditi  e  simulato  componenti  negativi,
 nonche' quant'altro di utile al  magistrato  penale  emergesse  dalle
 indagini peritali.
    Con  la  relazione  depositata il 29 novembre 1985 il perito cosi'
 concludeva per quanto qui interessa.
    Per  l'anno  1983.  Il  volume  di  affari  della Bar Zucca S.n.c.
 dichiarato ai fini dell'Iva era stato di L. 538.914.000. Il volume di
 affari ricostruito dal perito ammontava a L. 1.250.126.000.
    Per  l'anno  1984.  Il  volume  di  affari  della Bar Zucca S.n.c.
 dichiarato ai fini dell'Iva  era  stato  di  L.  730.060.000.  Quello
 ricostruito dal perito ammontava a L. 1.425.915.000.
    Per  l'anno 1983. Il valore dei ricavi delle vendite e prestazioni
 di servizi indicato nella dichiarazione dei redditi (mod. 750  quadro
 B) era di L. 538.915.000; il valore dei ricavi ricostruito dal perito
 ammontava a L. 1.250.126.000, con una differenza  rispetto  a  quello
 dichiarato di L. 711.211.000.
   Per  il 1984. Il valore dei ricavi indicato nella dichiarazione dei
 redditi  (mod.  750  quadro  B)  era  di  L.  1.332.447.000;   quello
 ricostruito   dal  perito  ammontava  a  L.  1.425.915.000,  con  una
 differenza rispetto al valore dichiarato di L. 93.468.000.
    Per  il 1983. Il reddito dichiarato dalla societa' era stato di L.
 51.197.000; quello ricostruito dal perito ammontava a L. 762.408.000,
 con una differenza rispetto a quello dichiarato di L. 711.211.000. Il
 reddito imponibile ai fini Ilor dopo le deduzioni di legge era di  L.
 730.408.000.
    Per  il 1984. Il reddito dichiarato dalla societa' era stato di L.
 395.571.000.  Il  reddito  ricostruito  dal  perito  ammontava  a  L.
 489.039.000  con  una  differenza  rispetto a quello dichiarato di L.
 93.468.000. Rideterminate le deduzioni, il  reddito  imponibile  Ilor
 era calcolato in L. 455.461.000.
    Il perito calcolava anche l'ammontare delle imposte evase, secondo
 le rettificazioni apportate. Quanto alle modalita' del  comportamento
 antigiuridico  degli imputati osservava che esso si era concretizzato
 nelle seguenti fasi: omessa emissione degli scontrini fiscali  per  i
 corrispettivi  "neri";  omessa annotazione degli stessi nei libri dei
 corrispettivi; omessa indicazione  dei  ricavi  corrispondenti  nelle
 dichiarazioni annuali di reddito.
    Il p.m. procedeva contestando al Brizio e alla Vaira con ordine di
 comparizione i seguenti reati.
    1.  -  Reato di cui agli artt. 110 del c.p., e 1, quarto comma, n.
 1, della legge n. 516/1982 per  aver  in  concorso  tra  loro,  nella
 qualita'  di  soci  responsabili  della S.n.c. Bar Zucca & C., avendo
 effettuato nel 1983  cessioni  di  beni,  annotavano  sia  nel  libro
 giornale  sia  sui  registri  prescritti  ai fini dell'Iva i relativi
 corrispettivi in misura inferiore a quella reale per L. 711.211.000 e
 dunque  superiore  a  L.  300.000.000  e  allo  0,50%  dell'ammontare
 complessivo, risultante  dall'ultima  dichiarazione  presentata;  non
 risultando  inoltre  i  dati  delle  operazioni  da  documenti la cui
 emissione e conservazione e' obbligatoria a norma di legge.
    2. - Reato di cui agli artt. 110 del c.p., 4, n. 7, della legge n.
 516/1982 perche' in concorso tra loro, nella qualita' di cui al  capo
 1),  essendo dunque titolari di reddito di impresa, agendo al fine di
 evadere  le  imposte  dirette,  redigevano  le  scritture   contabili
 obbligatorie   e   la  dichiarazione  dei  redditi  per  l'anno  1983
 (presentata nel maggio  1984)  dissimulando  componenti  positivi  di
 reddito  costituiti da corrispettivi non annotati per L. 711.211.000,
 tali  da  alterare   in   misura   rilevante   il   risultato   della
 dichiarazione.
    3.  - Reato di cui agli artt. 110 del c.p., e 1, secondo comma, n.
 2, della legge n. 516/1982,  perche'  in  concorso  tra  loro,  nella
 qualita'  di  cui  al capo 1), avendo effettuato nel 1984 cessioni di
 beni, annotavano nelle scritture  obbligatorie  ai  fini  dell'Iva  i
 relativi  corrispettivi  in  misura  inferiore  a quella reale per L.
 93.468.000 e dunque superiore a L. 25.000.000 e al 2%  dell'ammontare
 complessivo dei corrispettivi risultati dall'ultima dichiarazione.
    4. - Reato di cui agli artt. 110 del c.p., 4, n. 7, della legge n.
 516/1982 perche', in concorso tra loro, nella qualita' di cui al capo
 1),  essendo  dunque titolari di reddito di impresa agendo al fine di
 evadere  le  imposte  dirette,  redigevano  le  scritture   contabili
 obbligatorie   e   la  dichiarazione  dei  redditi  per  l'anno  1984
 (presentata nel maggio 1985),  dissimulando  componenti  positivi  di
 reddito,  costituiti da corrispettivi non annotati per L. 93.468.000,
 tali  da  alterare   in   misura   rilevante   il   risultato   della
 dichiarazione.
    Tratti  al  giudizio  del  tribunale  di Torino per rispondere dei
 reati di cui sopra, gli imputati non comparivano  al  dibattimento  e
 venivano dichiarati contumaci.
    Il tribunale sentiva il perito Stasi, il quale forniva chiarimenti
 sulla propria relazione e riceveca dal collegio incarico di accertare
 quale fosse stato nel 1983 l'ammontare dei costi contabilizzati dagli
 imputati relativamente all'attivita' della  Soc.  Bar  Zucca,  previa
 acquisizione  di  copia  della  dichiarazione  dei redditi (mod. 750)
 presentata per quell'anno.
    Il  perito,  nel  supplemento di relazione, rispondeva che i costi
 sostenuti e contabilizzati per l'acquisto  dei  beni  destinati  alla
 rivendita ammontavano, per l'anno 1983, a L. 331.087.000.
    Il  tribunale,  con  sentenza 21 maggio 1987, dichiarava il Brizio
 colpevole dei reati ascrittigli ai capi 1, 2 e 4, uniti  dal  vincolo
 della continuazione e la Vaira colpevole del reato ascrittole al capo
 1 e, concesse ad entrambi  le  attenuanti  generiche,  condannava  il
 Brizio  alla pena di anni uno di reclusione e L. 10.000.000 di multa,
 la Vaira alla pena di mesi quattro  di  arresto  e  L.  8.000.000  di
 multa;   applicava  le  conseguenti  pene  accessorie;  concedeva  ad
 entrambi gli imputati  la  sospensione  condizionale  dell'esecuzione
 della  pena;  condannava  gli  imputati a risarcire alla parte civile
 (Amministrazione delle finanze dello Stato)  i  danni  cagionati  dal
 reato, da liquidarsi in separato giudizio e a rimborsarle le spese di
 costituzione, rappresentanza e assistenza;  assolveva  la  Vaira  dai
 reati  ascrittile ai capi 2 e 4 per insufficienza di prove. Infine il
 tribunale, rilevato che, con riferimento al capo 3 della rubrica, era
 emerso  nel corso del procedimento che il fatto era diverso da quello
 contestato agli imputati e indicato nella richiesta e nel decreto  di
 citazione  a  giudizio,  risultando  che i corrispettivi non annotati
 nelle scritture contabili degli imputati sarebbero ammontati ad oltre
 L.  300.000.000, fatto diverso che appariva altresi' riconoscibile al
 diverso reato ex art. 1,  quarto  comma,  della  legge  n.  516/1982,
 disponeva la trasmissione di copia degli atti al p.m. in sede.
    Avverso  la  sentenza  di cui sopra proponeva appello la Difesa di
 entrambi gli imputati, deducendo i seguenti motivi:
    1.  -  Relativamente ai reati di cui all'art. 4, n. 7, della legge
 n. 516/1982: il fatto non sussiste.
    2.  - Si eccepiva la illegittimita' costituzionale dell'art. 4, n.
 7, della legge in questione, in  relazione  agli  artt.  25,  secondo
 comma,  e 3, della Costituzione, con riferimento alla previsione come
 elemento costitutivo del reato della alterazione in misura  rilevante
 del risultato della dichiarazione.
    3.  -  Relativamente  al  reato  di  cui  all'art.  4,  n.  7, con
 riferimento alla dichiarazione dei redditi presentata nell'anno 1985,
 relativa all'esercizio 1984: il fatto non sussiste, in quanto, tenuto
 conto dei "costi neri",  non  puo'  essere  considerato  alterato  in
 misura rilevante il risultato della dichiarazione.
    4.   -  Relativamente  all'art.  4  n.  7,  con  riferimento  alla
 dichiarazione presentata nell'anno 1985, relativa all'esercizio 1984:
 il  fatto non costituisce reato. Dopo la perquisizione e il sequestro
 dei documenti il Brizio aveva presentato la dichiarazione dei redditi
 relativa  all'esercizio  1984  integrando quello che sarebbe stato il
 risultato della dichiarazione in base alle scritture contabili, ma la
 "integrativa"  non  sarebbe  stata  sufficiente  secondo  il  Perito,
 rimanendo pur sempre omessi ricavi per  L.  93.000.000.  Peraltro  il
 Brizio,  al  momento della effettuazione dell'integrazione, non aveva
 certamente a disposizione tutti gli elementi per poter  stabilire  il
 quantum  dei  ricavi  e non aveva quindi agito con il neeessario dolo
 specifico. In secondo luogo, era pacifico che il Brizio  aveva  agito
 sulla  base  del  presupposto,  in  allora  certo,  alla  luce  anche
 dell'interpretazione data dalle commissioni tributarie  dell'art.  74
 del  d.P.R.  n.  598/1973,  che  per reddito si intendesse il reddito
 netto e non i ricavi non dichiarati.
    In  ogni  caso, volendo considerare errata la interpretazione data
 dalle Commissioni, il Brizio aveva agito  nelle  condizioni  previste
 dall'art.  8  della legge n. 516/1982, nell'erronea convinzione cioe'
 della validita' di quell'interpretazione che consentiva la  deduzione
 dei costi non contabilizzati.
    5.   -   Relativamente   alla   contravvenzione,  si  chiedeva  la
 applicazione della sola pena pecuniaria: il superamento della  soglia
 di  punibilita'  costituiva circostanza aggravante, onde era doveroso
 il giudizio di comparazione tra le concesse  attenuanti  generiche  e
 tale  circostanza e si chiedeva che le attenuanti generiche venissero
 ritenute prevalenti.
    6.  -  Per entrambi gli imputati si chiedeva la applicazione della
 pena nei minimi edittali, con il minimo aumento per la continuazione.
    Tratti  a  giudizio avanti a questa Corte, gli imputati rimanevano
 contumaci.
    Questa corte, con ordinanza 1› giugno 1988, dichiarava rilevante e
 non   manifestamente   infondata   la   questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  4,  primo comma, n. 7 della legge 7 agosto
 1982 n. 516 in riferimento agli artt. 3 e 25,  secondo  comma,  della
 Costituzione,  nella  parte  in cui prevede come elemento costitutivo
 del reato l'alterazione  in  misura  rilevante  del  risultato  della
 dichiarazione;  ordinava la sospensione del processo nei confronti di
 entrambi gli imputati.
    Sulla  eccezione  proposta  la Corte costituzionale si pronunciava
 con ordinanza 18  maggio  1989,  n.  313,  dichiarando  la  manifesta
 infondatezza  della  questione sollevata da questa corte d' appello e
 diversi altri giudici, osservando che la questione stessa  era  stata
 dichiarata  infondata  dalla  Corte  costituzionale  con  sentenza n.
 247/1989 e che le ordinanze di rimessione non prospettavano argomenti
 nuovi  o  diversi rispetto a quelli gia' esaminati dalla corte con la
 precitata decisione.
    Al  dibattimento  odierno  davanti  a  questa  corte gli imputati,
 ritualmente citati, non comparivano e venivano dichiarati  contumaci.
 Il  patrono della parte civile concludeva per il rigetto dell'appello
 e lo accoglimento della  propria  istanza;  il  procuratore  generale
 chiedeva  la  conferma  della  sentenza  appellata;  la  difesa degli
 imputati  chiedeva  l'accoglimento  dei  propri  motivi  di   appello
 (escluso   quello   sub   2  superato  dalla  decisione  della  Corte
 costituzionale) e, in  subordine,  per  il  caso  che  la  corte  non
 accogliesse  la  proposta interpretazione della norma di cui all'art.
 4,  primo  comma,  n.  7,  proponeva  eccezione   di   illegittimita'
 costituzionale della norma predetta, richiamando la motivazione della
 sentenza n. 247/1989 della Corte costituzionale.
                         CONSIDERATO IN DIRITTO
     Come  si e' visto, il Brizio e' stato dichiarato responsabile dal
 Tribunale dei reati ascrittigli ex art. 4 n. 7 (rectius, ex  art.  4,
 primo  comma,  n.  7)  della  legge n. 516/1982 (rectius, del decreto
 legge 10 luglio 1982 n. 429 come convertito in legge 7 agosto 1982 n.
 516)  e  condannato  alla  pena  di  cui nella parte espositiva della
 presente ordinanza. L' imputato non ha contestato  i  fatti  posti  a
 base delle imputazioni ed ha anzi ammesso nell'interrogatorio al p.m.
 (cui si presento' spontaneamente) di aver  operato  "in  nero"  nella
 gestione  del  Bar  Zucca,  non  registrando  una parte delle entrate
 (cioe' non battendo alla cassa l'importo delle consumazioni).
    In  ordine  ad  entrambi  i  reati di cui si tratta la difesa, nel
 primo motivo di appello,  ha  sostenuto  l'insussistenza  del  fatto,
 criticando   l'orientamento   del  tribunale  sulla  sufficienza  del
 semplice mendacio, inteso come mancata annotazione  di  ricavi  nelle
 scritture  contabili,  come dissimulazione di componenti positivi del
 reddito e svolgendo argomentazioni a sostegno della tesi proposta.
    Il  predetto motivo di appello pone dunque alla Corte la questione
 dell'interpretazione dell'art. 4, primo comma n.  7  citato,  il  cui
 testo  conviene  qui riportare per la parte che interessa: "E' punito
 con la reclusione dai sei mesi a cinque anni e con la multa da cinque
 a  dieci  milioni di lire chiunque, al fine di evadere le imposte sui
 redditi e l'imposta sul valore aggiunto o di conseguire  un  indebito
 rimborso ovvero di consentire l'evasione o indebito rimborso a terzi:
 (...).
    7.  - Essendo titolare di redditi di lavoro autonomo o di impresa,
 redige le scritture contabili obbligatorie, la dichiarazione  annuale
 dei  redditi  ovvero  il  bilancio  o  rendiconto  ad  essa  allegato
 dissimulando componenti positivi o simulando componenti negativi  del
 reddito,  tali  da  alterare  in  misura rilevante il risultato della
 dichiarazione".
    La Corte costituzionale, con la ricordata sentenza n. 247/1989, ha
 dichiarato infondata  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  4,  primo  comma, n. 7, che era stata proposta da numerosi
 giudici,   con   riferimento   alla'   prospettata   indeterminatezza
 dell'espressione  "tali  da alterare in misura rilevante il risultato
 della dichiarazione" in relazione agli artt. 3,  primo  comma  e  25,
 secondo comma, della Costituzione.
    In  estrema  sintesi,  la  Corte costituzionale ha ritenuto quanto
 segue.
    Va  anzitutto  stabilita la posizione che la "misura rilevante" in
 questione ha nel  contesto  dell'intera  fattispecie  prevista  dallo
 stesso numero del citato comma.
    La  predetta  "misura  rilevante"  non e', per se', giuridicamente
 configurabile quale momento del contenuto di un elemento  costitutivo
 del reato: essa infatti, non solo non fa parte del "dolo", ma neppure
 fonda, e tantomeno esaurisce, il contenuto offensivo del  fatto:  tal
 contenuto  risulta,  infatti, gia' tipicamente individuato attraverso
 il disvalore della condotta e dell'evento (per chi  lo  configuri)  a
 prescindere   dalla   "misura   rilevante"   dell'alterazione   della
 dichiarazione. La "misura rilevante" indica, invero,  il  "peso"  del
 carico  offensivo  del  delitto  ma  non  entra,  non  fa parte della
 qualita' offensiva del delitto stesso. Da cio' discende che  soltanto
 quando  il legislatore avesse fatto ruotare l'intero o gran parte del
 disvalore   offensivo   del   fatto    sulla    "misura    rilevante"
 dell'alterazione si sarebbero violati gli artt. 3, primo comma, e 25,
 secondo comma, della Costituzione. Il contenuto offensivo  del  fatto
 si   incentra,  a  prescindere  dalla  "quantita'"  dell'alterazione,
 esclusivamente sul disvalore del fatto in senso stretto, a cui rimane
 estranea la "misura rilevante".
    Segue,  nella  sentenza  della  Corte costituzionale, una parte di
 motivazione relativa all'interpretazione del "fatto in senso stretto"
 della  norma  in  questione,  che  conviene  riportare integralmente,
 poiche' con essa la Corte stessa prende posizione sul significato dei
 verbi "dissimulare" e "simulare" nel numero 7 di cui si tratta.
    Dal confronto tra il delitto di cui al n. 7 dell'art. 4 del citato
 decreto e i delitti di cui ai nn. da 1 a 6 dello  stesso  art.  4  si
 desume   che,   come   per   questi  ultimi  delitti,  anche  per  la
 realizzazione dell'ipotesi di cui al citato n. 7, non e'  sufficiente
 una  condotta  consistente  nel  solo  omettere  la  dichiarazione di
 componenti positivi del reddito e (o)  la  sola  dichiarazione  della
 sussistenza  di  componenti  negativi  dello stesso reddito bensi' e'
 indispensabile  che  la  condotta  in  esame  si  esprima  in   forme
 "corrispondenti" a quelle necessarie per integrare le diverse ipotesi
 di frode fiscale.
    Il confronto tra il delitto di cui al n. 7 dell'art. 4 del decreto
 in discussione e le ipotesi contravvenzionali  previste  dal  secondo
 comma  dell'art.  1  dello  stesso decreto convince ancor piu' che la
 condotta del delitto di cui al n. 7 dell'art. 4  deve  esprimersi  in
 forme  oggettivamente artificiose, fraudolente. Ove la dissimulazione
 di componenti positivi del reddito (di  cui  al  n.  7  dell'art.  4)
 potesse  concretarsi  in  una mera omissione, la condotta in esame si
 sovrapporrebbe, in pratica, alle ipotesi contravvenzionali  dell'art.
 1,   secondo   comma;   e   cio'   determinerebbe,   peraltro,  gravi
 contraddizioni  sistematiche   in   quanto,   poiche'   le   predette
 contravvenzioni  soggiacciono alla ben nota soglia di punibilita', al
 di sotto della stessa soglia potrebbe, paradossalmente, subentrare la
 punibilita' a titolo di frode.
    Per esigenze di corrispondenza simmetrica con la "dissimulazione",
 anche la "simulazione", prevista  dal  delitto  in  esame,  non  puo'
 essere  realizzata  attraverso  una  semplice, mendace indicazione di
 componenti  negativi  del  reddito:  la   "simulazione"   di   questi
 componenti,  peraltro,  non  e' neppure concepibile senza un supporto
 documentale contrario alla realta'.
    Nel  rinviare  alla  prevalente  dottrina per le altre motivazioni
 (che qui ovviamente non possono essere  una  per  una  ricordate)  in
 ordine all'ora accolta interpretazione del significato della condotta
 del delitto di cui al n. 7 dell'art. 4  del  d.-l.  n.  429/1982,  va
 particolarmente sottolineato che soltanto la predetta interpretazione
 mentre consente (e' stato gia' rilevato  in  dottrina)  di  conferire
 alla condotta e all'intera fattispecie tipica del delitto in esame il
 piu' alto grado possibile di conformita'  al  fondamentale  principio
 d'uguaglianza  (evitando  l'irragionevole  disparita' di trattamento,
 consistente  nel  sanzionare  lo  stesso  comportamento,   l'infedele
 dichiarazione,  come semplice contravvenzione oblazionabile quando ha
 ad oggetto redditi non soggetti  ad  annotazione  contabile  e  grave
 delitto  quando  concerne  redditi  di  lavoro  autonomo o d'impresa,
 derivanti da cessione di beni  o  prestazione  di  servizi)  consente
 anche   di  interpretare  il  significato  dell'evento  (per  chi  lo
 configuri) del delitto  in  discussione  (alterazione  del  risultato
 della dichiarazione) quale risvolto della condotta frodatoria e cosi'
 permette  di  dare   all'intera   fattispecie   una   chiara,   netta
 significazione, che caratterizza l'intero disvalore offensivo tipico,
 a prescindere dalla "misura  rilevante":  quest'ultima,  in  presenza
 d'un  completo  significato  offensivo  tipico del fatto, pur facendo
 parte  della  fattispecie  in  senso  ampio  (e   dovendo   anch'essa
 raggiungere  un  grado  di  determinatezza, come oltre si precisera',
 idoneo non a garantire la liberta' ma il  principio  di  uguaglianza)
 risulta,  dunque,  estranea alla dimensione intrinsecamente offensiva
 del fatto in senso  stretto,  limitandosi  a  connotare  soltanto  la
 gravita' dell'intera fattispecie del delitto in esame.
    Proseguendo  nelle  sue  argomentazioni,  la  Corte costituzionale
 ribadisce che la  "misura  rilevante"  dell'alterazione  costituisce,
 soltanto,   filtro   selettivo,   che  non  incide  sulla  dimensione
 intrinsecamente offensiva del fatto, ma ne connota solo la  gravita',
 contrassegnando  il  limite a partire dal quale l'intervento punitivo
 e' ritenuto opportuno.
    Anche  la  previsione  della "misura rilevante" deve soggiacere al
 principio di determinatezza: nei  confronti  della  predetta  misura,
 tuttavia,  tal  principio  si  esprime  in  termini  diversi  che non
 rispetto ai requisiti essenziali dell'offesa tipica,  a  causa  della
 diversa  funzione  che  la  prima  e  questi  ultimi  sono chiamati a
 svolgere e del non essere richiesta, per le condizioni obiettive,  la
 conoscenza dei dati assunti a contenuto della medesima.
    Prosegue  la  Corte  costituzionale  osservando  che  i criteri di
 interpretazione che la giurisprudenza  ha  proposto,  allo  scopo  di
 attribuire  alla  "misura rilevante", inserita nel quadro dell'intera
 fattispecie del  delitto  in  esame,  un  significato  "determinato",
 evitano  disparita'  di  trattamento nella repressione del delitto di
 cui si discute.
    Tali  criteri  sono:  quello percentuale, quello assoluto e quello
 proporzionale (all'entita' dell'imposta suscettiva di essere  evasa).
 L'applicazione  congiunta  di  essi  evita  la violazione dell'art. 3
 della Costituzione.
    La Corte costituzionale, per quanto ora interessa particolarmente,
 ha dunque preso posizione - sia pure con  una  motivazione  che,  per
 quanto   risulta   dalla   stessa   sentenza   non  e'  completamente
 esplicitata, la' dove essa rinvia alla  prevalente  dottrina  per  le
 altre  motivazioni  (che  qui  ovviamente non possono essere, una per
 una, ricordate)  in  ordine  alla  ora  accolta  interpretazione  del
 significato  della  condotta  del  delitto di cui al n. 7..." - sulla
 questione   del   significato   da   attribuire   alle    espressioni
 "dissimulando componenti positivi o simulando componenti negativi del
 reddito".
    Si   tratta   di   questione   assai   controversa,  che  vede  la
 giurisprudenza nella maggior parte  (per  quanto  e'  noto  a  questo
 collegio)  orientata  nel  senso  che  le  nozioni  di  simulazione e
 dissimulazione si estrinsecano nella dichiarazione o rappresentazione
 consapevole  di  una  cosa per un'altra non necessariamente preceduta
 ne' accompagnata da falsa documentazione o da altri mezzi ingannevoli
 e,  per  contro,  la  dottrina nella maggior parte (sempre per quanto
 consta a questo collegio) orientata nel senso che la simulazione e la
 dissimulazione  di  cui si tratta sono necessariamente oggettivamente
 artificiose, fraudolente e richiedono un quid  pluris  rispetto  alla
 mera falsa dichiarazione o rappresentazione.
    La  Corte  costituzionale  da'  il suo autorevolissimo avallo alla
 seconda delle interpretazioni sopra esposte. Lo fa peraltro  con  una
 sentenza  interpretativa  di  rigetto della questione di legittimita'
 costituzionale della parte del piu' volte citato art. 4, primo comma,
 n.  7, relativa alla misura rilevante della alterazione del risultato
 della dichiarazione. Non sembra dunque  che  l'interpretazione  della
 Corte costituzionale sia vincolante per i giudici; in tal senso si e'
 espressa recentemente anche la Cassazione (sent. 3  luglio  1989,  in
 Corriere tributario, n. 41, 1989, pag. 2895 segg.).
    Questa  corte  deve  prendere  pertanto  posizione sulla questione
 interpretativa,   con   particolare   riferimento   al    significato
 dell'espressione  "dissimulando componenti positivi del reddito"'. E'
 infatti contestato al Brizio ai capi  2  e  4,  di  aver  dissimulato
 componenti  positivi  di  reddito  costituito  da  corrispettivi  non
 annotati, rispettivamente per L. 711.211.000 e L.  93.468.000,  nella
 qualita'  di  socio  della S.n.c.  Bar Zucca, rispettivamente per gli
 anni 1983-1984. La contestazione si limita alla mancata annotazione e
 dichiarazione  di tali corrispettivi e non accenna in alcun modo a un
 quid pluris fraudolento nella condotta tenuta dall'imputato.
    La  questione  interpretativa  e'  indubbiamente  assai delicata e
 questa corte non puo' non rammaricarsi  -  come  d'altronde  e'  gia'
 stato  fatto  piu'  volte  in  giurisprudenza  e  in  dottrina  - che
 l'espressione usata dal legislatore,  in  materia  cosi'  delicata  e
 importante,  sia  certamente  poco  chiara  e  si  presti  a  diverse
 interpretazioni.
    Questa  Corte  non ritiene che dai lavori preparatori parlamentari
 si possano trarre sicure  indicazioni  a  favore  o  contro  l'una  o
 l'altra tesi. Le indicazioni appaiono infatti contraddittorie.
    Appare  invece  rilevante la ratio dell'intervento del legislatore
 penale  del  1982:  apprestare  un  efficace  e   dissuasivo   regime
 sanzionatorio  in particolare per le evasioni tributarie di categorie
 di percettori di reddito le cue forme proprie di  produzione  offrono
 superiori possibilita' di evasione: tra essi i titolari di reddito di
 lavoro autonomo o di impresa. Come ha rilevato  la  Cassazione  nella
 sentenza  11  marzo  1987, imp. La Piccirella (in Cass.. pen. , 1988,
 pag. 702 segg.): "Trattasi  di  soggetti  vincolati  alla  tenuta  di
 registrazioni  contabili  imposte  per  documentare  il  movimento di
 affari, i corrispettivi ricavati dalle suesposte attivita',  i  costi
 sostenuti,  onde  consentire un' agevole ricostruzione dell'ammontare
 dei redditi percepiti; da  qui  l'obbligo  prescritto  ai  percettori
 anzidetti di far corrispondere i dati effettivi a quelli documentali,
 il  cui  difetto  puo'   riscontrarsi   nelle   scritture   contabili
 obbligatorie,  nella  dichiarazione dei redditi ovvero nel bilancio e
 nel rendiconto ad esso allegato e, conseguentemente, la previsione di
 tipiche  fattispecie penali "consistenti o in ipotesi ben definite di
 frodi fiscali o in fatti semplici il cui accertamento non  presuppone
 la  determinazione  dell'imposta  evasa  e  tali,  pertanto,  da  non
 comportare, per  la  verifica  della  loro  sussistenza,  l'attivita'
 amministrativa di accertamento".
    Occorre  tenere  presente  che  il caso che piu' frequentemente si
 verifica, nella materia in questione, come  l'esperienza  giudiziaria
 dimostra,  e' quello del contribuente percettore di redditi di lavoro
 autonomo o di impresa che  semplicemente  omette  di  indicare  nelle
 scritture  contabili  e/o  nella dichiarazione dei redditi componenti
 positivi del reddito stesso.
    Anche  nel  caso di componenti negativi inesistenti, il piu' delle
 volte il comportamento illegittimo del contribuente evasore si limita
 alla  esposizione  di  componenti negativi appunto inesistenti, senza
 alcun quid pluris fraudolento.
    Una  interpretazione  che  richiedesse  un quid pluris fraudolento
 rispetto alla mera  omissione  di  elementi  positivi  e  alla  falsa
 esposizioni  di elementi negativi frustrerebbe, nella gran parte, dei
 casi, l'intento esplicitato  di  apprestare  con  le  nuove  sanzioni
 penali (e in particolare con l'art. 4, primo comma, n. 7) un efficace
 argine alle evasioni fiscali piu' rilevanti.
    Dal  punto  di  vista semantico "simulare" significa "fingere, far
 parere che ci sia qualcosa che in realta' non c'e'"  e  "dissimulare"
 significa  "nascondere  qualita',  difetti, sentimenti e simili sotto
 diversa apparenza" (cosi' il Nuovo Zingarelli, XI ediz.). Non  sembra
 dunque  che,  nell'uso  comune  le espressioni simulare e dissimulare
 significhino qualcosa di piu' che far apparire la realta' diversa  da
 quella che e' (nel caso di specie, ad es., semplicemente omettendo di
 annotare e dichiarare corrispettivi).
    Il confronto con altre norme giuridiche penali in cui compaiono le
 espressioni "simulare" e "dissimulare" porta un ulteriore argomento a
 favore  della  tesi  che  non  richiede  altro che la dichiarazione o
 rappresentazione consapevole di una cosa per un'altra. Si  richiamano
 in  proposito  gli artt. 367, 641, 670, secondo comma del c. p., 232,
 terzo comma, n. 1 e 236 della legge fallimentare.
    Non   appare   risolutivo,  per  far  propendere  a  favore  della
 interpretazione che richiede il quid pluris; il fatto che  l'art.  4,
 primo  comma,  comprenda,  oltre  alla  fattispecie di cui si tratta,
 altre  sei  fattispecie  caratterizzate  indubbiamente  da   "frode",
 perche'  il  legislatore  ben  puo'  aver  scelto,  nella  attuazione
 dell'intento di cui si e' detto, di punire con  la  stessa  severita'
 anche  condotte  non  necessariamente caratterizzate da frode, ma pur
 sempre ritenute molto gravi.
    Se  dunque appare preferibile l'interpretazione piu' rigorosa come
 si e' gia' detto sostenuta dalla maggior parte della giurisprudenza e
 ribadita  recentemente  dalla Cassazione con la sentenza citata del 3
 luglio 1989 - si pone il problema  se  tale  interpretazione  sollevi
 questioni di legittimita' costituzionale.
    Questa  corte,  in  proposito, non puo' non rilevare che la stessa
 Corte costituzionale ha  esposto  che  l'interpretazione  seguita  da
 questa  corte  d'appello  provocherebbe  "irragionevole disparita' di
 trattamento, consistente  nel  sanzionare  lo  stesso  comportamento,
 l'infedele dichiarazione, come semplice contravvenzione oblazionabile
 quando ha ad oggetto redditi non soggetti ad annotazione contabile  e
 grave  delitto  quando  ha  ad  oggetto  redditi di lavoro autonomo o
 d'impresa, derivanti da cessione di beni e prestazioni di servizi".
    Il  riferimento  della  Corte costituzionale e' evidentemente alla
 fattispecie contravvenzionale di cui all'art. 1, secondo comma, n. 3,
 della legge in questione.
    L'obiezione,  proposta  dalla  Corte  di  cassazione  nella citata
 sentenza 3 luglio 1989, secondo cui  l'ipotesi  contravvenzionale  si
 diversifica  da quella delittuosa oggettivamente perche' non richiede
 l'alterazione  in  misura  rilevante  del  risultato  del  reddito  e
 soggettivamente in quanto, pur comprendendo in alternativa alla colpa
 il dolo, non esige quello specifico ovvero  il  fine  determinato  di
 evadere l'imposta o di conseguire un rimborso, non appare tale da far
 ritenere  manifestamente  infondata  la  questione  di   legittimita'
 costituzionale.  Invero,  secondo la piu' volte citata sentenza della
 Corte  costituzionale,  l'alterazione   in   misura   rilevante   non
 rappresenta  elemento costitutivo della condotta, non fa quindi parte
 dell'elemento oggettivo, ma e' in sostanza una  condizione  obiettiva
 di   punibilita'.  In  secondo  luogo  il  dolo  specifico  ben  puo'
 correggere anche il reato contravvenzionale e di fatto il piu'  delle
 volte  lo  sorreggera',  perche'  chi  indica  redditi  di  ammontare
 complessivo  inferiore  a  quello  effettivo,  specialmente   se   la
 differenza e' rilevante, lo fa proprio al fine di evadere le imposte.
    Una ulteriore questione di legittimita' costituzionale, sempre per
 contrasto con l'art. 3 della  Costituzione,  in  punto  irragionevole
 disparita' di trattamento, e' prospettabile nel senso che, per l'art.
 1, primo comma, della legge in questione, e'  punibile  a  titolo  di
 contravvenzione  chi omette di presentare una delle dichiarazioni che
 e' obbligato a  presentare  ai  fini  della  imposte  sui  redditi  o
 sull'IVA  quando  l'ammontare non dichiarato superi una certa soglia;
 mentre e' punibile a titolo di delitto, ex art. 4, primo comma, n. 7,
 il contribuente evasore parziale e non totale.
    Anche  tale  questione  appare  a  questa corte non manifestamente
 infondata, nel senso che sembra irragionevole punire piu'  gravemente
 chi,  pur  violando  l'obbligo  di  redigere  fedelmente le scritture
 contabili e la dichiarazione annuale dei redditi, comunque le redige,
 rispetto   a   chi  a  tale  obbligo  si  sottrae  completamente.  La
 Cassazione, nella citata sentenza 3 luglio 1989, ha ritenuto  che  la
 diversita'  di  trattamento  possa incontrare una giustificazione nel
 rilievo che "l'omittente  e'  completamente  scoperto  dalla  mancata
 dichiarazione  e,  quindi,  e' facilmente esposto alla investigazione
 amministrativa  e  penale,  mentre  lo  e'  raramente  colui  che  ha
 ottemperato".    Sembra    peraltro   a   questo   collegio   o   che
 l'argomentazione non sia condividibile e comunque  non  sia  tale  da
 dimostrare   con   certezza  che  la  diversita'  di  trattamento  e'
 giustificata.  Si  puo'  infatti  osservare   che   chi   omette   la
 dichiarazione  puo' sfuggire completamente alle indagini tributarie o
 penali (specialmente se non ha fatto  in  precedenza  dichiarazioni),
 mentre  chi  ha redatto la dichiarazione infedele lascia comunque una
 traccia documentale  che  puo'  attrarre  l'attenzione  degli  uffici
 tributari  o  della  magistratura  inquirente.  Se  cosi'  e', appare
 irragionevole che chi commette un fatto piu' grave  sia  punito  meno
 gravemente  di  chi,  pur  violando  la  legge,  redige  comunque  le
 scritture contabili obbligatorie e la dichiarazione dei redditi,  sia
 pure in modo non veritiero.
    In conclusione, questa corte aderisce alla interpretazione secondo
 cui la dissimulazione di componenti  positivi  e  la  simulazione  di
 componenti  negativi  non  richiedono,  nel  testo dell'art. 4, primo
 comma, n. 7, un quid pluris rispetto alla  omessa  dichiarazione  (di
 componenti  positivi)  o  alla  mendace  indicazione  (di  componenti
 negativi).   Come   si   e'   gia'   detto,   e'    l'interpretazione
 prevalentemente seguita dai giudici di merito e costantemente seguita
 - per quanto consta -  dalla  Cassazione.  Tale  interpretazione  da'
 luogo   alle  due  questioni  di  legittimita'  costituzionale  sopra
 esposte, su una delle quali il giudice delle leggi ha sia pur in modo
 non  vincolante  - cosi' almeno sembra - esposto il suo orientamento.
 La rilevanza delle due questioni nel presente giudizio  e'  evidente.
 Per  quanto  riguarda la posizione del Brizio: se la norma denunciata
 dovesse essere ritenuta incostituzionale, il Brizio  dovrebbe  essere
 assolto dai reati sub 2 e 4 perche' il fatto non sussiste, essendogli
 stato imputato soltanto di aver omesso di  indicare  nelle  scritture
 contabili  obbligatorie  e nella dichiarazione dei redditi componenti
 positivi di reddito.
    La Vaira, assolta con formula dubitativa dal concorso nei reati di
 cui sopra, potrebbe fruire, nel caso di  accoglimento  dell'eccezione
 di incostituzionalita', di assoluzione con la medesima formula ampia.
                                 P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87;
    Dichiara  rilevante e non manifestamente infondata la questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 4, primo comma, n. 7, del d.-l.
 10 luglio 1982, n. 429 come convertito in legge 7 agosto 1982 n. 516,
 in riferimento all'art. 3 della Costituzione,  nella  parte  relativa
 alla  dissimulazione  di  componenti  passivi  e  alla simulazione di
 componenti negativi di reddito, come sopra proposta;
    Ordina  la  sospensione  del processo nei confronti degli imputati
 Brizio e Vaira;
    Manda  alla  cancelleria  di  trasmettere  gli  atti  alla  Corte,
 costituzionale, di notificare la presente ordinanza al Presidente del
 Consiglio   dei  Ministri  e  di  comunicare  l'ordinanza  stessa  ai
 Presidenti delle due Camere del Parlamento.
      Torino, addi' 23 gennaio 1990
                   Il presidente: (firma illeggibile)

 90C0517