N. 447 SENTENZA 26 settembre - 12 ottobre 1990

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo penale - Nuovo codice - Procedimento per decreto - Pena
 richiesta dal pubblico ministero - Applicazione di pena diversa  da
 parte del giudice - Preclusione - Erronea interpretazione della norma
 censurata - Non fondatezza.
 
 (C.P.P. 1988, art. 460, secondo comma).
 
 (Cost., artt. 101, secondo comma, e 111, primo comma).
(GU n.41 del 17-10-1990 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Francesco SAJA;
 Giudici:  prof.  Giovanni  CONSO,  prof.  Ettore  GALLO,  dott.  Aldo
 CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco  GRECO,  prof.
 Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof.
 Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE,  prof.  Vincenzo
 CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
 ha pronunciato la seguente
                                SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita' costituzionale dell'art. 460, secondo
 comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza  emessa
 il 13 febbraio 1990 dal giudice per le indagini preliminari presso la
 Pretura di Camerino nel procedimento penale a  carico  di  Goldshtein
 Abraham  Leon,  iscritta  al  n.  222  del  registro ordinanze 1990 e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  20,  prima
 serie speciale, dell'anno 1990;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 26 giugno 1990 il Giudice
 relatore Mauro Ferri.
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con  ordinanza  del  13  febbraio  1990,  il giudice per le
 indagini preliminari presso la Pretura di Camerino ha sollevato,  nel
 corso  del  procedimento  penale  a carico di Goldshtein Abraham Leon
 (imputato del reato di cui all'art. 116 del regio decreto 21 dicembre
 1933,   n.   1736),  questione  di  legittimita'  costituzionale,  in
 riferimento agli artt. 101, secondo comma, e 111, primo comma,  della
 Costituzione,  dell'art.  460, secondo comma, del codice di procedura
 penale  del  1988  "nella  parte   in   cui   preclude   al   giudice
 l'applicazione  della  pena in una misura diversa da quella richiesta
 dal pubblico ministero".
    Il giudice a quo, premesso che il pubblico ministero ha esercitato
 l'azione penale richiedendo in data 30 gennaio  1990  l'emissione  di
 decreto  di  condanna indicando la pena da infliggere nella misura di
 150.000 di multa, e che non ricorre  a  favore  dell'imputato  alcuna
 delle  cause  di non punibilita' previste dall'art. 129 del codice di
 procedura penale, osserva che la pena da irrogare  nella  fattispecie
 dovrebbe  essere  di  misura superiore a quella indicata dal pubblico
 ministero, in base ai criteri predeterminati dagli artt.  132  e  133
 del  codice penale, ma che cio' gli e' inibito dalla norma censurata,
 secondo la quale "con il decreto di condanna il  giudice  applica  la
 pena nella misura richiesta dal pubblico ministero".
    Il  tenore  della  norma  e' talmente univoco, prosegue il giudice
 remittente, da escludere qualsiasi altra interpretazione che non  sia
 quella  che  il  giudice  non  puo'  applicare  una misura della pena
 diversa da quella richiesta dal pubblico ministero:  in  particolare,
 il  contrasto tra determinazione del pubblico ministero e valutazione
 del giudice non puo' essere ovviato mediante una declaratoria di  non
 accoglimento della richiesta ai sensi dell'art. 459, terzo comma, del
 codice di procedura penale, in quanto questo istituto  sembra  essere
 funzionale  soltanto  ad  un controllo di rito sull'ammissibilita'del
 procedimento speciale e non gia' ad un  controllo  sul  merito  della
 richiesta,   diverso  da  quello  risolventesi  in  una  sentenza  di
 proscioglimento ai sensi del citato art. 129 del codice di  procedura
 penale.
    Peraltro,  ammesso  in  ipotesi  il  contrario,  l'unica  corretta
 alternativa finale per il pubblico ministero sarebbe l'emissione  del
 decreto  di citazione a giudizio, evenienza chiaramente frustrante le
 esigenze di economia e speditezza poste a fondamento del procedimento
 per decreto.
    Cio'  posto,  prosegue  il  giudice  a  quo,  risulta innanzitutto
 violato il secondo  comma  dell'art.  101  della  Costituzione:  tale
 precetto  esige  che la scelta della misura della pena sia un atto di
 autonomia del giudice, da esercitarsi nell'ambito e con  l'osservanza
 dei  criteri  generali  ed astratti precostituiti dal legislatore, il
 quale, tuttavia, non puo' limitare la funzione  giurisdizionale  fino
 al  punto  di  ridurla  ad  una mera riproduzione protocollare di una
 valutazione altrui.
    In  secondo  luogo,  la  norma in esame contrasta anche con l'art.
 111, primo comma,  della  Costituzione,  in  quanto  l'obbligo  della
 motivazione  ivi previsto non puo' essere correttamente adempiuto dal
 giudice, riducendosi la motivazione stessa, in caso di  dissenso,  ad
 una  pura  finzione,  espressione  non  gia'  di  autonomia bensi' di
 soggezione alla richiesta della parte pubblica.
    Nel   procedimento   per   decreto,   osserva  ancora  il  giudice
 remittente, il giudice e' vincolato ad una richiesta  unilaterale,  a
 differenza  di  quanto  avviene nell'istituto dell'applicazione della
 pena su richiesta delle parti, ove inoltre, pure in  presenza  di  un
 consenso  esplicito, l'emanazione del provvedimento e' subordinata ad
 un controllo di correttezza sull'applicazione  e  sulla  comparazione
 delle  circostanze  prospettate dalle parti, cioe' sulla misura della
 pena pattiziamente stabilita.
    Ne'  potrebbe  ritenersi,  infine,  che nel procedimento de quo il
 consenso dell'imputato abbia rilevanza processuale come  eventuale  e
 posticipato.  Tale  tesi  e'  infondata, in quanto l'opposizione puo'
 essere configurata soltanto come atto di dissenso  sulla  scelta  del
 rito effettuata dal pubblico ministero (come si desumerebbe dall'art.
 461, terzo comma,  del  codice  di  procedura  penale);  inoltre,  in
 concreto  l'opposizione  puo'  fondarsi  su  motivi diversi da quelli
 attinenti alla misura della  pena  e  perfettamente  compatibili  con
 l'accettazione  della  stessa,  ma,  cio'  nonostante, il giudice del
 dibattimento deve revocare il decreto di condanna  e  puo'  applicare
 una  pena  anche  diversa  e piu' grave di quella fissata nel decreto
 stesso (art. 464, terzo e quarto comma).
    2.  -  E'  intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
 ministri, concludendo per l'infondatezza della questione.
    L'Avvocatura  dello  Stato  sostiene  che  il  giudice  remittente
 erroneamente ritiene che il giudice per le indagini  preliminari  non
 possa  rigettare  la  richiesta di decreto di condanna quanto ritenga
 non adeguata la pena indicata dal pubblico ministero.  Dal  combinato
 disposto  degli  artt.  459  e  460 del codice di procedura penale si
 desume, invece, il contrario, cioe' che  il  giudice  esercita  sulla
 richiesta la consueta delibazione in fatto e in diritto, senza alcuna
 limitazione.
    L'unica  particolarita'  in ordine ai poteri del giudice e' quella
 che  egli  e'  vincolato  all'alternativa  "rigetto-accoglimento   in
 integro"   del   decreto,   ma   cio'  non  viola  l'art.  111  della
 Costituzione, in quanto non comporta affatto, prosegue  l'Avvocatura,
 che  la  funzione  giurisdizionale  sia  svuotata  della  sua  tipica
 fisionomia: accogliendo la richiesta del pubblico ministero, infatti,
 il  giudice viene implicitamente a riconoscerne la giustezza in tutti
 i suoi aspetti, formali e sostanziali. Cio' e' confermato  dal  fatto
 che  il  decreto  penale di condanna e' un atto del giudice, che deve
 contenere, tra l'altro, la "concisa esposizione dei motivi di fatto e
 di  diritto  su  cui  e'  fondata  la  decisione, comprese le ragioni
 dell'eventuale  diminuzione  della  pena  al  di  sotto  del   minimo
 edittale" (art. 460, primo comma, lett. c).
                         Considerato in diritto
    1.  -  Il giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di
 Camerino solleva questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.
 460,  secondo  comma,  del codice di procedura penale del 1988 (comma
 applicabile nel procedimento pretorile in  base  al  generale  rinvio
 operato  dall'art.  565  dello  stesso  codice),  nella  parte in cui
 dispone che il giudice, nell'emettere il decreto penale di  condanna,
 "applica  la  pena nella misura richiesta dal pubblico ministero". Ad
 avviso del remittente la  norma  preclude  al  giudice,  che  sia  in
 disaccordo  sulla  misura  della pena indicata dal pubblico ministero
 nella richiesta di emissione del decreto, di  applicare  la  pena  in
 misura diversa; ne' il giudice potrebbe ovviare a tale situazione non
 accogliendo  la  richiesta  e  restituendo  gli  atti   al   pubblico
 ministero, ai sensi dell'art. 459, terzo comma, del codice, in quanto
 tale possibilita' sarebbe prevista per motivi attinenti unicamente al
 rito  e  non  anche  al merito della richiesta stessa. Cio' posto, la
 norma impugnata violerebbe il principio della soggezione del  giudice
 soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, della Costituzione), il
 quale esige che la scelta della misura della  pena  sia  un  atto  di
 autonomia  del  giudice  e  che  la  funzione giurisdizionale non sia
 ridotta  a  mera  riproduzione  di  valutazioni  altrui;  nonche'  il
 principio    dell'obbligo   della   motivazione   dei   provvedimenti
 giurisdizionali (art.  111,  primo  comma,  della  Costituzione),  in
 quanto  la motivazione in ordine all'entita' della pena si riduce, in
 caso di dissenso, a pura finzione.
    2. - La questione non e' fondata.
    La  tesi  del  giudice  remittente  si  basa su una lettura errata
 dell'art. 459, terzo comma, del codice di procedura penale.  Ne'  dal
 suo  tenore letterale ("Il giudice, quando non accoglie la richiesta,
 se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell'art.
 129,  restituisce  gli  atti  al  pubblico  ministero"), ne' da altre
 disposizioni relative al procedimento per  decreto,  e'  dato  trarre
 argomenti che possano giustificare la lettura restrittiva fornita dal
 giudice   a   quo,   secondo   cui   solamente    motivi    attinenti
 all'ammissibilita'   del   rito  potrebbero  legittimare  il  mancato
 accoglimento della richiesta e la conseguente restituzione degli atti
 al   pubblico  ministero.  Al  contrario,  come  esattamente  osserva
 l'Avvocatura Generale dello  Stato  in  conformita'  alla  pressoche'
 unanime  dottrina,  l'art. 459, terzo comma, attribuise al giudice un
 sindacato completo sulla richiesta del pubblico ministero: egli puo',
 quindi,  rigettarla  anche  nel  caso  in cui ritenga non adeguata la
 misura della pena in essa indicata.
    Cio'  posto,  vengono  automaticamente  a  cadere  le  censure  di
 incostituzionalita' avverso la norma impugnata.
    E' chiaro, infatti, che, una volta accertato che il giudice per le
 indagini preliminari ha un potere di controllo pieno, nel rito e  nel
 merito,  sulla  richiesta  di emissione del decreto penale presentata
 dal pubblico ministero, il successivo vincolo in forza del quale, nel
 caso  di  accoglimento  della  richiesta,  egli non possa discostarsi
 dalla misura della pena  indicata  (vincolo,  peraltro,  giustificato
 dalla  mancanza  di  un  potere  di opposizione da parte del pubblico
 ministero avverso  il  decreto)  non  determina  alcuna  lesione  dei
 principi invocati nell'ordinanza di rimessione.
    3.  -  Osserva  ancora il giudice remittente che, anche ammettendo
 che il giudice possa rigettare la richiesta  del  pubblico  ministero
 per  inadeguatezza  della  pena,  al  pubblico  ministero  altro  non
 resterebbe che emettere il  decreto  di  citazione  a  giudizio,  con
 conseguente  frustrazione  delle esigenze di speditezza e di economia
 processuale che costituiscono la ratio del procedimento per  decreto.
    Pur  prescindendo  dal  rilievo  che tale doglianza nulla ha a che
 vedere con i parametri costituzionali invocati, nemmeno  quest'ultima
 tesi  del  giudice  a  quo  puo'  essere  condivisa.  Deve,  infatti,
 ritenersi che, a seguito della restituzione degli atti da  parte  del
 giudice  che  non  intenda  accogliere  la  richiesta  di decreto, il
 pubblico ministero viene ad essere reinvestito di tutti i  poteri  ad
 esso  spettanti.  A  parte,  quindi,  la  possibilita',  che pur deve
 ammettersi, di una reiterazione della richiesta con le  modificazioni
 ritenute  idonee  a  renderla  accoglibile  (e  qualora ovviamente ne
 perdurino le altre condizioni previste dalla legge), nulla  impedisce
 al pubblico ministero di indirizzare il procedimento, ove in concreto
 ne ricorrano i presupposti, verso altri riti  semplificati,  atti  ad
 evitare  il  passaggio  al  dibattimento.  Anzi,  come si legge nella
 Relazione al progetto preliminare del codice, proprio allo  scopo  di
 favorire   l'instaurazione  di  altri  riti  differenziati  e'  stato
 disposto che il giudice che non ritenga di  emettere  il  decreto  di
 condanna  restituisca gli atti al pubblico ministero, a differenza di
 quanto era previsto nel Progetto preliminare  del  1978,  secondo  il
 quale in tal caso era lo stesso pretore a procedere all'emissione del
 decreto di citazione a giudizio.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondata  la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 460, secondo comma, del  codice  di  procedura  penale  del
 1988, sollevata, in riferimento agli artt. 101, secondo comma, e 111,
 primo  comma,  della  Costituzione,  dal  giudice  per  le   indagini
 preliminari   presso  la  Pretura  di  Camerino  con  l'ordinanza  in
 epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 26 settembre 1990.
                          Il Presidente: SAJA
                          Il redattore: FERRI
                        Il cancelliere: MINELLI
    Depositata in Cancelleria il 12 ottobre 1990.
                Il direttore della cancelleria: MINELLI
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