N. 501 ORDINANZA (Atto di promovimento) 18 maggio 1990
N. 501 Ordinanza emessa il 18 maggio 1990 dal tribunale di Torino sul ricorso proposto da Cerri Pietro Angelo, commissario liquidatore della S.p.a. Fidingrup contro fallimento Istituto servizi fiduciari S.r.l. Fallimento - Societa' fiduciarie e di revisione - Conversione del fallimento in liquidazione coatta amministrativa - Condizioni - Necessita' che il fallimento sia stato gia' dichiarato alla data di entrata in vigore del d.-l. 5 giugno 1986 che tale conversione prevede - Ingiustificata disparita' di trattamento in conseguenza di una circostanza temporale del tutto casuale. (D.L. 5 giugno 1986, n. 233, art. 3, primo comma, convertito in legge 1 agosto 1986, n. 430, e successive modificazioni). (Cost., art. 3).(GU n.34 del 29-8-1990 )
IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento n. 889/90 reg. ric., introdotto dal prof. Pietro Angelo Cerri, in qualita' di commissario liquidatore della Fidingrup S.p.a. in liquidazione coatta amministrativa, nei confronti del fallimento Istituto servizi fiduciari S.r.l. (fall. n. 174/89), in persona del curatore dott. Luciano Cagnassone. OSSERVA IN FATTO Con ricorso depositato il 19 aprile 1990 il prof. Pietro Angelo Cerri, in qualita' di commissario liquidatore della Fidingrup S.p.a. in liquidazione coatta amministrativa (con sede in Torino, corso Tassoni, 31/A), chiedeva al Tribunale di "accertare e dichiarare che la societa' Istituto servizi fiduciari S.r.l. con sede in Torino, gia' dichiarata fallita, e' soggetta alla procedura di liquidazione coatta amministrativa", nonche' di "trasmettere gli atti al Ministero industria, commercio ed artigianato per ogni conseguente provvedimento". A sostegno della domanda esponeva: che la Fidingrup S.p.a. era stata posta in liquidazione coatta amministrativa con decreto ministeriale 11 maggio 1989, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 118 del 23 maggio 1989; che con decreto ministeriale 22 dicembre 1989, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 302 del 29 dicembre 1989, la procedura di liquidazione coatta amministrativa era stata estesa alla Velafin S.r.l., con sede in Milano, (commissario liquidatore il medesimo prof. Cerri) trattandosi di societa' controllante la fiduciaria Fidingrup S.p.a.; che la Velafin S.r.l. controllava l'Istituto servizi fiduciari S.r.l. con una partecipazione di L. 1.204.420.000 su un capitale sociale di L. 1.229.000.000; che l'Istituto servizi fiduciari S.r.l. era peraltro stata dichiarata fallita con sentenza di questo tribunale 5-6 maggio 1989. Preso atto che la fallita risultava direttamente controllata dalla Societa' Velafin controllante la societa' fiduciaria Fidingrup, chiedeva che il tribunale sanzionasse, nei termini su riportati, il verificarsi nelle specie di presupposti di cui all'art. 2 del d.-l. 5 giugno 1986, n. 233, convertito in legge 1º agosto 1986, n. 430, e' successive modificazioni. In data 27 aprile 1990 il Ministero dell'industria, commercio ed artigianato faceva pervenire il proprio parere ai sensi dell'art. 195 della legge fallimentare, nel quale, confermato il rapporto di controllo enunciato dal ricorrente, dichiarava: "questo Ministero ritiene che non sussistano elementi ostativi alla dichiarazione dello stato di insolvenza ai fini del successivo assoggettamento alla procedura di liquidazione coatta amministrativa". Veniva, altresi' sentito il curatore del fallimento Istituto servizi fiduciari (udienza 3 maggio 1990), il quale dichiarava di non opporsi alla domanda. OSSERVA IN DIRITTO In punto non manifesta infondatezza. Per quanto non esplicitamente richiamata dal ricorrente, la domanda mira ad ottenere la "conversione" in liquidazione coatta amministrativa del fallimento dichiarato in capo all'Istituto servizi fiduciari S.r.l., nonche' la trasmissione degli atti all'autorita' governativa per i provvedimenti di competenza. Il richiamo ai requisiti di controllo ex art. 2 del d.-l. 5 giugno 1986, n. 233, convertito in legge 1º agosto 1986, n. 430, e successive modificazioni, va infatti assunto a presupposto del dettato normativo di cui all'art. 3, comma primo, del d.l. cit., in forza del quale: "dalla data di entrata in vigore del presente decreto, le procedure di fallimento, alle quale siano gia' assoggettate le societa' di cui agli articoli 1 e 2 sono convertite in procedure di liquidazione coatta amministrativa, ferma la dichiarazione di insolvenza adottata dall'autorita' giudiziaria". Qualificata in questi termini (gli unici normativamente possibili, la domanda induce un sospetto non manifestamente infondato circa la compatibilita' della disposizione da ultimo riportata con il precetto di uguaglianza ex art. 3 della Costituzione. La norma in esame non instaura, infatti, un meccanismo generale di conversione di tutti i fallimenti comunque dichiarati nei confronti delle societa' rientranti nei parametri di cui agli articoli 1 e 2 del d.-l. cit., ma limita piuttosto il novero delle procedure da convertire ai soli fallimenti gia' dichiarati alla data di entrata in vigore del d.-l. medesimo. La conversione, pertanto, ha modo di operare unicamente per quelle societa' dichiarate fallite prima del 5 giugno 1986. Viceversa, i fallimenti delle societa' aventi i requisiti di cui agli artt. 1 e 2 del d.-l. cit., dichiarati dopo l'entrata in vigore del decreto, non risultino convertibili in liquidazione coatta amministrativa, fermo restando il rimedio generale, sempre che ve ne siano i presupposti, dell'opposizione alla sentenza dichiarativa ex art. 18 l.f. Il precetto normativo cosi' inteso depone a favore della prospettata illegittimita', riservando disparita' di trattamento a situazioni del tutto omogenee. Da un primo punto di vista, la disparita' pare determinarsi tra la societa' fiduciaria dichiarata fallita prima dell'entrata in vigore del d.-l., e quella dichiarata successivamente ad esso. Il far dipendere il mutamento di procedure da una circostanza temporale del tutto casuale (e comunque non direttamente riconducibile alla volonta delle societa' insolventi, cosi' come delle massa creditorie) non risulta d'altra parte giustificato alla luce del principio di ragionevolezza, assunto da codesta Corte come criterio interpretativo imprenscindibile dell'art. 3 della Costituzione. Va infatti rilevato come le esigenze di unificazione delle varie procedure riconducibili al gruppo fiduciario insolvente, esigenze fatte proprie e perseguite dal legislatore in piu' di un'occasione e con l'apprestamento di vari accorgimenti tecnici, sussistano in linea generale in ogni caso di accertamento dei parametri di cui agli artt. 1 e 2 del d.-l. cit., a prescindere del tutto dal momento della dichiarazione di fallimento di una delle societa' del gruppo. Ne' puo' trascurarsi come l'unificazione posta a fondamento dell'istituto della conversione non si limiti a soddisfare istanze di tipo esclusivamente processuale, costituendo anzi il dato di partenza per l'adozione di strumenti ricostruttivi del patrimonio sociale operanti sul piano strettamente sostanziale. Bastera' segnalare come il d.-l. in oggetto attribuisca al commissario liquidatore poteri del tutto peculiari in ordine alle revocatorie c.d. "interne", alle informative presso la Consob, al regime dell'azione ex art. 2409 del codice civile (art. 2 del d.-l. cit., quarto comma e segg.). Si tratta di prerogative, per contro, non riconosciute al curatore fallimentare; questa circostanza si ripercuote inevitabilmente sull'idoneita' della norma inquisita a garantire pari potenzialita' recuperatorie, e quindi pari possibilita' di soddisfacimento ai creditori delle societa' fiduciarie (alcune in liquidazione coatta amministrativa, ed altre in fallimento) pacificamente appartenenti al medesimo gruppo ex art. 2 del d.-l. cit., lettere a) e d). L'impraticabilita' della conversione, se non nei limiti dei fallimenti gia' dichiarati all'atto dell'entrata in vigore della legge, implica peraltro un'ulteriore non infondata ipotesi di contrarieta' con l'art. 3 della Costituzione, in relazione alla consecuzione temporale tra le procedure di liquidazione coatta amministrativa e fallimento afferenti a societa' tra loro collegate in forza di una o piu' dei criteri di cui all'art. 2 cit. Si osserva, infatti, che avverso la dichiarazione di fallimento di una societa' collegata (intendendosi questa espressione in senso atecnico per raggruppare le varie figure di controllo) ad altra gia' ammessa alla liquidazione coatta amministrativa, appare senz'altro possibile il rimedio dell'opposizione ex art. 18 l.f. per contrarieta' al disposto dell'art. 2, prima parte del d.l. cit. Viceversa, nell'ipotesi in cui il fallimento venisse dichiarato "prima" della messa in liquidazione coatta amministrativa della societa' controllata o controllante, il rimedio dell'opposizione non appare agibile. E' cio' non tanto per eventuali contingenze relative ai termini di proposizione dell'opposizione (la liquidazione coatta amministrativa potrebbe in effetti intervenire oltre l'anno del fallimento), quanto piuttosto perche' l'opposizione suscita il riesame dei presupposti oggettivi e soggettivi della dichiarazione di fallimento, cosi' come esistenti (o inesistenti) al momento della dichiarazione stessa (in tal senso la giurisprudenza del tutto dominante). La successiva ammissione alla liquidazione coatta amministrativa di societa' collegata opera pertanto quale fatto sopravvenuto non rilevante ai fini della opposizione, non comportando, di per se' sola, che il fallimento sia stato mal dichiarato. Pare quindi che il sopravvenire della liquidazione coatta amministrativa in capo ed altra societa' possa rilevare unicamente ai fini della conversione, con la conseguenza che, ove questa non sia possibile per la criticata limitazione temporale, il fallimento non puo' essere rimosso (con le ripercussioni di ordine sostanziale che si sono gia' evidenziate). Ne' la situazione delineata appare del tutto scevra da ulteriori considerazioni in chiave di difetto di giurisdizione del giudice ordinario e, in ipotesi, di conflitto di attribuzione tra autorita' amministrativa e giudiziaria in ordine al trattamento della stessa insolvenza. I dubbi di conformita' costituzionale che si sono sollevati si fondano sulla interpretazione letterale dell'art. 3 in oggetto. Il giudizio di non manifesta infondatezza non puo' tuttavia prescindere dell'esplorazione di vie interpretative e alternative a quella letterale, le quali consentano in ipotesi si estendere l'istituto della conversione anche ai fallimenti dichiarati dopo l'entrata in vigore del d.-l. cit. E' questo anzi un compito doveroso, avendo codesta Corte gia' affermato in via generale il principio dell'interpretazione in chiave di compatibilita' costituzionale, nel senso che l'interprete deve in ogni caso privilegiare, tra varie interpretazioni possibili, quella che risulti conforme ai principi costituzionali in materia (Corte costituzionale n. 81/105). Il dado letterale non pare pero' superabile ne' in termini di interpretazione estensiva, ne' in via analogica. Sotto il primo aspetto bastera' rilevare come l'interpretazione estensiva si concreti nella massima dilatazione semantica della terminologia adottata dal legislatore. Cio', a sua volta, presuppone che il termine oggetto di interpretazione sia di per se' idoneo ad una graduazione di significati piu' o meno ampi (sempre entro i limiti dell'uso linguistico generale). Nel caso di specie, al contrario, la limitazione della conversione ai fallimenti pregressi rispetto all'entrata in vigore del d.-l. deriva dall'adozione del tutto inequivoca dell'espressione "gia' assoggettate", e pertanto dall'adozione di un riferimento temporale tassativo che non lascia spazio ad alcuna progressione di significati. Ad esito negativo conduce altresi' la via analogica. La possibilita' di applicare anche ai fallimenti dichiarati dopo l'entrata in vigore del d.-l. (ipotesi non disciplinata) la normativa riservata ai fallimenti dichiarati prima dello stesso (ipotesi disciplinata) urta contro la natura eccezionale dell'art. 3 cit. In primo luogo la norma appare preoccupata di regolamentare, in via di attuazione, il destino dei fallimenti gia' dichiarati all'epoca della sua emanazione. Su questo presupposto, non appare consentito all'interprete di applicare in regime ordinario una disciplina pensata e voluta entro i limitati confini del diritto transitorio. Ma anche volendo superare l'obiezione di cui si e' dato conto, l'eccezionalita' risulta confermata dal fatto che l'istituto della conversione incide direttamente sulla norma generale di cui all'art. 1 l.f., in forza del quale l'imprenditore commerciale trova nel fallimento la sede di naturale definizione della propria insolvenza. Ne deriva che tutte le norme contenute in leggi speciali le quali facciano venir meno questo assunto si pongono in termini di eccezionalita' rispetto ad esso. E cio' a maggior ragione se si consideri che l'estensione analogica della conversione verrebbe ad incidere sul giudicato formatosi in ordine ai presupposti della dichiarazione di fallimento. Se cio' puo' non apparire rilevante circa l'accertamento dello stato di insolvenza (che resta comunque "fermo" ex-lege), la negazione del giudicato opererebbe invece appieno in ordine al presupposto soggettivo della dichiarazione di fallimento e, in particolare, in ordine alla corrispondenza tra le caratteristiche dell'impresa ed il tipo di procedura concorsuale ad essa riservata dal legislatore. Resta da valutare se il dato letterale sia superabile tramite considerazioni di ordine sistematico che permettano di attribuire al legislatore una volonta' diversa da quella resa evidente dalla formulazione della norma. Viene in proposito in considerazione l'antecedente legislativo immediato dell'art. 3 in esame, avvisabile nell'art. 4 del d.l. 30 gennaio 1979, n. 26, "Provvedimenti urgenti per l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi" conversione in legge 3 aprile 1979, n. 95, e successive modificazioni. L'art. 4 di questa legge prende a sua volta in considerazione l'istituto della conversione in amministrazione straordinaria dei fallimenti dichiarati in capo a societa' aventi i requisiti di cui all'art. 3 della legge medesima. Ebbene, in tal caso il dettato normativo e' inequivocabilmente nell'estendere la conversione a tutti i fallimenti comunque dichiarati "dopo l'entrata in vigore del presente decreto-legge". Il fatto che il legislatore del 1986 abbia pertanto disciplinato una fattispecie del tutto analoga in maniera sensibilmente diversa da quanto aveva disposto nel 1979, depone per una consapevole volonta' innovativa in tal senso. E' l'individuazione di una volonta' siffatta risulta rafforzata dalla considerazione che altre disposizioni relative all'amministrazione straordinaria sono state invece recepite senza variazioni apprezzabili nel d.-l. del 1986 (segnatamente in rapporto alla definizione dei criteri di controllo ed alla attribuzione al commissario dei poteri di cui all'art. 3 del d.-l. n. 26/79). Non pare, in definitiva, che l'interprete possa adottare soluzioni diverse da quella oggetto di dubbi non manifestamente infondati di illegittimita'. In punto rilevanza. Come si e' gia' avuto modo di rilevare, l'art. 3 del d.-l. cit., si pone quale referente normativo imprenscindibile ai fini della pronuncia sulla domanda del commissario liquidatore della Fidingrup S.r.l. In linea di fatto, il giudizio di rilevanza muove nella specie da due dati obiettivi. In primo luogo, appare provato il rapporto di controllo esercitato dalla Velafin S.p.a. sull'Istituto servizi fiduciari S.r.l. (e cio' sia alla data del fallimento che a quella della messa in liquidazione coatta amministrativa). In particolare, dell'estratto libro-soci allegato dal ricorrente, emerge come questa sia partecipata dalla Velafin S.p.a. per complessive L. 1.204.420.000, su un capitale sociale di L. 1.229.000.000 (la circostanza non e' stata del resto contestata dal curatore). Deve pertanto riconoscersi che si verifica nella specie il requisito di controllo di cui alla lettera b), primo comma, art. 2 del d.-l. cit. In secondo luogo, si osserva che il fallimento (del 5-6 maggio 1989) e' stato dichiarato dopo l'entrata in vigore della legge, ma anteriormente alla messa in liquidazione coatta amministrativa sia della Velafin S.p.a. (decreto ministeriale 22 dicembre 1989), sia della fiduciaria da questa controllata, la Fidingrup S.p.a. (decreto ministeriale 11 maggio 1989). Ne consegue, per i motivi gia' esposti, che in difetto di proponibilita' dell'opposizione ex art. 18 l.f., il fallimento dell'Istituto servizi fiduciari S.r.l. non potrebbe venire rimosso se non in forza della richiesta conversione (conversione che, alla stregua dell'interpretazione accolta, andrebbe peraltro senz'altro negata).
P. Q. M. Visti gli artt. 134 della Costituzione, 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1984, n. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 84. Dichiara d'ufficio rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3, primo comma del d.-l. 5 giugno 1986 ("Norme urgenti sulla liquidazione coatta amministrativa delle societa' fiduciarie e di revisione e disposizioni sugli enti di gestione fiduciaria"), convertito in legge 1º agosto 1986, n. 430, e successive modificazioni, in rapporto all'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui consente la conversione in liquidazione coatta amministrativa dei soli fallimenti gia' dichiarati (in capo alle societa' di cui agli artt. 1 e 2) al momento dell'entrata in vigore del decreto medesimo; Ordina la sospensione del presente giudizio e la rimessione degli atti alla Corte costituzionale; Manda alla cancelleria di notificare la presente ordinanza alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonche' di comunicarla ai Presidenti dei due rami del Parlamento. Cosi' deciso in Torino, nella camera di consiglio della sesta sezione civile in data 18 maggio 1990. Il presidente: (firma illeggibile) 90C0986