N. 111 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 dicembre 1990
N. 111 Ordinanza emessa l'11 dicembre 1990 dal tribunale di Como nel procedimento elettorale promosso da Charrej Franco nei confronti di Picco Enzo ed altri Elezioni - Ineleggibilita' alla carica di sindaco e decadenza dalla stessa della persona condannata (anche con pena sospesa) a pena detentiva superiore a sei mesi per reati commessi nella qualita' di pubblico ufficiale o con abuso d'ufficio o ad un anno per ogni altro delitto - Ingiustificata disparita' di trattamento di situazioni analoghe, attesa l'eleggibilita', in caso di condanna con pena sospesa, alla carica di deputato, senatore, consigliere regionale, provinciale e comunale - Incidenza sul diritto all'elettorato passivo. (D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, art. 6, ultimo capoverso). (Cost., artt. 3 e 51).(GU n.10 del 6-3-1991 )
IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza. Con delibera 19 luglio 1990 il consiglio comunale di Campione d'Italia, preso atto delle note della prefettura di Como e dei pareri del Consiglio di Stato in merito alla verificatasi decadenza di Charrey dalla carica di sindaco a seguito di condanna penale irrevocabile, eleggeva alla carica di sindaco il sig. Enzo Picco e a componenti della giunta municipale i signori Gianoglio, Canesi, Balsamo e Mamoli. Avverso la delibera pubblicata dal 30 luglio al 14 agosto 1990, che ne aveva nella sostanza pronunciato la decadenza dall'ufficio di sindaco ai sensi dell'art. 9- bis del testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunale (d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570) Charrey proponeva ricorso giurisdizionale avanti a questo tribunale, a cio' facoltizzato dal medesimo articolo, secondo e ottavo comma. Chiedeva in principalita' l'annullamento della delibera consiliare per non essersi verificata alcuna decadenza della carica di sindaco; in subordine, eccepica l'illegittimita' costituzionale dell'art. 271 del testo unico della legge comunale e provinciale del 1934, come sostituito dall'art. 4 della legge 1 giugno 1977, n. 286, nonche' dell'art. 6, ultimo capoverso, del decreto del Presidente della Repubblica n. 570/1960 per violazione degli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione; instava per la rimessione degli atti alla Corte costituzionale. Narrava in fatto d'essere stato condannato con sentenza penale passata in giudicato alla pena di mesi otto di reclusione per il delitto di falso ideologico in atto pubblico commesso in Campione d'Italia in data 9 maggio 1986, con concessione dei doppi benefici di legge della sospensione condizionale della pena e della non menzione. Deduceva in diritto che: 1) l'art. 271 del testo unico della legge comunale e provinciale del 1934, come sostituito dall'at. 4 della legge 1 giugno 1977, n. 286, secondo il quale "gli amministratori che ricoprono talune cariche indicate nell'articolo precedente - in primis il sindaco - decadono da essere di pieno diritto, quando siano condannati con sentenza divenuta irrevocabile, per delitto commesso nella qualita' di pubblico ufficiale, o con abuso di poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione, ad una pena restrittiva della liberta' personale della durata superiore a 6 mesi.. .. ..", era stato espressamente abrogato dall'art. 64 della legge 8 giugno 1990, n. 142, come pure doveva ritenersi abrogato per implicito, stante l'eadem ratio, l'art. 6, ultimo capoverso, del decreto del Presidente della Repubblica n. 570/1960, secondo il quale non puo' essere nominato sindaco "chi fu condannato per qualsiasi reato commesso nella qualita' di pubblico ufficiale o con abuso di ufficio ad una pena restrittiva della liberta' personale superiore a sei mesi.. .. ..". 2) In ogni caso l'operativita' dei predetti artt. 271 del testo unico comunale e provinciale del 1934 e 6 del decreto del Presidente della Repubblica n. 570/1960 era "bloccata" dalla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, atteso il nuovo testo dell'art. 166 del c.p., introdotto con la legge 7 febbraio 1990, n. 19, per il quale gli effetti della sospensione si estendono alle pene accessorie, ad esse dovendosi assimilare la misura della decadenza di cui al cennato art. 271. 3) Ove le suddette norme avessero dovuto ritenersi ancora in vigore e applicabili alla fattispecie, era allora rilevante e non manifestamente infondata la questione della loro legittimita' costituzionale in relazione agli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione. Sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza, rilevava, da una parte, l'irrazionalita' di un sistema fondato sull'automatismo di un'unica massima sanzione, prevista indifferentemente per un'infinita serie di situazioni inserite nell'ambito di uno stesso pur grave reato; dall'altra, l'inconguita' del trattamento differenziato previsto per i pubblici impiegati, per i quali, a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 19/1990, la condanna penale non da' piu' luogo ad automatica destituzione di diritto. Sotto il profilo della violazione dell'art. 51 della Costituzione, che sancisce il diritto di tutti i cittadini di accedere alle cariche elettive, evidenziava come le norme impugnate mantenevano in vita un sistema confliggente con il principio, piu' volte affermato dalla Corte costituzionale, secondo cui tal diritto non puo' subire limitazioni diverse da quelle derivanti dalle cause di ineleggibilita', di stretta interpretazione, mentre poi i predetti limiti devono essere rigorosamente contenuti nell'ambito di quanto sia ragionevolmente indispensabile per garantire la soddisfazione delle esigenze di pubblico interesse cui sono preordinati. Sotto il profilo infine della violazione dell'art. 97 della Costituzione, che sancisce il principio del buon andamento dell'amministrazione, denunciava la conflittualita' di esso con l'applicazione automatica ed immotivata della decadenza. Nei termini di legge nessuna delle parti contro cui il ricorso era diretto depositava controricorso. Solo in data 21 novembre 1990 si costituiva la prefettura di Como, in persona del prefetto pro-tempore, pel tramite dell'avvocatura dello Stato, depositando fascicolo contenente atti e documenti. Eccepiva l'irritualita' della notificazione, effettuata a mani di dipendente ella prefettura di Como e non presso gli uffici dell'avvocatura dello Stato di Milano, sicche' ad essa non poteva essere imputato il ritardo nella costituzione, ne' opposta la decadenza per inosservanza del termine perentorio di costituzione. Nel merito richiamava il contenuto dei pareri 18 ottobre 1989 e 12 luglio 1990 del Consiglio di Stato, cui si riportava integralmente. Quanto alle sollevate questioni di incostituzionalita' sottolineava la diversita' delle categorie - prime fra tutte quelle degli impiegati locali e dei dipendenti statali - per le quali e' escluso l'automatismo della destituzione, rispetto alla categoria degli amministratori comunali: per le une vi e' sempre la possibilita' di infliggere la sanzione della destituzione al termine di un procedimento disciplinare. Negava infine qualsivoglia contrasto del sistema con gli artt. 51 (la decadenza da sindaco di chi abbia subito una grave condanna penale apparendo assolutamente ragionevole) e 97 della Costituzione (contrastante con il principio della buona amministrazione essendo invece il consentire che un condannato con sentenza definitiva possa diventare sindaco). All'esito della discussione odierna il tribunale osserva come la questione di llegittimita' costituzionale dell'art. 6, ultimo capoverso, del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, in relazione agli artt. 3 e 51 della Costituzione sia, nei limiti che si illustreranno, rilevante e non manifestamente infondata. Sotto il profilo della rilevanza occorre evidenziare che l'abrogazione dell'art. 271 del testo unico della legge comunale e provinciale, nel testo sostituito dall'art. 4 della legge 1 giugno 1977, n. 286, disposta dall'art. 64, primo comma, lett. c), della legge 8 giugno 1990, n. 142, non ha travolto la norma impugnata, sia perche' manca la dichiarazione espressa dal legislatore, sia perche' l'art. 31 del nuovo ordinamento delle autonomie locali riserva ad altra legge la materia relativa alle elezioni dei consigli comunali (e provinciali) e allo status dei componenti; donde la non condivisibilita' della tesi dell'abrogazione tacita ex art. 15 delle preleggi. Ne' vale il richamo dell'art. 40 della legge 8 giugno 1990, n. 142, che disciplina i casi di rimozione e sospensione degli amministratori locali per sostenere la caducazione, per effetto dell'entrata in vigore di tal normativa, dell'art. 6 citato: la cennata disposizione, inserita nel capo che regola il "controllo sugli organi", riguarda i poteri discrezionali di sospensione e rimozione degli amministratori degli enti locali attribuiti all'autorita' centrale e non attiene affatto alla diversa materia della eleggibilita' e incompatibilita' degli amministratori medesimi, di cui non condivide la ratio e i presupposti. Pertanto in base all'art. 6 del d.P.R. n. 570/1960, norma da ritenersi attualmente vigente, in combinato disposto con i successivi artt. 9 e 9- bis, il sindaco condannato in via definitiva per qualsiasi reato commesso nella qualita' di pubblico ufficiale o con abuso di ufficio ad una pena restrittiva della liberta' personale superiore a sei mesi decade dalla carica. Peraltro nella fattispecie il sindaco di Campione d'Italia, Franco Charrey, ha beneficiato della sospensione condizionale della pena: poiche' egli assume che l'ineleggibilita' alla carica derivante da condanna penale e ove la carica sia gia' ricoperta, la decadenza di diritto non puo' operare a seguito di condanna a pena condizionalmente sospesa, occorre verificare la esattezza giuridica dell'assunto, che, se fondato, verrebbe meno la rilevanza della questione di illegittimita' costituzionale. L'art. 166 del c.p., nel nuovo testo introdotto dalla legge 7 febbraio 1990, n. 19, estende gli effetti della sospensione condizionale della pena alle pene accessorie. Assume Charrey: 1) che la misura della decadenza e' pena accessoria; 2) che se non lo e', costituendo mero effetto penale della condanna, ad essa va pur sempre applicato l'art. 166 del c.p. quantomeno in via analogica, essendo l'intera norma espressione di un principio generale dell'ordinamento giuridico dello Stato. La tesi non puo' essere condivisa. Come e' noto le pene accessorie (per le quali pure vale il principio di legalita') conseguono di diritto alla condanna, per espressa disposizione di legge, con effetti penali di essa. La causa di ineleggibilita'-decadenza prevista dall'art. 6 del d.P.R. n. 570/1960, che non e' formalmente pena accessoria (la legge non la qualifica tale), non lo e' neppure sostanzialmente, se anche il suo contenuto coincide in minima parte, quanto alle conseguenze, con quella dell'interdizione dai pubblici uffici (privazione del diritto di elettorato passivo): l'istituto non si atteggia infatti come ulteriore sanzione comminata a coloro che commettono talune spcie di reati, per rafforzare il precetto penale in funzione strumentale, bensi', unitamente alle altre cause elencate nella norma impugnata, come requisito negativo prescritto per coloro che siano chiamati a far parte di organi elettivi affinche' sia tutelato il normale e corretto svolgimento del rapporto elettorale. Siffatta esigenza viene dalla legge salvaguardata con la previsione di cause di ineleggibilita', incompatibilita' e decadenza, le quali tendono ad assicurare la libera espressione del voto, ovvero che l'eletto possa assolvere le proprie funzioni in condizioni di indipendenza ed imparzialita' rispetto ad interessi di altri o anche propri, ovvero ancora il decoro, la dignita' e il prestigio delle cariche di amministratore locale, incrinati da una condanna penale irrevocabile per particolari tipi di reato o comportante pena di una certa natura ed entita'. In altre parole la ineleggibilita'-decadenza prevista dall'ultimo capoverso dell'art. 6 citato non sanziona un reato, ma assume la condanna penale irrevocabile del candidato o dell'eletto a fatto ostativo della sua elezione ovvero del mantenimento della carica, valutando nella fattispecie la perdita di effettiva qualificazione all'esercizio delle funzioni rispetto all'ambiente in cui le medesime funzioni sono svolte o dovranno eserlo. Tant'e' che la legge fa discendere la ineleggibilita' a sindaco dall'esistenza di una sentenza penale di condanna indipendentemente dalla sua eseguibilita', donde la riprova dell'esclusione della natura sanzionatura della norma e dell'erroneita' della qualificazione dell'istituto non solo come "pena accessoria", ma anche come "effetto penale" della condanna, la quale assume invece valore di mero presupposto di fatto della decadenza. Ma se anche volesse accedersi alla tesi che individua nella misura di cui all'ultimo capoverso del citato art. 6 un effetto penale della condanna, non sarebbe ad essa comunque estensibile per analogia la disposizione di cui al nuovo testo dell'art. 166 del c.p.. Intanto e' da dire che l'art. 4 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, nel ribaltare la prospettiva del vecchio testo, che escludeva l'estensione della prospensione condizionale della pena alle pene accessorie e agli altri effetti penali della condanna, ha tenuto fuori dalla previsione di estensibilita' degli effetti del beneficio proprio gli effetti penali, tra i quali si vorrebbe far rientrare l'istituto in oggetto. Inoltre il secondo comma dell'art. 166, introdotto con la legge n. 19/1990, nello statuire che la condanna a pena condizionalmente sospesa non puo' costituire in alcun caso, di per se sola, motivo d'impedimento all'accesso a posti di lavoro pubblici e privati, ha fatto salvi "i casi specificamente previsti dalla legge". Infine la posizione di coloro che concorrono a cariche elettive pubbliche non pare assimilabile a quella di chi aspiri ad un posto di lavoro pubblico o privato, ovvero abbia gia' avuto accesso nella pubblica amministrazione come diopendente (per il quale l'art. 9 della cenna legge n. 19/1990 esclude la destituzione automatica a seguito di condanna penale), non fosse altro perche' per i primi, attese le modalita' d'attribuzione delle pubbliche funzioni, non e' previsto un procedimento disciplinare all'esito del quale poter infliggere la misura sanzinatoria massima; ne consegue l'inammissibilita' nella specie del ricorso alla analogia in bonam partem, per mancanza dei presupposti dicui all'art. 12, secondo comma, delle preleggi. Se dunque deve trovare applicazione l'art. 6, ultimo capoverso, della legge n. 570/1960, non intercettato dall'effetto sospensivo di cui all'art. 166, nuovo testo, del codice penale, allora non e' manifestamente infondata la questione di illegittimita' costituzionale di tal norma in relazione agli artt. 3 e 51 della Costituzione, nei limiti che seguono. Per effetto dell'entrata in vigore della legge n. 19/1990 tutti i condannati per reati che comportino l'applicazione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici, nel caso di concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, conservano l'elettorato attivo e passivo, con la possibilita' di accedere, in presenza degli altri necessari requisiti di legge, alle massime cariche elettive dello Stato e a "quasi" tutte quelle degli enti locali. Premesso che vige in generale il principio che e' eleggibile chiunque e' elettore e cioe', di regola, l'elettorato attivo coincide con l'elettorato passivo, si consideri che la legge 22 maggio 1980, n. 193, abrogando il n. 7 dell'art. 2 del testo unico delle leggi recanti norme per la disciplina dell'elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali, il quale escludeva per un periodo di cinque anni la capacita' elettorale dei condannati per una serie di delitti, tra i quali il falso, ha soppresso la causa di perdita del diritto elettorale attivo (e passivo) che discendeva dalla condanna penale in quanto tale; sicche' oggi il condannato per un reato di falso, pur interdetto dai pubblici uffici ma con pena sospesa, e' eleggibile (salva la ricorrenza di specifici ulteriori requisiti personali) a deputato o a senatore, a consigliere regionale, provinciale e comunale, e puo' assurgere a piu' alte cariche, ma non puo' essere nominato sindaco, e se lo e' gia' decade, in conseguenza della norma impugnata. L'irrazionalita' del sistema appare evidente: se prima della legge n. 19/1990 non poteva configurarsi alcuna disparita' di trattamento posto che per tutti i soggetti condannati per reati comportanti l'applicazione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici (v. art. 31 del c.p.), fosse o meno concessa la sospensione condizionale della pena, veniva meno l'elettorato e l'eleggibilita' in quanto l'effetto del beneficio eventualmente ottenuto non si estendeva alle pene accessorie, dopo l'entrata in vigore del nuovo testo dell'art. 166 del c.p. tutti coloro che godono della sospensione condizionale della pena non sono privati del diritto di elettorato attivo e passivo ma ciononostante, se condannati a pena detentiva superiore a sei mesi per reati commessi nella qualita' di pubblico ufficiale o con abuso di ufficio o a un anno per ogni altro delitto, non possono essere nominati alla carica di sindaco, e se nominati decadono. Stante la vigenza dell'ordinamento dell'art. 6 del d.P.R. n. 570/1960, quale che possa essere la valutazione sulla rispondenza dell'intero sistema ai canoni di buona amministrazione della cosa pubblica, permane una disparita' di trattamento nella disciplina delle condizioni richieste per accedere alle cariche elettive, non giustificata dalla diversa natura della carica ricoperta; che' anzi il rilievo esponenziale attribuibile al capo dell'amministrazione comunale (si pensi ai tanti minuscoli comuni che nel nostro Paese costituiscono significativa espressione dell'autonomia locale) non puo' certo considerarsi pari a quello di piu' alte cariche, quale ad esempio la carica di presidente della giunta regionale. Se l'accesso a tale funzione non e' impedito dalla condanna a pena anche superiore a quella inflitta a Charrey e dalla conseguente interdizione dai pubblici con pena sospesa, non si vede perche', se non violando l'art. 51, primo comma, della Costituzione, non si possa consentire al medesimo, gia' consigliere comunale, l'accesso alla carica di sindaco.
P. Q. M. Visti gli artt. 134 della Costituzione e 34 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 6, ultimo capoverso, del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, in relazione agli artt. 3 e 51 della Costituzione, nel senso e nei limiti di cui in motivazione; Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Sospende il procedimento in corso; Dispone che la presente ordinanza sia notificata, a cura della cancelleria, al Presidente del Consiglio dei Ministri, e comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Como, addi' 11 dicembre 1990 Il presidente: MAIORANO Il funzionario: GRASSO 91C0247