N. 599 ORDINANZA (Atto di promovimento) 26 aprile 1990

                                 N. 599
 Ordinanza emessa il 26 aprile 1990 dalla commissione tributaria di 1º
 grado di Verbania sul ricorso proposto  da  Bombardieri  Giambattista
 contro l'ufficio imposte dirette di Arona
 Contenzioso   tributario  -  Procedimento  davanti  alle  commissioni
 tributarie - Esclusione della condanna  della  parte  soccombente  al
 pagamento  delle  spese processuali - Irrazionale deroga al principio
 processualistico  delle  spese  a  carico  del  soccombente   e   non
 giustificata disparita' di trattamento tra il fisco (esentato in caso
 di  soccombenza  dal  pagamento  delle  spese  processuali)   ed   il
 contribuente  (tenuto  al pagamento di penalita' mascheranti le spese
 processuali in caso si soccombenza) - Incidenza sul diritto di difesa
 in  giudizio  -  Richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n.
 196/1982 (di infondatezza di analoga questione) ritenuta superata dal
 giudice a quo.
 (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, art. 39).
 (Cost., artt. 3 e 24).
(GU n.39 del 3-10-1990 )
                LA COMMISSIONE TRIBUTARIA DI PRIMO GRADO
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sul  ricorso prodotto da
 Bombardieri Giambattista, avverso l'ufficio imposte dirette di Arona;
    Letti gli atti;
    Sentiti  il  rag.  Andrea  Colombo  per  il  ricorrente e il dott.
 Francesco Pinzino per l'ufficio imposte dirette di Arona;
    Udito il relatore Lino Denari;
                           RITENUTO IN FATTO
    Bombardieri  Giambattista, domiciliato in Dormelletto, via Cavour,
 112, esercente l'attivita'  di  riparazione  motocicli,  in  data  13
 giugno  1989  proponeva  ricorso  contro  l'avviso  di accertamento -
 notificatogli in data 14 aprile 1989 - con il quale l'ufficio imposte
 dirette  di  Arona,  ai  fini  Irpef  ed Ilor 1985, aveva rettificato
 induttivamente, ex art. 39, secondo comma, del d.P.R. n. 600/1973, da
 L.  9.088.000  a  L.  21.147.000  il  reddito  di  impresa minore ed,
 inoltre, aveva irrogato la pena pecuniaria di L. 4.065.000 (art.  46,
 quarto comma, del d.P.R. n. 600/1973).
    Il  ricorrente  chiedeva  l'annullamento  dell'impugnato avviso di
 accertamento  eccependo  l'insussistenza  dei  presupposti  richiesti
 dalla legge per l'accertamento induttivo (art. 39, secondo comma, del
 d.P.R. n. 600/1973).
    L'ufficio  imposte  dirette  di  Arona  resisteva  al  ricorso con
 deduzioni scritte con le quali chiedeva il rigetto del ricorso.
    All'udienza  di  discussione per il ricorrente interveniva il rag.
 Andrea  Colombo  da   Sesto   Calende,   il   quale   insisteva   per
 l'accoglimento  del ricorso, e per l'ufficio imposte dirette di Arona
 il dott. Francesco Pinzino, il  quale  si  rimetteva  alle  deduzioni
 scritte.
    L'atto  con  il  quale  l'ufficio  imposte  dirette  di  Arona  ha
 accertato induttivamente un maggior reddito  di  impresa  minore  (L.
 21.147.000)  -  a  prescindere  da  qualsiasi  valutazione  di merito
 sull'ammontare  di  tale  reddito  -  e'  illegittimo  perche'  nella
 fattispecie  in  esame  non  sussistono  e,  comunque, non sono stati
 evidenziati   i    presupposti    per    l'accertamento    induttivo,
 tassativamente  previsti dall'art. 39, secondo comma, lettere a), b),
 c) e d) del d.P.R. n. 600/1973.
    L'atto  impugnato, pertanto, va annullato perche' illegittimo, ma,
 a parere di questo collegio,  alla  dichiarazione  di  illegittimita'
 dell'atto  dovrebbe  seguire  anche  la condanna dell'amministrazione
 finanziaria a rimborsare al ricorrente le  spese  e  gli  onorari  di
 difesa.
    Stabilisce  il  primo comma dell'art. 91 del cod. proc. civ. - non
 applicabile al procedimento davanti alle  commissioni  tributarie  in
 base  al  disposto  dell'art.  39, primo comma, del d.P.R. 26 ottobre
 1972, n. 636 - che  "Il  giudice,  con  la  sentenza  che  chiude  il
 processo  davanti  a  lui,  condanna la parte soccombente al rimborso
 delle spese a  favore  dell'altra  parte  e  ne  liquida  l'ammontare
 insieme agli onorari di difesa".
    La  condanna  alle  spese,  a  parere  di  questo  collegio, e' un
 provvedimento  che  il  giudice,   in   applicazione   della   citata
 disposizione,  puo'  emettere  anche  d'ufficio  e,  pertanto,  nella
 fattispecie in esame,  e'  irrilevante  l'assenza  della  domanda  di
 parte.
    Alcune   commissioni   tributarie,  compresa  questa,  hanno  gia'
 sottoposto al giudice della Corte costituzionale, in  relazione  agli
 artt.  3  e  24 della Costituzione, l'art. 39 del d.P.R. n. 636/1972,
 nella parte  in  cui  detto  articolo  esclude  l'applicabilita'  nel
 procedimento davanti alle commissioni tributarie degli articoli da 90
 a 97 del c.p.c. e quindi nella parte in cui esclude la condanna della
 parte soccombente al pagamento delle spese processuali.
    La Corte costituzionale - quando ha emesso una pronuncia di merito
 - ha ritenuto la  questione  "manifestamente  infondata",  in  quanto
 "l'istituto  della  condanna del soccombente al pagamento delle spese
 ha carattere generale, ma non e' assoluto ed inderogabile"  (sentenza
 n. 196/1982).
    In epoca piu' recente, pero', la Corte costituzionale ha affermato
 che "la liquidazione delle spese e delle competenze in difetto  della
 quale  il  diritto  di  agire  in  giudizio, per antico insegnamento,
 sarebbe  in  guisa  monca   garantito"   e'   normale   completamento
 dell'accoglimento  della domanda (sentenza 31 dicembre 1986, n. 303).
    Questo   collegio,   per   quanti  sforzi  faccia,  non  riesce  a
 comprendere perche' il citato principio non possa valere anche per  i
 processi  che  si  svolgono  davanti  alle  commissioni  tributarie e
 perche', conseguentemente,  il  diritto  di  agire  in  giudizio  del
 cittadino-contribuentevenga garantito "in guisa monca".
    E'  pur  vero  che nel processo tributario, per una scelta, quanto
 meno  discutibile,  del  legislatore  delegato  ma  non   anche   del
 legislatore  delegante  (v.  legge 9 ottobre 1971, n. 825), la difesa
 tecnica  non  e'  obbligatoria,  ma  e'  innegabile  che  quando   il
 contribuente,    come   nella   presente   fattispecie,   si   avvale
 (prudentemente³) dell'opera  di  un  professionista,  sopporta  delle
 spese  che  l'amministrazione  finanziaria,  in  caso di soccombenza,
 dovrebbe rimborsare.
    Il  contribuente che chiede giustizia sopporta sempre delle spese,
 anche quando, a suo rischio e pericolo,  sta  in  giudizio  da  solo,
 quanto meno... per i fogli bollati del ricorso.
    Questo  collegio,  pur essendo pienamente convinto della giustezza
 delle anzidette argomentazioni, per il doveroso rispetto dovuto  alla
 Corte   costituzionale,   si  asterrebbe  dal  riproporre  la  stessa
 questione di legittimita' se non avesse, come crede di avere, nuove e
 gravi  motivazioni  per  "dubitare" dell'equita' e della razionalita'
 della  normativa  che  esclude   la   condanna   dell'Amministrazione
 finanziaria al pagamento delle spese processuali.
    E' opinione molto diffusa, ma, per quanto si dira', infondata, che
 nel processo tributario davanti alle commissioni le  parti  in  causa
 (amministrazione  finanziaria  e  contribuente)  -  anche  se  non e'
 prevista la condanna della parte soccombente al pagamento delle spese
 processuali  -  si  troverebbero  in una situazione di eguaglianza in
 quanto il processo sarebbe sempre gratuito e chiunque perde non  paga
 le spese alla controparte.
    Soltanto l'amministrazione finanziaria, anche quando ha torto, non
 rimborsa  al   contribuente   le   spese   processuali,   mentre   il
 contribuente-ricorrente,  a  meno  che  non abbia totalmente ragione,
 viene assoggettato, peraltro in modo  ipocrita,  al  pagamento  delle
 spese  processuali  sotto  la  mistificante denominazione di maggiori
 pene pecuniarie.
    Stabilisce  -  in  materia  di imposte dirette - l'art. 54, ultimo
 comma, del d.P.R. n.  600/1973,  che  "Quando  il  reddito  netto  e'
 definito  per  mancata  impugnazione dell'accertamento dell'ufficio o
 per rinuncia  al  proposto  gravame  prima  che  sia  intervenuta  la
 decisione  della  commissione  tributaria  di  primo  grado,  le pene
 pecuniarie... sono ridotte alla meta'". E l'art. 71,  secondo  comma,
 del  d.P.R.  n. 131/1986 per l'imposta di registro stabilisce che "La
 pena  pecuniaria...  e'  ridotta  ad  un   sesto   del   massimo   se
 l'accertamento  e' divenuto definitivo perche' il contribuente non ha
 proposto ricorso o ha rinunciato  al  proposto  ricorso  prima  della
 decisione  della commissione tributaria di primo grado". Disposizione
 sostanzialmente analoga e' prevista in materia di Iva  (art.  58  del
 d.P.R. n. 633/1972).
    E la logica contenuta nelle citate disposizioni sembra confermata,
 anzi accentuata, nei piu' recenti provvedimenti legislativi (d.-l. 1º
 marzo 1990, n. 40, art. 5, secondo e quarto comma).
    E'  innegabile che il contribuente che ricorre contro un avviso di
 accertamento, se  ha  torto  e  quindi  perde  la  causa,  paga  pene
 pecuniarie  (e  in  alucni  casi anche imposte) in misura maggiore di
 quelle che avrebbe pagato se si fosse astenuto dal proporre  ricorso.
    Perdere  una  lite con il fisco, diversamente da quanto si crede o
 si vuol far credere, costa e non poco, a volte anche molte diecine di
 milioni    di   lire,   formalmente   per   "pene   pecuniarie",   ma
 sostanzialmente per spese processuali.
    Nella  fattispecie  in  esame,  se il ricorso venisse respinto, il
 ricorrente dovrebbe pagare circa due  milioni  di  lire  in  piu'  di
 quanto  invece  avrebbe  pagato  se  non avesse proposto ricorso. (L.
 4.065.000, invece di L. 2.033.000).
    Non  esiste  quindi una vera gratuita' delle liti con il fisco, ma
 un'ingiustificata gratuita' delle liti con  il  fisco  il  quale,  in
 nessun  caso,  in  base alle norme vigenti, puo' essere condannato al
 pagamento delle spese processuali.
    Esiste un'innegabile e forse illegittima disparita' di trattamento
 tra i cittadini e gli uffici tributari, i quali, anche per la mancata
 previsione  di  una  eventuale loro condanna alle spese, non di rado,
 emettono avvisi di  accertamento  c.d.  cautelativi  e  cioe'...  non
 adeguatamente  motivati,  i  cui effetti, a volte sono rovinosi per i
 contribuenti.
    L'art.  39, primo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, nella
 parte in cui esclude l'applicabilita' al  procedimento  davanti  alle
 commissioni  tributarie  degli  artt. da 90 a 97 del codice procedura
 civile, potrebbe essere affetto da illegittimita'  costituzionale  in
 relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione.
    La   suddetta   questione,  oltre  a  essere  "non  manifestamente
 infondata", e' anche  "rilevante"  in  quanto  la  stessa  non  viene
 proposta  in  via meramente eventuale, ma dopo che questo collegio ha
 accertato la sussistenza del presupposto necessario per  la  condanna
 dell'amministrazione    finanziaria   al   pagamento   delle   spese,
 presupposto costituito dall'illegittimita' dell'impugnato  avviso  di
 accertamento.
    Questo  collegio,  infine,  indipendentemente  dalla  questione in
 oggetto prende atto con soddisfazione dell'insegnamento  della  Corte
 costituzionale   (ordinanza  n.  19/1990)  per  la  quale  i  giudici
 tributari non hanno l'obbligo di mantenere il segreto sulla camera di
 consiglio  ed,  in  particolare,  sul  processo  di  formazione della
 decisione. Trattasi di un principio che, secondo  qualche  autorevole
 opinione,  forse  non si concilia con la disposizione di cui all'art.
 16 della legge sulla c.d. responsabilita' civile dei  giudici  (legge
 n. 177/1988) se la citata disposizione, nella parte in cui prevede la
 redazione di un  sommario  processo  verbale,  si  applica  anche  ai
 componenti delle commissioni tributarie.
    Tuttavia e' un principio che puo' giovare alla "trasparenza" nella
 amministrazione della giustizia e che e' stato gia' riconosciuto  dal
 nostro  legislatore  con la legge 4 agosto 1955, n. 848, con la quale
 e' stata ratificata dall'Italia la Convenzione  per  la  salvaguardia
 dei diritti dell'Uomo e delle Liberta' fondamentali (art. 51, secondo
 comma).
    "L'indipendenza del giudice - ha autorevolmente affermato la Corte
 costituzionale - e' un valore morale che si realizza in tutta la  sua
 pienezza   proprio   quando   si   esplica   nella   trasparenza  del
 comportamento".
    Questo  collegio  ritiene  auspicabile  che  i giudici della Corte
 costituzionale - in coerenza con  il  loro  insegnamento  -  vogliano
 considerare  l'opportunita'  di  indicare nelle loro sentenze e nelle
 loro ordinanze che la decisione e' stata adottata all'unanimita' o  a
 maggioranza  e,  in  questa seconda ipotesi, anche i nomi dei giudici
 favorevoli e dei giudici contrari.
                                P. Q. M.
    Visti  gli  artt. 134 della Costituzione e 23 della legge 11 marzo
 1953, n. 87;
    Dichiara d'ufficio, all'unanimita' "non manifestamente infondata",
 la questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  39,  primo
 comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, nella parte in cui esclude
 l'applicabilita' al procedimento davanti alle commissioni  tributarie
 degli  articoli  da 90 a 97 del codice procedura civile, in relazione
 agli artt. 3, primo  comma,  e  24,  primo  e  secondo  comma,  della
 Costituzione e "rilevante" per quanto in motivazione;
    Sospende   il   procedimento   in   corso  ed  ordina  l'immediata
 trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
    Dispone  che, a cura della segreteria, la presente ordinanza venga
 notificata al ricorrente e all'ufficio imposte dirette di Arona e  la
 Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri  e comunicata ai Presidenti
 delle due Camere del Parlamento.
      Verbania, addi' 26 aprile 1990
                  Il presidente-redattore: PISCITELLO
   I relatori: DENARI - PINOLINI
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