N. 236 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 ottobre 1989

                                 N. 236
 Ordinanza  emessa  l'11  ottobre  1989  dal  Consiglio  di  giustizia
 amministrativa per la regione siciliana, Palermo sul ricorso proposto
 dal questore di Ragusa ed altro contro Pampallona Giacomo
 Impiego  pubblico  -  Agenti  di  P.S.  -  Destituzione automatica in
 seguito  a  condanna  penale  che   comporti   l'interdizione   anche
 temporanea  dai  pubblici  uffici  -  Ritenuta  inapplicabilita' alla
 fattispecie della legge n.  668/1986  abrogativa  di  detta  norma  -
 Ingiustificato  diverso  trattamento di situazioni identiche Richiamo
 alla sentenza della Corte costituzionale n. 971/1988.
 (D.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737, art. 8, lett. b).
 (Cost., art. 3).
(GU n.20 del 16-5-1990 )
                IL CONSIGLIO DI GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sul ricorso in appello n.
 60/1988 proposto dal questore di Ragusa pro-tempore  e  il  Ministero
 dell'interno,  in  persona  del Ministro pro-tempore, rappresentati e
 difesa dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo, presso  i
 cui  uffici  in via Alcide De Gasperi, 81 sono per legge domiciliati,
 contro Pampallona  Giacomo  rappresentato  e  difeso  dagli  avvocati
 Giacomo  Vespo  e  Umberto  Speciale  ed elettivamente domiciliato in
 Palermo,  via  Sciuti,  91/L,  presso  lo  studio  del  secondo,  per
 l'annullamento  della  sentenza del t.a.r. per la Sicilia, 1a sezione
 staccata di Catania, n. 1407/1987 avente per oggetto destituzione  di
 diritto dall'amministrazione della pubblica sicurezza;
    Visto il ricorso con i relativi allegati;
    Visto l'atto di costituzione in giudizio degli avvocati G. Vespo e
 U. Speciale per Pampallona Giacomo;
    Viste  le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive
 difese;
    Visti gli atti tutti della causa;
    Udita  alla pubblica udienza dell'11 ottobre 1989 la relazione del
 consigliere Salvatore  Giacchetti  e  uditi,  altresi',  l'avvocatura
 dello Stato per il questore di Ragusa e per il Ministero dell'interno
 e l'avv. G. Vespo per Pampallona Giacomo;
    Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue;
                               F A T T O
    Il  sig.  Giacomo  Pampallona,  agente  della  Polizia  di  Stato,
 impugnava dinanzi al T.A.R.S.:
      1)  il  decreto  n.  800/23239 del 29 gennaio 1985, col quale il
 capo della Polizia ne disponeva la destituzione di diritto - a  norma
 dell'art.  8,  primo  comma, lett. b), del d.P.R. 25 ottobre 1981, n.
 737 - a  seguito  di  condanna  penale,  passata  in  giudicato,  che
 comportava  l'interdizione  dai  pubblici  uffici per la durata di un
 anno;
      2) il verbale in data 1› febbraio 1985, col quale la questura di
 Catania gli comunicava il suddetto provvedimento.
    Il  t.a.r.,  sezione staccata di Catania, con sentenza 21 novembre
 1987, n. 1407:
       a)   rilevava   che  il  suddetto  art.  8,  che  prevedeva  la
 destituzione   di   diritto   nel   caso   di   condanna   importante
 l'interdizione  "anche  temporanea"  dai  pubblici  uffici, era stato
 modificato dall'art. 11 della legge 10  ottobre  1986,  n.  668,  che
 prevede  detta  destituzione  nel  caso  di  condanna  importante "la
 interdizione perpetua" dagli uffici stessi;
       b)  riteneva la nuova normativa retroattivamente applicabile ai
 provvedimenti di destituzione ancora sub iudice, ai sensi dell'art. 2
 del  cod.  pen.,  dell'art.  12, secondo comma, delle disp. prel. del
 cod. civ., e dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione;
       c)  riteneva pertanto di dover rilevare il vizio di invalidita'
 sopravvenuta dei provvedimenti impugnati; e cio' d'ufficio, in quanto
 tale  profilo - non contenuto, ovviamente, nel ricorso introduttivo -
 non era stato formulato in un motivo  aggiunto  ma  in  una  semplice
 memoria non notificata;
       d)    accoglieva    pertanto   il   ricorso   per   l'esclusiva
 considerazione sub c), dichiarando assorbiti i  motivi  proposti  con
 l'atto introduttivo.
     La  sentenza  e'  stata  appellata  dall'amministrazione,  per  i
 seguenti motivi:
    1)  Le  doglianze  dedotte  con  il ricorso introduttivo sarebbero
 totalmente infondate.
    2)  La  sentenza  avrebbe  accolto  un  motivo  che  non era stato
 dedotto, e che comunque era infondato,  in  quanto  il  principio  di
 retroattivita'  della  norma  piu'  favorevole,  posto  dal  t.a.r. a
 fondamento della  sua  decisione,  si  riferirebbe  alle  sole  norme
 incriminatrici penali e non troverebbe quindi applicazione in materia
 amministrativa.
    Il   Pampallona   si   e'   costituito   in  appello,  contestando
 puntualmente le censure dell'appellante.
                             D I R I T T O
    1.  -  Deduce  in  primo  luogo l'amministrazione appellante che i
 motivi di eccesso di potere dedotti dal  Pampallona  con  il  ricorso
 introduttivo sarebbero totalmente infondati.
    Al  riguardo  osserva il collegio che il primo giudice ha ritenuto
 di dover rilevare d'ufficio il vizio di invalidita' sopravvenuta  del
 provvedimento  di destituzione irrogato il 21 gennaio 1985, in quanto
 la norma in base alla quale  era  stato  adottato  (l'art.  8,  primo
 comma,  lett.  b),  del  d.P.R.  25  ottobre  1981, n. 737) era stata
 modificata nelle more  del  giudizio  dall'art.  11  della  legge  10
 ottobre  1986,  n.  668,  che  non  consentiva  piu'  l'adozione  del
 provvedimento stesso; ed ha accolto  il  ricorso  esclusivamente  per
 tale   considerazione,   dichiarando   assorbiti   tutti   i   motivi
 originariamente proposti dal Pampallona.
    Ora  poiche' l'assorbimento dei motivi equivale - sotto il profilo
 processuale  -  alla  loro  reiezione,  l'appellante  non  ha   alcun
 interesse a contestare in questa sede i motivi stessi.
    La doglianza va quindi dichiarata inammissibile.
    2.  -  Ai fini dell'esame della seconda censura va premesso che il
 Pampallona, agente  della  Polizia  di  Stato,  avendo  riportato  la
 condanna  ad  un  mese di reclusione con interdizione per un anno dai
 pubblici uffici, era stato destituito di diritto a norma  del  citato
 art.  8,  che  all'epoca  prevedeva  la  destituzione di diritto "per
 condanna, passata in giudicato,  che  importi  l'interdizione,  anche
 temporanea, dai pubblici uffici".
    Nelle   more   del  giudizio  proposto  per  l'annullamento  della
 destituzione e' intervenuta la legge n. 668/1986, che  ha  sostituito
 la  sopra  riportata  locuzione  dell'art.  8  con  la seguente: "per
 condanna, passata in giudicato, che importi  l'interdizione  perpetua
 dai pubblici uffici".
    Sulla  base di tale sopravvenienza normativa il t.a.r., come si e'
 detto, ha rilevato d'ufficio il vizio  di  invalidita'  sopravvenuta,
 accogliendo  il  ricorso  esclusivamente  sotto  tale  profilo; ed ha
 fondato la propria statuizione sulle seguenti considerazioni:
       a)  il  principio  di  retroattivita'  della  norma penale piu'
 favorevole, sancito dall'art. 2 del cod.  pen.,  sarebbe  estensibile
 anche agli illeciti amministrativi e alle relative sanzioni;
       b)   il  conseguente  vizio  di  invalidita'  sopravvenuta  del
 provvedimento impugnato  sarebbe  rilevabile  d'ufficio  dal  giudice
 anche  in mancanza di uno specifico motivo aggiunto di ricorso (nella
 fattispecie la circostanza era stata dedotta con una semplice memoria
 non   notificata);  e  cio'  nell'interesse  generale  di  consentire
 l'applicazione retroattiva della legge piu' favorevole;
       c)   la   cennata   rilevabilita'   d'ufficio  dell'invalidita'
 sopravvenuta  del  provvedimento  impugnato  sarebbe  sostanzialmente
 analoga   alla   rilevabilita'   d'ufficio  della  sopravvenuta  -  e
 retroattiva - dichiarazione di incostituzionalita' di una legge.
    Di   tale   statuizione  si  duole  l'amministrazione  appellante,
 rilevando che la sentenza  sarebbe  viziata  da  extrapetizione,  per
 avere accolto un motivo che non era stato dedotto, e sarebbe comunque
 erronea, in quanto il principio di retroattivita'  della  norma  piu'
 favorevole si riferirebbe soltanto alle norme incriminatrici penali e
 non troverebbe quindi applicazione in materia amministrativa.
    Vengono pertanto prospettate al collegio le seguenti questioni:
       a)  se  sia  ammissibile  che  il giudice amministrativo rilevi
 (recte: formuli) d'ufficio un motivo di ricorso;
       b)  se  sia - in astratto - ammissibile il vizio di invalidita'
 sopravvenuta;
       c)  nell'affermativa,  se  tale  vizio  sia fondato nel caso in
 esame.
    3.  -  La  prima  questione,  relativa  all'ammissibilita'  che il
 giudice amministrativo formuli d'ufficio un  motivo  di  ricorso,  va
 definita in senso negativo.
    E'   infatti   regola   fondamentale   del   diritto   processuale
 (amministrativo, civile e penale) il principio della domanda, in base
 al quale il giudice, salvo specifiche espresse eccezioni (ad esempio,
 il processo contabile), non puo' attivarsi se non venga espressamente
 richiesto da un altro soggetto dell'ordinamento.
    Questo   principio  opera  con  particolare  rigore  nel  processo
 amministrativo, atteso il suo carattere di processo non  inquisitorio
 (in cui il giudice ha potere di disposizione dell'oggetto di esso) ma
 accusatorio (o di parti); un processo da ricorso in  cui  il  giudice
 puo'  agire solo su domanda di parte (ne procedat iudex ex officio) e
 nei limiti della domanda stessa (ne eat iudex ultra vel extra  petita
 partium:  v.  art.  6 del r.d. 17 agosto 1907, n. 642). Le ragioni di
 fondo di tale principio sono evidenti: da  una  parte  l'esigenza  di
 garantire  l'imparzialita'  del  giudice,  dall'altra  l'esigenza  di
 garantire la tutela  giurisdizionale  della  parte  interessata  (che
 potrebbe,  altrimenti,  essere  esposta al rischio di una soccombenza
 determinata da illegittimita' non  formalmente  contestatele,  ed  in
 ordine  alle  quali  pertanto  non  aveva  potuto  produrre  adeguate
 controdeduzioni).  L'unica  attivita'  d'ufficio   che   il   giudice
 amministrativo puo' compiere riguarda il controllo dell'esistenza dei
 prescritti presupposti  di  ammissibilita'  o  di  ricevibilita'  del
 ricorso; ma tale deroga e' giustificata dalla preminente esigenza che
 lo strumento processuale venga utilizzato  per  le  finalita'  e  nei
 limiti   ad   esso   attribuiti  dall'ordinamento,  e  risulti  cosi'
 effettivamente    un    mezzo    per    assicurare    la    giustizia
 nell'amministrazione ai sensi dell'art. 100 della Costituzione.
    Ora   in  un  tale  contesto  il  cennato  motivo  di  invalidita'
 sopravvenuta (l'unico accolto),  che  il  t.a.r.  ha  dichiaratamente
 rilevato  d'ufficio,  non  puo'  non essere riconosciuto inficiato da
 extrapetizione.
    Ne'  a  diversa conclusione puo' indurre l'addotta analogia con la
 sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalita' di  una  legge,  di
 cui  il giudice e' tenuto a prendere atto anche d'ufficio. Infatti in
 base al principio iura novit curia il giudice e' tenuto  d'ufficio  a
 conoscere  e ad applicare l'ordinamento nella sua realta' effettuale,
 e  quale   eventualmente   modificato   da   sentenze   della   Corte
 costituzionale;  ma  cio'  non  comporta  anche  che il giudice possa
 statuire sulla legittimita' del provvedimento impugnato  direttamente
 sulla  base  dell'ordinamento,  e  cioe'  prescindendo dal filtro dei
 motivi dedotti dal ricorrente.
    Vero  e'  che in caso di analogo ricorso, proposto anch'esso prima
 dell'entrata in vigore della legge n. 668/1986, la sezione quarta del
 Consiglio  di  Stato,  con sentenza 6 marzo 1989, n. 150, ha ritenuto
 che  la  denuncia  di  incostituzionalita'  dell'originario  disposto
 dell'art.  8, ritualmente formulata nel ricorso introduttivo, potesse
 essere qualificata dal  giudice  (anche)  come  censura  di  (futura)
 invalidita'  del  provvedimento  adottato in base al disposto stesso,
 invalidita' derivante  dalla  sopravvenuta  legge  n.  668/1986,  che
 avrebbe operato con efficacia retroattiva sulle situazioni pregresse.
    Peraltro    questo   consiglio,   pur   rendendosi   conto   della
 semplificazione pratica e dell'economia di giudizi derivante da  tale
 soluzione  (in  quanto  l'altra  alternativa, e cioe' di rimettere la
 questione alla Corte costituzionale conduce  ad  una  soluzione  che,
 come  si  rilevera' al successivo n. 4, appare scontata), non ritiene
 di condividere  il  suindicato  orientamento  in  quanto  l'interesse
 sopravvenuto,  di  cui  questo  consiglio  ha  riconosciuto  la piena
 tutelabilita' (sentenza 26  febbraio  1987,  n.  61),  e'  azionabile
 esclusivamente con i normali strumenti processuali; e quindi nel caso
 in esame avrebbe dovuto esser fatto valere mediante  appositi  motivi
 aggiunti,  non  sembrando  che  possa  essere  utilmente  dedotta una
 censura che faccia riferimento ad  un  evento  futuro  e  incerto,  e
 difetti  quindi  dei requisiti sia della certezza che dell'attualita'
 della lesione.
    La   sentenza   impugnata   va  pertanto  riformata,  prescindendo
 dall'esame delle altre due questioni  indicate  sub  2,  che  restano
 logicamente assorbite.
    4.   -  Va  quindi  esaminata  la  censura  (dedotta  nel  ricorso
 introduttivo, dichiarata  assorbita  dal  t.a.r.,  e  riproposta  dal
 resistente   in   questa   sede)   di  illegittimita'  costituzionale
 dell'originario disposto del citato art. 8, lett. b).
    La   questione   non   e'   manifestamente   infondata.  La  Corte
 costituzionale, con sentenza 14 ottobre 1988, n. 971,  ha  dichiarato
 l'illegittimita'  costituzionale di numerose disposizioni (l'art. 85,
 lett. a), del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3; l'art.  247  del  r.d.  3
 marzo 1934, n. 383; l'art. 66, lett. a), del d.P.R. 15 dicembre 1959,
 n. 1229; l'art. 1, secondo comma, della legge 13 maggio 1975, n. 157;
 l'art.  57,  lett. a), del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761; l'art. 8,
 lett. a), del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737) che prevedevano ipotesi
 di  destituzione  ex lege collegate a determinate condanne penali o a
 determinate  pene  accessorie;  e  cio'  per  la  considerazione  che
 l'ordinamento  si  evolve  verso  la  esclusione  di sanzioni rigide,
 avulse da un adeguato rapporto di congruita' con  il  caso  concreto,
 con    conseguente    irragionevolezza   di   sanzioni   disciplinari
 automaticamente collegate  alla  condanna  per  determinati  fatti  e
 quindi  irrogate senza alcuna preventiva valutazione dell'adeguatezza
 della sanzione. In tale contesto anche la norma  dell'art.  8,  lett.
 b),  appare in insanabile contrasto con l'orientamento indicato dalla
 Corte,   e   va   pertanto   sottoposta   al   suo    sindacato    di
 costituzionalita'.
    La  questione  e' anche rilevante ai fini del decidere. Infatti la
 declaratoria  di  incostituzionalita'  della  norma  condurrebbe   al
 riconoscimento   del   vizio   (originario)   di   legittimita'   del
 provvedimento impugnato e quindi al riconoscimento  della  fondatezza
 del  ricorso  di primo grado, con conseguente reiezione dell'appello,
 mentre  in  caso  contrario  il  giudizio  si  concluderebbe  con  un
 risultato opposto.
    Occorre pertanto rimettere la questione alla Corte costituzionale,
 con sospensione del presente giudizio.
                                P. Q. M.
    Ritiene  rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento
 all'art. 3 della Costituzione ed al principio  di  ragionevolezza  da
 esso  discendente,  la  questione  di  costituzionalita' dell'art. 8,
 lett. b), del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737, per  la  parte  in  cui
 prevedeva  ipotesi  di  destituzione di diritto a seguito di condanna
 penale che comportasse l'interdizione anche temporanea  dai  pubblici
 uffici; e per l'effetto;
    Sospende il giudizio;
    Dispone la rimessione degli atti alla Corte costituzionale;
    Dispone  che  la  presente  ordinanza sia notificata alle parti in
 causa ed al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata ai
 Presidenti dei due rami del Parlamento;
    Manda alla segreteria di compiere i relativi adempimenti.
    Cosi'  deciso  in  Palermo  l'11  ottobre  1989  dal  Consiglio di
 giustizia  amministrativa  per   la   regione   siciliana   in   sede
 giurisdizionale, in Camera di consiglio.
                        Il presidente: SCARCELLA

 90C0533