N. 222 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 febbraio 1990

                                 N. 222
 Ordinanza  emessa  il  13  febbraio  1990 dal giudice per le indagini
 preliminari presso la pretura di Camerino nel procedimento  penale  a
 carico di Goldshtein Abraham Leon
 Processo penale - Nuovo codice - Procedimento per decreto - Richiesta
 del p.m. quoad poenam - Irrogazione della pena in  misura  diversa  -
 Impossibilita' - Lamentata violazione del principio di soggezione del
 giudice alla sola legge - Lesione  dell'obbligo  di  motivazione  dei
 provvedimenti  giurisdizionali - Richiamo alla sentenza n.  120/1984.
 (C.P.P. 1988, art. 460, secondo comma).
 (Cost., artt. 101 e 111).
(GU n.20 del 16-5-1990 )
                 IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
    Nel  procedimento  penale n. 499/89 mod. 22 a carico di Goldshtein
 Abraham Leon, generalizzato come in atti;
    Premesso che:
      il   procuratore   della   Repubblica   presso   questa  pretura
 circondariale ha esercitato l'azione penale richiedendo  in  data  30
 gennaio  1990  l'emissione di decreto di condanna per il reato di cui
 all'art. 116 del regio decreto 21 dicembre 1933, n. 1736,  per  avere
 il detto imputato emesso sulla Cassa di Risparmio di Jesi, in assenza
 di provvista sufficiente, un assegno  bancario  di  L.  3.000.000  in
 Matelica il giorno 30 novembre 1989;
      il   procuratore   della  Repubblica  ha  indicato  la  pena  da
 infliggere nella misura di L. 150.000 di multa.
                             O S S E R V A
    Questo  giudice,  accertato che non ricorre a favore dell'imputato
 taluna delle cause di non  punibilita'  elencate  dall'art.  129  del
 c.p.p.,  ritiene  che la pena indicata dal p.m. non sia adeguata alle
 dimensioni  obiettive  e  subiettive  del  reato,  tenuto  conto  che
 l'emissione  non  e'  particolarmente modesta, che l'assegno e' stato
 protestato ovvero non coperto neppure al momento della presentazione,
 e che l'imputato ha tre precedenti penali specifici.
    Si ritiene che sia irroganda una pena di misura superiore a quella
 prospettata dal p.m., e cio' secondo giudizio di congruita' che trova
 i  suoi  referenti  nei  criteri  predeterminati  dalle  disposizioni
 legislative di cui agli artt. 132 e 133 del c.p. Un siffatto giudizio
 e'  pero' inibito a questo giudice dalla norma dell'art. 460, secondo
 comma, del c.p.p.,  la  quale  stabilisce  che  "con  il  decreto  di
 condanna  il  giudice  applica  la  pena  nella  misura richiesta dal
 pubblico ministero...".
    Il  tenore  letterale  della  norma e' talmente univoco da rendere
 impossibile qualsiasi altra interpretazione che non sia quella che il
 giudice  non  puo'  applicare una misura della pena diversa da quella
 richiesta dal pubblico ministero. Non sembra che il contrasto tra  la
 determinazione  del  pubblico  ministero  e  la valutazione di questo
 giudice  possa  essere  ovviato  mediante  una  declaratoria  di  non
 accoglimento della richiesta ai sensi dell'art. 495, terzo comma.
    Sembra,  infatti,  questo  istituto  processuale essere funzionale
 soltanto  ad  un  controllo  di  rito,   sulla   ammissibilita'   del
 procedimento  speciale,  e  non gia' ad un controllo sul merito della
 richiesta che sia diverso da  quello  esitante  in  una  sentenza  di
 proscioglimento  a  norma  dell'art. 129 ed analogo a quello previsto
 dall'art. 442, secondo comma.
    Peraltro,  ammesso  in  ipotesi  il  contrario,  l'unica  corretta
 alternativa finale per il pubblico ministero sarebbe l'emissione  del
 decreto   di  citazione  a  giudizio,  evenienza  questa  chiaramente
 frustrante quelle esigenze di speditezza e  di  economia  processuale
 che costituiscono la ratio del procedimento per decreto.
    Tale  risultando  l'assetto  legislativo  della  materia, sembra a
 questo giudice non manifestamente infondato il dubbio  che  la  norma
 del  comma  secondo  dell'art. 460 del c.p.p. sia in conflitto con il
 precetto costituzionale di cui all'art. 101  cpv.,  per  il  quale  i
 giudici sono soggetti soltanto alla legge.
    Confortano   un   simile   sospetto,  per  evidente  analogia,  le
 motivazioni addotte dalla Corte costituzionale nella decisione n. 120
 del  30  aprile  1984,  relativa  alla valenza processuale del parere
 favorevole del p.m. richiesto dall'abrogato art. 77  della  legge  24
 novembre 1981, n. 689.
    Il  rispetto  della norma costituzionale esige che la scelta della
 misura  della  pena  sia  un  atto  di  autonomia  del  giudice,   da
 esercitarsi  nell'ambito  e  con l'osservanza dei criteri generali ed
 astratti precostituiti  dal  legislatore,  e  che  questi  non  possa
 limitare  la funzione giurisdizionale fino al punto di ridurla ad una
 mera riproduzione protocollare di una valutazione altrui.
    Se  cosi'  fosse  o  potesse essere, tanto varrebbe che il giudice
 anziche' emettere il decreto di  condanna  esercitasse  un  controllo
 interno  di astratta legalita' sulla richiesta del pubblico ministero
 ed all'esito autorizzasse essa parte ad esteriorizzarla nei confronti
 dell'indagato.
    La   norma   dell'art.   460,  secondo  comma,  del  c.p.p.  priva
 concludentemente la funzione  giurisdizionale  altresi'  dell'obbligo
 della  motivazione, in contrasto con il precetto di cui all'art. 111,
 primo comma, della Corte, precetto questo che costituisce il versante
 speculare  di quello dell'autonomia, l'uno non essendo concepibile in
 un determinato assetto istituzionale dei poteri - senza l'altro.
    Se  il  giudice e' vincolato alla richiesta del pubblico ministero
 sulla misura della pena, non puo' correttamente adempiere all'obbligo
 della  relativa motivazione; questa, in caso di dissenzo, diventa una
 pura finzione, espressione non gia' di autonomia bensi' di soggezione
 alla richiesta della parte pubblica, coartata com'e' a modellarsi per
 adesione.
    E  si'  che  il  giudice  e'  vincolato nella sua decisione ad una
 richiesta unilaterale, a differenza di quanto altrimenti e'  previsto
 nel  procedimento  speciale  di  applicazione della pena su richiesta
 delle parti (art. 444 del c.p.p.), ove inoltre, pur in presenza di un
 consenso  esplicito, l'emanazione del provvedimento e' subordinata ad
 un controllo di correttezza sulla applicazione e  sulla  comparazione
 delle  circostanze prospettate dalle parti, id est sulla misura della
 pena pattiziamente stabilita.
    Con  buona  dose  di  fantasia  giuridica,  si potrebbe in ipotesi
 ritenere che nel procedimento per decreto il  consenso  dell'imputato
 abbia   rilevanza   processuale   come   eventuale   e   posticipato,
 manifestantesi in positivo con l'acquiescenza  alla  condanna  ed  in
 negativo con la proposizione della opposizione.
    Tesi  interpretativa  che  riduce  il  ruolo  del  giudice,  entro
 l'involucro nominalistico di una decisione, a quello di  mero  organo
 di  trasmissione della proosta pattizia del pubblico ministero, posto
 che manca comunque un  controllo  di  correttezza  analogo  a  quello
 previsto dall'art. 444 del codice di procedura penale.
    Ma,  cio'  a  parte,  svariati  sono  gli argomenti che dimostrano
 l'infondatezza della tesi.
    Nel  vigente  sistema  processuale  l'opposizione  al  decreto  di
 condanna puo' essere configurata soltanto come atto di dissenso sulla
 scelta  del rito effettuata dal pubblico ministero, siccome si desume
 dall'art.  461,  terzo  comma,  secondo  il  quale  con   l'atto   di
 opposizione  l'imputato  puo'  chiedere  al  giudice che ha emesso il
 decreto  di  condanna  il  giudizio  immediato  ovvero  il   giudizio
 abbreviato ovvero l'applicazione della pena a norma dell'art. 444.
    In  concreto,  poi,  l'opposizione  puo'  essere fondata su motivi
 diversi da  quelli  attinenti  alla  misura  della  pena  inflitta  e
 perfettamente  compatibili  con  l'accettazione  della  stessa:  cio'
 nonostante, ed in ogni caso, il giudice del  dibattimento  revoca  il
 decreto  di  condanna  e puo' applicare una pena anche diversa e piu'
 grave di quella fissata nel decreto di condanna (art. 464, secondo  e
 terzo comma).
    Le  norme  del titolo quinto del libro sesto in realta' precludono
 all'imputato anche quel consenso tacito  che  secondo  la  disciplina
 dell'abrogato  codice  era  ravvisabile  nella  scelta  della mancata
 presentazione  all'udienza  dibattimentale,  difettando  invero   una
 disciplina analoga a quella dell'abrogato art. 510, primo comma.
    L'irrilevanza  di  una  qualsiasi  acquiescenza  dell'imputato non
 opponente e' resa infine  manifesta  dalla  disposizione  del  quinto
 comma  dell'art.  464, relativo alla revoca in suo favore del decreto
 di condanna in  caso  di  assoluzione  con  determinate  formule  del
 coimputato opponente.
    La questione, sulla cui rilevanza processuale gia' si e' detto, va
 pertanto rimessa all'esame della Corte costituzionale.
                                P. Q. M.
    Dichiara  la  rilevanza  e  la  non  manifesta  infondatezza della
 questione di legittimita'  costituzionale  della  norma  del  secondo
 comma  dell'art.  460  del codice di procedura penale, nella parte in
 cui preclude al giudice  l'applicazione  della  pena  in  una  misura
 diversa da quella richiesta dal pubblico ministero, per contrasto con
 gli artt. 101 cpv. e 111, primo comma, della Costituzione;
    Dispone   la   immediata   trasmissione   degli  atti  alla  Corte
 costituzionale e sospende il giudizio in corso;
    Manda   alla  cancelleria  per  la  notificazione  della  presente
 ordinanza alle parti del processo ed al Presidente del Consiglio  dei
 Ministri, e per la sua comunicazione ai Presidenti del Senato e della
 Camera dei deputati.
      Camerino, addi' 13 febbraio 1990
                         Il giudice: GIONTELLA

 90C0521