N. 537 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 marzo 1990

                                 N. 537
 Ordinanza  emessa  il  29  marzo  1990  dal  tribunale amministrativo
 regionale della Lombardia sul ricorso proposto da Marro Dante  contro
 la regione Lombardia
 Impiegato  degli  enti locali - Legge regione Lombardia prevedente la
 destituzione automatica a seguito di condanna con sentenza passata in
 giudicato  -  Mancata  previsione  di  valutazione del fatto da parte
 dell'autorita'  amministrativa  -   Conseguente   impossibilita'   di
 graduare  la  sanzione  amministrativa  - Difetto di ragionevolezza -
 Violazione del principio di buon andamento della p.a. - Richiamo alla
 sentenza n. 971/1988).
 (Legge regione Lombardia 25 maggio 1983, n. 44, art. 26, primo comma,
 lett. a).
 (Cost., artt. 3 e 97).
(GU n.36 del 12-9-1990 )
                 IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sul  ricorso n. 2467/1987
 proposto da Marro Dante rappresentato e  difeso  dagli  avv.ti  dott.
 Giuseppe  D'Amato  e  Libero Riccardelli ed elettivamente domiciliato
 presso il primo in Milano,  via  Lamarmora,  36,  contro  la  regione
 Lombardia,   in  persona  del  presidente  pro-tempore  della  giunta
 regionale,  rappresentata  e  difesa  dall'avv.  Ezio   Antonini   ed
 elettivamente   domiciliata   presso   il  medesimo  in  Milano,  via
 Caradosso, 11, per l'annullamento del decreto 18 marzo 1987, n. 3304,
 del   presidente   della   giunta  regionale  avente  ad  oggetto  la
 destituzione di diritto del ricorrente ai sensi dell'art.  26,  primo
 comma, della legge regionale 25 maggio 1983, n. 44;
    Visto il ricorso con i relativi allegati;
    Visto l'atto di costituzione in giudizio della regione intimata;
    Viste  le  memorie  prodotte  dalle parti a sostegno delle proprie
 difese;
    Visti gli atti tutti della causa;
    Uditi  alla  pubblica udienza del 29 marzo 1990, relatore il dott.
 Carmine Spadavecchia, l'avv.  D'Amato  per  il  ricorrente  e  l'avv.
 Alessandra   Noli   Calvi,   su   delega   dell'avv.   Antonini,  per
 l'amministrazione resistente;
    Ritenuto in fatto e diritto quanto segue;
                               F A T T O
    Con  decreto  18 marzo 1987, n. 3304, del presidente della regione
 Lombardia veniva disposta la destituzione del ricorrente,  condannato
 con   sentenza  definitiva  per  reati  (truffa  aggravata  ai  danni
 dell'ente di appartenenza  e  falso  ideologico  continuato  in  atto
 pubblico  commesso  in qualita' di pubblico ufficiale) comportanti la
 destituzione di diritto ai sensi dell'art. 26, primo comma, lett. a),
 della legge regionale 25 maggio 1983, n. 44.
    Avverso  il  provvedimento destitutorio il ricorrente deduceva con
 l'epigrafato ricorso un unico motivo, incentrato sulla illegittimita'
 costituzionale   della  norma  regionale  posta  a  fondamento  della
 sanzione  espulsiva,  irrogata   al   di   fuori   del   procedimento
 disciplinare.
    Nel    gia'   avviato   dibattito   relativo   alla   legittimita'
 costituzionale di norme similari, rinvenibili nei settori legislativi
 concernenti le diverse categorie di pubblici impiegati, il ricorrente
 deduceva  la  violazione  dell'art.  3  della  Carta   costituzionale
 rilevando  la  mancanza di un criterio di adeguatezza tra la sanzione
 (unica, nonche'  automatica)  e  gli  illeciti  (di  varia  natura  e
 gravita')   previsti   dalla   censurata   norma  regionale,  nonche'
 l'irragionevolezza della stessa in quanto formulata in guisa tale  da
 escludere    dal   proprio   ambito   operativo,   senza   plausibile
 giustificazione, reati della stessa indole e  di  uguale  o  maggiore
 gravita' rispetto a quelli ivi elencati.
    Deduceva,  altresi', la violazione dell'art. 97 della Costituzione
 assumendo  come  contraria  al  principio  di  buona  amministrazione
 l'obbligo,   che  la  norma  impone,  all'ente  di  appartenenza,  di
 allontanare un  proprio  dipendente,  privandosi  del  contributo  di
 esperienza, attitudini e capacita' dello stesso, senza poter valutare
 la rilevanza disciplinare del fatto-reato commesso dal medesimo.
    Si  costituiva  in  giudizio  la  regione intimata contrastando le
 riferite argomentazioni.
    L'istanza  cautelare  di  sospensione  dell'atto  impugnato veniva
 respinta con ordinanza 18 dicembre 1987, n. 365, di questa sezione.
    Con memorie depositate in prossimita' dell'udienza, le parti hanno
 prospettato ulteriori argomenti difensivi in relazione  ai  mutamenti
 del quadro normativo, intervenuti medio tempore.
    Alla  pubblica  udienza  del  29 marzo 1990 la causa e' passata in
 decisione.
                             D I R I T T O
    1. - Nelle more del giudizio e' intervenuta la sentenza 14 ottobre
 1988,  n.  971,  con  cui  la  Corte   costituzione   ha   dichiarato
 l'illegittimita'  di  numerose  norme  statali  di  contenuto analogo
 all'art. 26 della legge regionale n. 44/1983 "nella parte in cui  non
 prevedono,  in  luogo  del  provvedimento di destituzione di diritto,
 l'apertura e lo svolgimento del provvedimento disciplinare".
    Il   legislatore   statale   e  quello  regionale  hanno,  quindi,
 provveduto - rispettivamente con legge 7 febbraio 1990, n. 19, e  con
 legge  regionale  13  febbraio  1990,  n. 10 - ad adeguare il sistema
 normativo in materia alla pronuncia di illegittimita' costituzionale,
 abrogando  l'istituto  della  destituzione  di  diritto  a seguito di
 condanna penale, disponendo che la destituzione puo' essere  inflitta
 solo  all'esito del procedimento disciplinare e prevedendo altresi' -
 per i dipendenti gia' destituiti di  diritto  -  la  possibilita'  di
 essere  riammessi  in  servizio,  a domanda, previo svolgimento di un
 processo disciplinare di cui son regolati i tempi di attivazione e di
 conclusione.
    A  detti  eventi  non  puo'  tuttavia  riconoscersi l'idoneita' ad
 influenzare l'esito del presente giudizio, ne' sul piano  sostanziale
 ne' sul piano processuale.
   Sul  piano  sostanziale  va  rilevato  come la sentenza n. 971/1988
 della  Corte  costituzionale,  pur  riguardando  norme  primarie   di
 analogo,  se  non identico, tenore (art. 85, lett. a) del testo unico
 10 gennaio 1957, n. 3; art. 247 del r.d. 3 marzo 1934, n.  383;  art.
 66,  lett.  a), del d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229; art. 1, secondo
 comma, della legge 13 maggio 1975, n. 157; art.  57,  lett.  a),  del
 d.P.R.  25  ottobre  1979,  n.  761;  art. 8, lett. a), del d.P.R. 25
 ottobre 1981, n. 737), non abbia travolto  l'art.  26,  primo  comma,
 lett.  a),  della  legge  regionale  25  maggio  1983,  n. 44, la cui
 abrogazione ad opera della recentissima legge regionale  13  febbraio
 1990,  n.  10  - e, prima ancora, ad opera dell'art. 9 della legge n.
 19/1990 cit. - produce soltanto, com'e' noto, effetti ex nunc.
    Ne  discende la piena validita' ed efficacia della legge regionale
 n. 44/1983 nel periodo anteriore alla sua abrogazione, sicche' l'art.
 26, primo comma, lett. a), di detta legge conserva - allo stato piena
 attitudine   a   supportare   l'impugnato   provvedimento,   la   cui
 legittimita'  deve  essere  riscontrata  con  esclusivo riguardo alla
 normativa vigente al tempo della sua adozione.
    Poiche'  d'altra  parte  l'impugnativa del medesimo trae esclusiva
 ragione  dall'asserita  illegittimita'  costituzionale  della   norma
 regionale  che  ne costituisce il fondamento non puo' essere posta in
 dubbia la rilevanza della relativa eccezione ai fini del decidere.
    Sul  piano  processuale,  poi,  tale  rilevanza  non  e' incrinata
 dall'introduzione,   in   via   transitoria,   dell'istituto    della
 riammissione   in  servizio,  a  domanda,  all'esito  favorevole  del
 processo disciplinare, di coloro che abbiano subito  la  destituzione
 di   diritto   anteriormente  all'entrata  in  vigore  della  novella
 normativa (art. 10 della legge n. 19/1990; art. 26- bis  della  legge
 regionale  n.  44/1983,  introdotto  dalla legge regionale n. 10/1990
 cit.).
    Si sia o no il ricorrente avvalso di tale facolta', ne' l'estratta
 previsione di essa ne' il concreto esercizio della medesima  appaiono
 idonei  a  determinare  la  cessazione  della  materia del contendere
 ovvero l'improcedibilita' del ricorso  per  sopravvenuta  carenza  di
 interesse,   giacche',   contrariamente   a  quanto  adombrato  dalla
 resistente amministrazione, la domanda di  riammissione  in  servizio
 non  comporta  l'annullamento ex tunc del provvedimento destitutorio,
 bensi' la mera cessazione dei  suoi  effetti  condizionata  all'esito
 favorevole   del  provvedimento  disciplinare,  l'amministrazione  e'
 tenuta a promuovere o a riattivare.
    Permane  dunque in capo al ricorrente l'interesse ad ottenere, con
 l'annullamento    giurisdizionale    del    provvedimento     lesivo,
 l'eliminazione   ex   tunc   del  medesimo,  con  tutti  gli  effetti
 restitutori che ne  conseguono,  a  cominciare  dalla  reintegrazione
 incondizionata  nel  posto di lavoro (salva l'assunzione di ulteriori
 iniziative da parte dell'amministrazione).
    Siffatta   utilita',   scaturente  da  un'eventuale  decisione  di
 accoglimento del gravame, e' autonoma e piu' ampia di quella  che  il
 ricorrente  potrebbe  conseguire  dalla  riammissione  in  servizio a
 domanda secondo il modulo procedimentale  delineato  dalla  normativa
 transitoria sopravvenuta.
    2.  -  Cio'  premesso  in ordine alla rilevanza della questione di
 legittimita' costituzionale sollevata dal ricorrente, non molto  v'e'
 da aggiungere circa la non manifesta infondatezza della medesima.
    Non  possono,  invero,  non risorgere, nei confronti dell'art. 26,
 lett. a), della legge regionale  n.  44/1983,  i  medesimi  dubbi  di
 legittimita'  costituzionale che la Corte ha riconosciuto fondati nel
 dichiarare contraria all'art. 3 della Costituzione,  per  difetto  di
 ragionevolezza,  la  norma di identico tenore contenuta nell'art. 85,
 lett. a), dello statuto degli impiegati civili dello Stato (d.P.R. 10
 gennaio  1957,  n.  3):  e cio' sul rilievo - sicuramente estensibile
 alla fattispecie in esame -  che  l'orientamento  del  sistema  verso
 l'esclusione di sanzioni rigide, non adeguate alla particolarita' dei
 casi concreti, e la sottesa esigenza di  perseguire  l'indispensabile
 gradualita'   sanzionatoria   impongono   la   valutazione   in  sede
 disciplinare dei fatti-reato commessi dai  pubblici  dipendenti,  con
 esclusione   di   ogni   automatismo   preclusivo  dell'apprezzamento
 discrezionale dell'amministrazione al riguardo.
    Puo'  aggiungersi,  come  gia'  rilevato  in  altre  ordinanze  di
 rimessione sullo stesso tema, che la rigidita' della sanzione massima
 che  l'amministrazione fosse tenuta ad irrogare al proprio dipendente
 sembra, altresi', in contrasto con l'art. 97 della  Costituzione,  in
 quanto  i  valori di imparzialita' e buon andamento tutelati da detta
 norma  possono  essere   assicurati   soltanto   mediante   un'azione
 amministrativa    adeguata    al    caso   concreto,   che   consenta
 all'amministrazione  di  apprezzare  situazioni  soggettivamente   ed
 oggettivamente diverse.
    Per  le suesposte considerazioni va disposta la trasmissione degli
 atti alla Corte costituzionale  per  la  risoluzione  dell'illustrata
 questione  incidentale  di  costituzionalita'  e  va conseguentemente
 disposta la sospensione del giudizio instaurato  con  il  ricorso  in
 esame.
                                P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Ritenuta  rilevante e non manifestamente infondata la questione di
 legittimita' costituzionale sollevata dal  ricorrente,  in  relazione
 agli  artt.  3  e  97 della Costituzione, nei confronti dell'art. 26,
 primo comma, lett. a),  della  legge  regionale  della  Lombardia  25
 maggio 1983, n. 44;
    Dispone  la  sospensione  del  giudizio e l'immediata trasmissione
 degli atti alla Corte costituzionale;
    Ordina  che,  a  cura  della segreteria, la presente ordinanza sia
 notificata  alle  parti  in  causa  ed  al  presidente  della  giunta
 regionale  e  comunicata  al presidente del consiglio regionale della
 Lombardia.
    Cosi'   deciso   in   Milano,  il  29  marzo  1990  dal  tribunale
 amministrativo regionale per la Lombardia, sezione terza,  in  camera
 di consiglio.
                        Il presidente: MARIUZZO
    Il referendario: ROVIS
                               Il referendario estensore: SPADAVECCHIA
 90C1063