N. 246 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 febbraio 1990
N. 246 Ordinanza emessa il 6 febbraio 1990 dalla Corte d'appello di Napoli nel procedimento penale a carico di De Luca Luigi Processo penale - Nuovo codice - Rito abbreviato - Sentenza di condanna - Appello - Procedimento in camera di consiglio - Provvedimento decisorio da emettersi in forma di ordinanza, immediatamente esecutiva, anche in pendenza di ricorso per cassazione - Previsto possibile decreto di sospensione Violazione del principio di non colpevolezza fino al giudicato. (C.P.P. 1988, artt. 443, quarto comma, 599 e 127, ottavo comma; d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447). (Cost., art. 27).(GU n.20 del 16-5-1990 )
LA CORTE D'APPELLO Sciogliendo la riserva di cui al verbale in data 30 gennaio 1990, osserva quanto segue. I Carabinieri di Napoli, ricevuta, la sera del 31 luglio 1989, una segnalazione anonima di spaccio di droga, accorrevano nella stanza n. 68 dell'albergo Pugliese, dove sorprendevano tale De Luca Luigi in possesso di una bilancia di precisione e di un certo quantitativo, nascosto sotto il letto, di cocaina e di sostanza da taglio, destinate, a dire del De Luca, all'uso personale suo e di alcuni suoi amici. Interrogato in stato d'arresto dal p.m. il De Luca confessava la detenzione delle sostanze e riconosceva altresi' di essersi liberato, alla vista dei militari, gettandolo dalla finistra, di un altro involucro di analogo stupefacente. Il perito nominato dal g.i. accertava trattarsi di mg 14.597 di un preparato a base di lidocaina senza traccia di cocaina e di un preparato di mg 7.822 a base di cocaina, contenente il 36% di sostanze pura. Procedutosi col giudizio abbreviato il De Luca, con sentenza del 23-28 novembre 1989, veniva dichiarato colpevole di delitto di cui all'art. 71 della legge 22 dicembre 1975, n. 685 e, con le attenuanti generiche e la diminuente dell'art. 442 del c.p.p., condannato alla pena di due anni di reclusione e lire 2.940.000 di multa. Il giudice respingeva le istanze di rimessione in liberta' e di concessione degli arresti domiciliari. Appellava il De Luca, chiedendo riconoscersi la meno grave ipotesi dell'art. 72, con la riduzione della pena al minimo. Nell'udienza in camera di consiglio, celebrata in assenza dell'imputato, il p.g. e i difensori concludevano come da verbale. Dispone l'art. 443, quarto coma del c.p.p., richiamato, per i procedimenti pendenti all'entrata in vigore del nuovo codice di rito penale, dall'art. 247 delle norme transitorie, che, quando il processo di primo grado sia stato definito col giudizio abbreviato, "il giudizio di appello si svolge con le forme previste dall'art. 599". Orbene, quali siano queste forme e' presto detto: sono quelle dell'art. 127 ("procedimento in camera di consiglio"), alle quali rinviano il primo e il quarto comma del cit. art. 599. La norma intende percio' dire, sia pure con tortuoso riferimento, che l'appello dev'essere trattato e deciso col rito della camera di consiglio disciplinato dall'art. 127. E' indispensabile a questo punto fare qualche osservazione di ordine generale a guisa di necessaria premessa del discorso concernente da vicino il caso in esame. Nell'intento lodevole di accelerare la definizione dei processi anche in grado di appello il legislatore del nuovo codice di rito penale, in ossequio alla direttiva n. 93 della legge di delega 16 febbraio 1987, n. 81, la quale contempla "un procedimento in camera di consiglio nel contraddittorio tra le parti quando l'impugnazione ha esclusivamente per oggetto la specie o la misura della pena, la concessione delle circostanze attenuanti generiche o l'applicabilita' di sanzioni sostitutive, o la concessione di benefici di legge", ha disegnato, nel primo comma dell'art. 599, un giudizio abbreviato, modellandolo, come avverte la relazione al progetto prel. (pag. 131), "sulla base dell'esperienza gia' conseguita con i riti camerali oggi previsti in tema di incidente di esecuzione e di applicazione di misure di prevenzione". Pertanto quando, in base ai motivi, la cognizione sia limitata agli indicati punti della decisione, ai quali, "in accoglimento di una proposta della Corte di cassazione", si e' aggiunta l'ulteriore ipotesi della censura attinente al giudizio di comparizione tra le circostanze, "la Corte provvede in camera di consiglio con le forme previste dall'art. 127". Analogo procedimento in camera di consiglio e' previsto, dal quarto comma dell'art. 599, quando le parti pervengono ad un 'patteggiamento' "sull'accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi di appello, con rinuncia agli altri eventuali motivi". Orbene, attesa l'ampiezza del rinvio alle forme dell'art. 127, non ripetuto, per brevita', con riferimento alla seconda ipotesi del "patteggiamento e' doveroso concludere che lo stesso provvedimento decisorio dello speciale rito d'appello debba rivestire la forma dell'ordinanza, conformemente a quello che e' il naturale esito del procedimento camerale come regolato in via generale dal cit. art. 127. In altri termini la Corte, confemando o riformando la decisione impugnata, deve, in deroga al principio sancito nell'art. 605, provvedere non gia' con sentenza bensi' con ordinanza. Posto che il legislatore si riserva di stabilire di volta in volta, ne' pare che in questa sua potesta' incontri limiti di natura costituzionale, "i casi nei quali il provvedimento del giudice assume la forma della sentenza, dell'ordinanza o del decreto" (principio gia' contenuto nell'art. 148 del cod. abrogato e ora ribadito dall'art. 125, primo comma del nuovo); si puo' anche comprendere, accantonando piu' d'un rilievo sul piano teorico, questa scelta di politica legislativa di definire impropriamente ordinanza un provvedimento decisorio avente natura sostanziale di sentenza, privo essendo questo atto d'imperio di preoccupanti conseguenze sul piano dei princi'pi, atteso che l'ordinanza, al pari della sentenza, dev'essere motivata (art. 148, terzo comma, del codice abr.; art. 125, terzo comma, del nuovo). Inutile infatti ricordare che l'oggetto tipico dell'ordinanza, nella fenomenologia processuale, e' sempre un incidente, nel senso che la forma dell'ordinanza e' impiegata sempre e soltanto per la decisione di un incidente o della questione con esso introdotta, caratterizzata com'e' dalla funzione e finalita' d'impulso processuale, sicche' e' stato ben scritto che "la sentenza decide per definire il processo, l'ordinanza per farlo proseguire" verso la decisione. Del resto non puo' tacersi che nel nuovo codice talvolta al richiamo delle forme dell'art. 127 si accompagna l'espressa prescrizione che, cio' nonostante, la decisione sia adottata "con sentenza" (cosi' negli artt. 32,734,743). Ulteriore e non tenue argomento questo per dedurre che nell'art. 599, pur rinviandosi alle forme dell'art. 127, a ragion veduta e' stato omesso ogni riferimento alla sentenza: ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit. Ma la grave e inaccettabile conseguenza alla quale non e' dato sottrarsi una volta assodato che il rinvio all'art. 127 e' incondizionato (sia pure con gli adattamenti prescritti per lo speciale rito d'appello nel secondo e terzo comma dell'art. 599) ed abbraccia anche la forma del provvedimento terminale, e' quella dell'immediata esecutivita' dell'ordinanza, salvo il contrario decreto motivato della Corte (art. 127, ottavo comma). A questo punto emerge tutta l'anomalia se non l'assurdita' di un'ordinanza che non solo definisce il rapporto processuale e statuisce sulla pretesa punitiva, confermando o riformando una sentenza (e fin qui passi), ma che addirittura ardisce, pur in pendenza del ricorso per cassazione, parificare, prima del giudicato, l'imputato al condannato, quando e' ben noto, e non dovrebbe essere necessario ribadirlo, che "durante il processo non esiste un colpevole, un reo, ma soltanto un imputato: la condizione giuridica di colpevole o condannato lascia dietro di se' il processo, la condizione giuridica di imputato si ricollega al processo in corso; la prima nasce quando cessa la seconda". Ne' a cancellare o attenuare questa anomalia serve l'astratta previsione del potere del giudice d'appello di sospendere l'efficacia esecutiva dell'ordinanza; sia perche' cio' che vale e' il principio indipendentemente dalla sua piu' o meno costante pratica attuazione; sia perche' la sospensione, stante la formulazione della norma, rappresenta non gia' la regola bensi' l'eccezione. E v'e' da aggiungere che la legge non suggerisce alcun criterio al quale il giudice dovra' attenersi per disporre la sospensione dell'esecuzione, ne' sarebbe illuminante ricorrere in via analogica al criterio del "grave e irreparabile danno", al quale l'art. 612 ancora la possibilita' di sospendere l'esecuzione della condanna civile in armonia con l'art. 373 del codice di rito civile, giacche' nella materia della liberta' personale il danno che puo' derivare dall'esecuzione immediata della decisione ricorribile e' per definizione sempre "grave e irreparabile". Affiora cosi', inutile nasconderlo, il non remoto pericolo che la sospensione venga accordata o negata in base a criteri mutevoli e oscillanti, quando non arbitrari, col sussidio d'una motivazione di stile gravemente lesiva dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Questa esecuzione immediata (ma pur sempre provvisoria), ben concepibile nel processo civile, dove sono in contesa interessi patrimoniali sempre opportunamente reintegrabili ogni volta che l'esecuzione intrapresa o anche condotta a termine si palesi poi illegittima; ed accettabile altresi' per la generalita' delle ordinanze adottate col rito della camera di consiglio per la risoluzione di questioni incidentali, perche' in tal caso l'immediata esecutivita' esalta quella funzione d'impulso processuale alla quale sopra si e' accennato; non puo' introdursi viceversa in tema di status personali, i quali per loro natura non tollerano incertezze, mentre col nuovo istituto il soggetto passivo della pretesa punitiva, confinato in una specie di limbo, resterebbe imputato, per es., ai fini dell'iscrizione della condanna nel casellario giudiziale (in quanto per l'art. 686, primo comma, n. 1, vanno iscritte soltanto le condanne divenute irrevocabili) o della decorrenza della custodia cautelare (che troverebbe ostacolo solo nella sopravvenienza della "sentenza irrevocabile di condanna" ai sensi dell'art. 303, primo comma, lett. D); e al contrario, alla stregua di un condannato, sarebbe escluso dalla possibilita' di revoca o sostituzione delle misure coercitive o interdittive, ed anzi, se libero, dovrebbe prestamente esser tradotto in vincoli. Ed invero, dopo la decisione di secondo grado e in pendenza del ricorso per cassazione, applicando alla lettera (e non si vede come potrebbe farsi diversamente) la disposizione dell'art. 127, ottavo comma, e sempreche' non ricorressero cause di non eseguibilita' della pena, una volta escluso il ricorso al decreto sospensivo, dovrebbe emettersi l'ordine di esecuzione (art. 656), disponendo l'incarcerazione dell'imputato libero (primo comma) e immutando il titolo della detenzione per l'imputato gia' in carcere, da custodia cautelare a espiazione di pena (terzo comma); il tutto in forza d'un titolo provvisorio e caducabile equiparato al definitivo. L'esecuzione verrebbe intrapresa il piu' delle volte perdurando l'incertezza sull' an (come quando l'imputato condannato anche in appello continui a contestare la propria responsabilita': cio' potra' accadere spesso proprio all'esito del doppio giudizio abbreviato); o sul quantum da espiare (si faccia il caso dell'imputato che, nell'ulteriore corso, si veda accordare la riduzione della pena negatagli in un primo tempo); o addirittura senza sapere se la pena inflitta dovra' essere o no espiata in toto (ipotesi della sospensione condizionale prima ingiustamente negata e poi concessa o dell'amnistia o dell'indulto sopravvenuti). Quando sia disarmonico rispetto all'insieme questo istituto apparira' ancora piu' chiaro quando si rifletta: 1) che nessuna forma di esecuzione provvisoria pur in pendenza dell'opposizione e' stata prevista in tema di decreto penale (artt. 459 e segg.) dove pure viene in discorso una condanna alla sola pena pecuniaria non piu' convertibile in reclusione o arresto (art. 660 del c.p.p.; artt. 102 e segg. della legge 24 novembre 1981, n. 689); 2) che il legislatore si e' preoccupato di approntare il rimedio d'una decisione anticipata, affindandola alla Corte di cassazione (art. 612), sulla sospensione dell'esecuzione della condanna civile, in attuazione della direttiva n. 27, mentre nulla di simile e' stabilito a proposito della provvisoria esecuzione del capo di condanna penale; ne si puo' rispondere che il silenzio si spiega con la possibilita', data al giudice d'appello, di sospendere con decreto, perche' resta senza tutela l'ipotesi del rifiuto della Corte di sospendere omettendo semplicemente il decreto oppure rigettando l'istanza dell'imputato; 3) che e' stata espunta dall'ordinamento l'esecuzione provvisoria delle pene accessorie (art. 217 delle norme di coordinamento, il quale abroga l'art. 140 del c.p. e ogni altra disposizione che prevede l'applicazione provvisoria di pene accessorie), mentre e' stata conservata, ma solo per la loro natura cautelare, l'applicazione provvisoria, anche con la sentenza (artt. 312, 313 e 658), delle misure di sicurezza. Questo sistema, ricavabile con certezza dal dettato legislativo e non si sa con quanta consapevolezza voluto, e', ad avviso della Corte, in irrimediabile contrasto con la presunzione di non colpevolezza fino al giudicato, solennemente scolpita nell'art. 27, secondo comma della Costituzione, la quale esige che non sia considerato colpevole, sotto qualsiasi aspetto e per ogni effetto, l'imputato prima della condanna definitiva. Per quanto attiene adesso al profilo della rilevanza della questione, si osserva che nel caso sottoposto all'esame del giudice d'appello si discute unicamente d'una riduzione della pena inflitta dal tribunale (eventualmente attraverso la derubricazione del titolo del reato); pena che, nella migliore delle ipotesi (per l'imputato), sarebbe sempre maggiore della custodia cautelare fin qui sofferta, sicche' il De Luca non dovrebbe esere scarcerato a norma dell'art. 275 del p.p., ne' verrebbe comunque in applicazione il primo comma del medesimo articolo. Nemmeno viene in considerazione il beneficio della sospensione condizionale, non chiesto e non concedibile per effetto dei precedenti ostativi. Allo stato si profila peraltro l'inammissibilita' dell'istanza di concessione degli arresti domiciliari, perche', come piu' sopra accennato, il beneficio sarebbe incompatibile col regime dell'esecuzione anticipata della pena al quale, in conseguenza della pronuncia di secondo grado, il De Luca verrebbe sottoposto. Vero e' che una soluzione per cosi' dire empirica consisterebbe nell'emissione del decreto sospensivo, il quale avrebbe l'effetto di evitare l'esecuzione immediata dell'ordinanza e di conservare al De Luca l'unica sua legittima veste d'imputato, con l'ammissibilita' di una sostituzione della custodia cautelare in carcere con la detenzione in casa. Beninteso la Corte non e' tenuta ad anticipare se intenda o no sospendere l'esecutivita' immediata dell'ordinanza, pur ricordando la gia' segnalata estrema difficolta' di rinvenire in proposito adeguati canoni di orientamento, giacche', come e' evidente, a radicare la rilevanza della questione basta l'astratta possibilita' che ad una tale sospensione non si pervenga e che quindi l'esecutivita' spieghi tutte le sue conseguenze. Per tutte queste ragioni il collegio, visto che la procedura de qua, si concluda essa con la conferma dell'impugnata sentenza o con la sua riforma sul solo quantum della pena, e' destinata a sfociare in un provvedimento tendenzialmente munito di forza esecutiva immediata, sospende il giudizio e solleva d'ufficio la questione dell'illegittimita' costituzionale del coordinato disposto degli artt. 443, quarto comma, 599 e 127, ottavo comma, del c.p.p. approvato con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447, nella parte in cui, all'esito del giudizio abbreviato d'appello col rito della camera di consiglio, prevedono che il provvedimento decisorio terminale rivesta la forma di un'ordinanza immediatamente esecutiva nonostante ricorso, salvo contrario decreto del giudice, per contrasto con l'art. 27, secondo comma della Costituzione.
P.Q.M. Letto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87; Solleva d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale del coordinato disposto degli artt. 443, quarto comma, 559 e 127, ottavo comma, del c.p.p. approvato con d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447, nella parte in cui, all'esito del giudizio abbreviato d'appello col rito della camera di consiglio, prevedono che il provvedimento decisorio terminale rivesta la forma di un'ordinanza immediatamente esecutiva nonostante ricorso, salvo contrario decreto del giudice, per contrasto con l'art. 27, secondo comma, della Costituzione; Per l'effetto sospende il giudizio in corso e ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Dispone che la cancelleria provveda alle notificazioni e comunicazioni prescritte dall'art. 23, u.c. della legge citata. Napoli, addi' 6 febbraio 1990. Il Presidente: DE TULLIO Il consigliere estensore: LICATESE 90C0545