N. 164 ORDINANZA (Atto di promovimento) 31 dicembre 1990

                                N. 164
      Ordinanza emessa il 31 dicembre 1990 dal tribunale di Roma
    nel procedimento penale a carico di Bartolomei Claudio ed altro
 Stupefacenti e sostanze  psicotrope  -  Detenzione  di  quantita'  di
 stupefacenti  eccedenti  la  dose  media  giornaliera - Previsione di
 identica pena edittale sia per la ipotesi di  detenzione  a  fine  di
 consumo  che  per  l'ipotesi  di  detenzione  a  fine  di  spaccio  -
 Irragionevolezza - Violazione del principio di offensivita' del reato
 - Individuazione della "dose media  giornaliera"  mediante  rinvio  a
 provvedimento  amministrativo  (decreto del Ministro della sanita') -
 Violazione del principio della riserva di legge in materia penale.
 (Legge 22 dicembre 1975, n. 685, artt. 71, 72 e 72-quater, modificato
 dalla legge 26 giugno 1990, n. 162).
 (Cost., artt. 3 e 25).
(GU n.12 del 20-3-1991 )
                             IL TRIBUNALE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza di rimessione degli atti alla
 Corte costituzionale nella causa penale iscritta al n.  4966/90  r.g.
 trib.  contro  Bartolomei  Claudio,  nato a Roma il 1› marzo 1957 ivi
 residente in via Acqua Acetosa Ostiense n. 7, Frontini Andrea, nato a
 Roma il 21 novembre 1970 ivi residente in via  D.  Giuliotti  n.  20,
 imputati  del  reato  di  cui all'art. 73 del t.u. 9 ottobre 1990, n.
 309, per avere illecitamente detenuto rispettivamente gr. 0,661 e gr.
 0,816 di haschish. In Roma, il 30 dicembre 1990.
    Tratti  a  giudizio  direttissimo  per  rispondere  del  reato  in
 epigrafe,  Bartolomei  Claudio  e  Frontini Andrea, dopo la convalida
 dell'arresto, richiedevano il giudizio abbreviato, a conclusione  del
 quale il pubblico ministero chiedeva per entrambi la pena di mesi tre
 di  reclusione  e  lire  unmilione  di  multa. I difensori, stante la
 flagranza e le ammissioni degli imputati, chiedevano il minimo  della
 pena.
    A  conclusione  della  discussione  in  camera  di  consiglio,  il
 tribunale ritiene di dover rimettere a codesta Corte la questione  di
 legittimita'  costituzionale  degli  artt.  73,  75 e 78 del d.P.R. 9
 ottobre  1990,  n.  309,  in  relazione  agli  artt.  3  e  25  della
 Costituzione.  Ad  avviso  del  collegio,  infatti, il citato art. 73
 viola le due norme costituzionali  nei  limiti  in  cui  sottopone  a
 sanzione  penale la detenzione, in quantita' superiori alla "dose me-
 dia giornaliera", di sostanze stupefacenti destinate al consumo.
    Sul  punto  della  punibilita'   del   consumatore   di   sostanze
 stupefacenti  la  legge  n.  162/1990  ha  radicalmente modificato la
 disciplina previgente. La legge  n.  685/1975  configurava,  infatti,
 rispetto  alla  detenzione, un reato di pericolo presunto (art. 71) e
 un reato di pericolo concreto (art.  72).  La  detenzione  di  droga,
 cioe',  era  punita  solo  in quanto comportava il pericolo (presunto
 nell'art.  71  e  da  provare  nell'art. 72) di una destinazione allo
 spaccio e costituiva quindi una condotta  potenzialmente  lesiva  del
 bene  protetto  dalle  citate  norme  incriminatrici.  Il  consumo di
 stupefacenti, invece, di per se' non era considerato reato.
    Il principio sopra enunciato  discendeva  con  evidenza  non  solo
 dalla  non punibilita' della detenzione attuale di "modica quantita'"
 di sostanza stupefacente destinata al consumo personale, ma anche,  e
 soprattutto,  dalla  non  punibilita' del consumo pregresso quale che
 fosse la quantita' di droga consumata. Infatti, la  ratio  della  non
 punibilita' della detenzione pregressa di quantita' anche non modiche
 di  droga  effettivamente  consumata, sancita nella seconda parte del
 secondo comma dell'art. 80 della legge n. 685/1975,  risiedeva  nella
 concreta    insussistenza    del   pericolo   di   spaccio   rivelata
 dall'effettivo  consumo  (cfr.  trib.   Roma,   27   novembre   1987,
 Russomando,  in  cass.  pen.  1988, p. 712; Cass. sez. I, 1› dicembre
 1986, ivi, p. 709). E questo era anche il pensiero di  codesta  Corte
 che,  nella  sentenza  n.  170/1982,  aveva affermato che "nel punire
 l'accumulazione di quantita' di  stupefacenti,  anche  quando  se  ne
 possa  ipotizzare la destinazione ad uso personale, il legislatore ha
 avuto di  mira  l'oggettiva  pericolosita'  della  condotta..  ..  ..
 L'argomento  tratto  dall'art. 80 della legge secondo cui non vengono
 puniti coloro che abbiano in passato  detenuto  quantita'  anche  non
 modiche  di  sostanze  stupefacenti  di cui sia stato accertato l'uso
 personale, convalida quanto appena detto. E' infatti evidente che  in
 questo  caso,  gia'  esauritasi  l'azione, e' cessata altresi' quella
 pericolosita' insita invece nella detenzione attuale".
    La legge n. 162/1990 rovescia questa impostazione e punisce con la
 sanzione   penale   la   detenzione    di    sostanze    stupefacenti
 indipendentemente da una situazione di pericolo - concreto o presunto
 -   di   destinazione   allo   spaccio.  Sarebbe  invero  palesemente
 irragionevole presumere - in maniera assoluta - che la detenzione  di
 una  quantita'  superiore  al fabbisogno quotidiano di un consumatore
 "medio" - calcolato peraltro con i criteri arbitrari e restrittivi di
 cui si dira' - integri il  pericolo  di  destinazione  allo  spaccio.
 L'esperienza  giudiziaria  dimostra  al  contrario  che  di  regola i
 consumatori, specie delle droghe c.d.  leggere,  si  riforniscono  di
 quantita'  superiori  al  fabbisogno giornaliero, anche per evitare i
 rischi connessi ai quotidiani contatti con il mondo del traffico.
    A differenza di quanto accadeva nella legge  n.  685/1975  con  la
 "modica  quantita'"  -  la  cui nozione giurisprudenziale consolidata
 (v., da ultimo, Cass.  sez.  VI,  25  novembre  1988,  De  Felicarie)
 corrispondeva alla quantita' che consentiva "ad un medio assuntore di
 soddisfare  le  sue  necessita'  per due/tre giorni" - la "dose media
 giornaliera" non costituisce un parametro ragionevole, corrispondente
 cioe' all'id quod plerumque accidit,  su  cui  possa  attendibilmente
 fondarsi una prognosi legale di pericolo di spaccio. Pertanto, ove il
 legislatore  del 1990 avesse inteso configurare la fattispecie di cui
 all'art. 73 come reato di pericolo (di spaccio), sarebbe  incorso  in
 un  palese vizio di irragionevolezza, per evidente mancanza di quella
 "oggettiva pericolosita'  della  condotta"  che,  secondo  la  citata
 sentenza di codesta Corte, rendeva compatibile con la Costituzione la
 sanzione   penale   prevista   dalla   legge   n.   685/1975  per  la
 "accumulazione" di sostanze stupefacenti, di cui  fosse  ipotizzabile
 la  destinazione ad uso personale. La norma si troverebbe dunque, per
 violazione del principio di ragionevolezza, in contrasto con l'art. 3
 della Costituzione.
    Ma  la  verita' e' che la suddetta fattispecie punisce non gia' il
 pericolo di spaccio, bensi' direttamente il consumo. Per quantita' di
 droga superiori alla "dose media giornaliera", la sanzione penale  si
 applica  infatti  sia  alla  detenzione attuale di cui sia provata la
 destinazione al consumo, sia,  direttamente,  al  consumo  pregresso,
 cioe'  alla  detenzione  per  la  quale il pericolo di spaccio non e'
 neppure ipotizzabile.
    L'applicazione delle sanzioni penali previste  dall'art.  73  alla
 detenzione  per  uso  personale  e  al  consumo  sembra  estranea, in
 verita', alla soggettiva intenzione  del  legislatore.  Significativa
 sul punto e' la relazione all'originario disegno di legge governativo
 n. 1509, dove (pp. 3/4) si espongono le preoccupate ragioni, anche di
 natura  costituzionale,  che  sconsigliano  la  sanzione  penale  del
 consumo e si afferma che per esso si  prevedono  "sanzioni  che,  pur
 assumendo  il  carattere  di pena principale, sono tratte dal sistema
 della misure sostitutive di cui alla legge 24 novembre 1981,  n.  689
 (sospensione  della  patente  e del passaporto, obbligo di residenza,
 firma quotidiana presso  i  registri  della  polizia)".  Ancora  piu'
 esplicite  sono  le affermazioni dei relatori di maggioranza senatori
 Condorelli e Casoli. Afferma il primo nella seduta del Senato del  28
 novembre  1989  (resoconto stenografico pp. 50 e 51): "non intendiamo
 punire il consumo, perche' vogliamo che  il  tossicodipendente  possa
 curarsi  senza  incorrere  in pericoli di sanzioni.. .. .. Rischio di
 carcere per il tossicodipendente.. .. .. non ce n'e' quindi nel  modo
 piu'  assoluto".  Insiste  il  secondo nella stessa seduta (ibidem p.
 43):  ".. .. .. tossicodipendenti che comunque in carcere per il solo
 consumo non andranno".
    Negli stessi sensi si esprime il Governo, per bocca  del  Ministro
 Russo  Jervolino,  che  nella  seduta del Senato del 28 novembre 1989
 (res. sten. p.  62),  a  proposito  del  tossicodipendente,  afferma:
 "Quindi,  sanzioni  si';  criminalizzazione, no". E nella seduta alla
 Camera del 3 aprile 1990, ribadisce: "nel disegno  del  governo,  fin
 dal  testo  originario  approvato  dal consiglio dei ministri, per la
 sola  detenzione  di  droga  non  e'  stata  mai  prevista  la   pena
 definitiva" (recte: immediata e diretta).
    Sintomatica  sul  punto  in  questione  e' altresi' la "reticenza"
 delle relazioni di  maggioranza,  che  trattano  la  questione  della
 punibilita'  dell'assuntore  (occasionale  o  abituale)  di  sostanze
 stupefacenti, con riferimento esclusivo alle sanzioni  amministrative
 (art. 75) o alle sanzioni penali indirette (art. 76), trascurando del
 tutto  la sopra dimostrata applicazione delle pene previste dall'art.
 73  al  consumatore  di  droga  appena  superiore  alla  "dose  media
 giornaliera" (cfr. la relazione Casini/Artioli del 26 marzo 1990 alla
 Camera,  pp.  9-15  e  la relazione Casoli/Condorelli del 13 novembre
 1989 al Senato, pp. 7-14).
    Appare dunque evidente che la  maggioranza  che  ha  approvato  la
 legge,  sembra  ritenere  che  la detenzione di sostanze stupefacenti
 destinate al consumo,  non  sia  in  nessun  caso  sussumibile  nella
 fattispecie  criminosa  di  cui  all'art.  73. L'equivoco e' tuttavia
 palese: si afferma di non voler punire il consumatore ma, sulla  base
 della  arbitraria equazione "detenzione eccedente la dmg=spaccio", in
 realta' lo si punisce.
    Il  solo  guardasigilli  (seduta  del Senato del 28 novembre 1989,
 pag. 76 res. sten.)  sembra  rendersi  conto  di  questa  illegittima
 parificazione del consumatore allo spacciatore. Egli manifesta la sua
 preoccupazione  in proposito, ma ritiene che il problema possa essere
 sdrammatizzato in considerazione della lieve entita' della  pena  che
 puo'  essere  irrogata  al  consumatore,  con  il  ricorso  al potere
 discrezionale del giudice e ai benefici del nuovo codice di procedura
 penale. Tuttavia - a parte che i nuovi istituti del  predetto  codice
 non  sempre  si rivelano dei "benefici", come dimostra frequentemente
 la concreta esperienza giudiziaria - al lieve entita' della pena  non
 ne  elimina la illegittimita'. E il guardasigilli preannuncia infatti
 sul punto un emendamento ed una revisione che pero' resteranno  sulla
 carta.
    Al  di  la'  della  inconsapevole,  reticente  o  incerta volonta'
 soggettiva  del  legislatore,  l'oggettivo  dato   normativo   appare
 tuttavia  univoco:  la  detenzione  per  comprovato  uso  personale e
 addirittura l'effettivo consumo di sostanze stupefacenti in quantita'
 superiore alla "dose media giornaliera" sono sanzionati  come  reato.
 Ma  tale  inequivoca portata normativa degli artt. 73, 75 e 78 appare
 in contrasto con gli artt. 3 e 25 della Costituzione.
    Sotto il primo profilo, la disparita' di trattamento, nella  forma
 di  pari  trattamento  di  situazioni diverse, appare evidente. Basti
 considerare il caso in cui sia provato  che  Tizio  abbia  venduto  a
 minimo  in  senso  assoluto,  neppure  potrebbe essere differenziata,
 nella concreta applicazione, con i criteri di cui  all'art.  133  del
 c.p. (salvo a ritenere, con palese violazione dei criteri generali di
 applicazione  della  legge  penale,  che  alla  fattispecie minima di
 spaccio  di  stupefacenti  non  si  possa  mai  applicare  il  minimo
 edittale).
    Sotto il profilo dell'art. 25, le norme denunciate contrastano con
 la  Costituzione  in  quanto  violano  il  principio della necessaria
 offensivita' del  reato.  E'  acquisizione  della  migliore  dottrina
 costituzionalista,  che  il principio contenuto nell'art. 25, secondo
 comma, letto alla luce dell'art. 13 e  tenendo  conto  dello  spirito
 dell'intera   carta   costituzionale,   costituisca  un  limite  alla
 discrezionalita' del legislatore penale, nel senso che possono essere
 assoggettate a pena solo azioni che effettivamente ledano o espongano
 a  concreto  pericolo  beni  altrui,  la  cui  tutela  possa   essere
 efficacemente  realizzata  soltanto  con  la  minaccia della sanzione
 penale. Assumendo tale principio - si sostiene -  il  costituente  ha
 voluto  porsi  in  antitesi  con  quella  concezione  autoritaria del
 diritto penale che configura il reato come mera disobbedienza o  come
 atto  di infedelta', e che aveva portato alla elaborazione della nota
 teoria del "tipo normativo d'autore", secondo la quale il soggetto va
 punito per quello che e' e non per quello che fa, per il suo modo  di
 essere e non per aver commesso fatti lesivi di beni altrui. Se questi
 sono  i principi costituzionali che limitano il potere di definizione
 delle fattispecie criminose da parte del legislatore  ordinario,  nel
 caso  di  specie  occorre verificare se nella detenzione destinata al
 consumo  o  nell'effettivo  consumo  di  sostanze  stupefacenti,   in
 quantita'  superiori alla "dose media giornaliera", sia configurabile
 la lesione o l'esposizione a pericolo di un bene giuridico che  possa
 giustificare, alla stregua dei suddetti principi, la sanzione penale.
    Illuminanti   sono   in   proposito  ancora  una  volta  i  lavori
 preparatori.
    La citata relazione Artioli/Casini (p. 6), nel contestare  che  la
 sanzione   dell'uso   della   droga   costituisce  una  inammissibile
 intrusione nella sfera di autodeterminazione  del  singolo,  richiama
 l'imposizione,  da  nessuno  criticata,  dell'uso  del  casco  per  i
 motociclisti e delle  cinture  di  sicurezza  per  li  automobilisti;
 aggiunge  che  non  solo  l'art. 5 del nostro codice civile vieta gli
 atti lesivi della propria  integrita'  fisica,  ma  per  impedire  il
 suicidio e' consentito l'uso della forza.
    Tali  affermazioni,  in  quanto  riferite alle sanzioni non penali
 della legge in discussione, non hanno pertinenza  alla  questione  de
 qua,  che  riguarda  la giustificazione costituzionale della sanzione
 penale.  Senonche'  il  relatore  Casini,  riprendendo   gli   stessi
 argomenti  nella  citata  seduta  alla  Camera del 27 marzo 1990 (pp.
 7/8), afferma che non e' vero che il consumo di droga costituisca  un
 reato senza vittime e soggiunge che la prima vittima e' il drogato. A
 conforto  della  sua  tesi  (illiceita' degli atti contro se' stesso)
 precisa poi, a proposito del suicidio, che esso costituisce  un  atto
 illecito, gravato dalla sanzione della "impedibilita'".
    Si  impone  pertanto  di  chiarire  che  al  nostro diritto penale
 sostanziale e' estraneo qualunque esempio di reato contro se' stesso,
 tanto e' vero che, per restare agli esempi addotti  dall'on.  Casini,
 l'uso del casco e delle cinture non e' assistito da sanzione penale e
 la  lesione,  anche  gravissima,  della  propria  integrita'  fisica,
 vietata sul piano civilistico, non costituisce reato  (giurisprudenza
 pacifica: v., da ultimo, trib. Roma, 23 marzo 1989, De Luca, in Cass.
 pen.,  1989,  p.  1573,  confermata  da Cass. sez. V, 27 giugno 1989,
 inedita, che  ha  escluso  la  configurabilita'  del  concorso  della
 vittima consenziente nel reato di lesioni gravi). Quanto al suicidio,
 appare  elementare osservare che la sua "impedibilita'" con la forza,
 discende non  gia'  da  una  sua  pretesa  illiceita',  bensi'  dalla
 scriminante  (stato  di necessita') che assiste l'intervento violento
 spiegato per impedirlo. In ogni caso, dall'assunto dell'on. Casini  -
 se  fosse  fondato  -  discenderebbe se mai, a contrario, la liceita'
 dell'uso della droga, a meno che non si voglia sostenere che  per  il
 nostro  ordinamento  chiunque possa impedire con la forza a taluno di
 fumare uno spinello o di "bucarsi".
    Appare, dunque, evidente  che  in  base  ai  principi  del  nostro
 ordinamento,  la salvaguardia della salute dell'assuntore di sostanze
 stupefacenti - che non potrebbe neppure giustificare, secondo la piu'
 accreditata  interpretazione  dell'art.  32  della  Costituzione,  un
 trattamento  sanitario  coattivo  (del resto neanche previsto, in via
 diretta, dalla stessa legge 162) - non puo' legittimare  la  sanzione
 penale per l'uso personale delle sostanze stesse.
    Le  norme denunciate, pertanto, nei limiti in cui costituiscono il
 consumatore di  stupefacenti  contemporaneamente  come  soggetto  sia
 della  tutela  penale  che  della  sanzione, contrastano non solo con
 consolidati   principi   ordinari   e   costituzionali   del   nostro
 ordinamento,   ma   segnano  altresi'  un  salto  all'indietro  nella
 evoluzione della cultura giuspenalistica,  la  quale  nega  ormai  da
 alcuni  secoli  che  la  sanzione  penale possa essere utilizzata per
 imporre all'individuo "il dovere di costruirsi in modo da  essere  un
 bene sociale" (Casini, cit., p. 7).
    La  relazione  sopra  citata,  in  verita',  prospetta una seconda
 dimensione di tutela perseguita con la sanzione dell'uso della droga,
 evidenziando che di esso e' vittima "non solo  il  tossicodipendente,
 ma  anche  i  suoi  familiari, i suoi amici, la comunita' in cui egli
 vive, la societa' nel suo complesso".
    Su   questo   aspetto   insiste   particolarmente   il    ministro
 guardasigilli  che,  nella seduta al Senato del 28 novembre 1989 (pp.
 74/75), sottolinea che l'assuntore di sostanze stupefacenti "e' fonte
 di disperazione per i propri familiari, di tragedie,  coinvolgimenti,
 devastazioni  e miserie senza fine.. .. .. E' autore di gravi delitti
 colposi, lo e' di gravi delitti dolosi..  ..  ..  l'assunzione  e  la
 detenzione  non sono mai indifferenti per due fondamentali beni della
 societa', la salute individuale e la sicurezza sociale.. .. ..".  Ne'
 si  tratta  "di  pericoli  remoti,  bensi'  di  pericoli estremamente
 concreti, come  la  diffusione  della  sindrome  da  immunodeficienza
 acquisita,  del  delitto  doloso  e  colposo  e  cio'  direttamente e
 sicuramente e non in via del tutto ipotetica e lontana, ma  immediata
 e  sicura  della  commissione  di  delitti".  Non  si puo', pertanto,
 rinunciare  alla  sanzione  penale,  cosi'  come  non  si  puo'  "mai
 rinunciare, per esempio, a quella forma di prevenzione di delitti che
 sta nella punizione della detenzione di cose pericolose".
    Che  lo stato di tossicodipendenza possa comportare i rischi sopra
 enunciati, e' innegabile.  Ma  altrettanto  innegabile  e'  che  quei
 rischi  esulano del tutto dall'assunzione, anche abituale, delle c.d.
 droghe    leggere     (che,     com'e'     noto,     non     inducono
 tossicodipendenza),cosi'  come costituiscono un pericolo assai remoto
 dell'uso occasionale o "compatibile" degli oppiacei o della  cocaina.
 Dire  che  il  consumo  di  sostanze  stupefacenti  di  questo tenore
 comporti immediatamente, direttamente e  sicuramente,  lo  sconquasso
 delle  famiglie  e  della societa', la diffusione dell'AIDS, nonche',
 indefettibilmente,  la  commissione  di  delitti  colposi  e  dolosi,
 costituisce  palesemente  una  enfatizzata generalizzazione del tutto
 priva  di  riscontro  nella  realta'.  Pertanto,  in   questi   casi,
 costituire  tali  pericoli  come  oggetto  della  tutela  della norma
 incriminatrice  del  consumo   di   sostanze   stupefacenti,   appare
 irragionevole ed arbitrario e percio' in contrasto con l'art. 3 della
 Costituzione.
    Certo, nell'uso occasionale delle c.d. droghe pesanti e' insito il
 rischio    del    passaggio    all'uso   abituale   e   quindi   alla
 tossicodipendenza, che comporta a sua volta i pericoli paventati  dal
 guardasigilli.  Ma  si tratta, all'evidenza, non gia' di un "pericolo
 concreto", bensi' di quel "pericolo di mera previsione, dal  quale  -
 gia'  secondo  il  Carrara (Programma, par. 352, p. 324) - non emerge
 ragione legittima di imputazione" e sul quale  la  migliore  dottrina
 penalistica   degli   ultimi   anni  ha  espresso  ampie  riserve  di
 costituzionalita'.Per le droghe c.d. leggere poi,  tale  pericolo  e'
 del  tutto  evanescente se e' vero che il passaggio dal consumo della
 cannabis a quello delle sostanze oppiacee (che sono tipiche di figure
 socio-culturali diverse se non pure antagoniste),  e'  oggi  fenomeno
 sporadico  e  raro,  come dimostra, tra l'altro, il rapporto numerico
 tra i due tipi di consumatori (secondo le stime piu'  accreditate,  i
 consumatori  di oppiacei sarebbero circa 2/300 mila, mentre quelli di
 cannabis supererebbero i 3 milioni).
    Come  ben  si vede se si tien conto della realta', con riferimento
 al consumo della cannabis e  all'assunzione  occasionale  delle  c.d.
 droghe  pesanti,  i pericoli che secondo l'intenzione del legislatore
 costituiscono il bene giuridico tutelato dalla  norma  incriminatrice
 dell'uso   di  sostanze  stupefacenti,  non  si  prestano  ad  essere
 configurati come "pericolo concreto" (pericolo  "corso",  secondo  la
 piu' pregnante terminologia del Carrara), ma rappresentano al massimo
 un "pericolo astratto" (o "pericolo del pericolo") come tale inidoneo
 a  legittimare  la  configurazione  di  una fattispecie criminosa. E'
 stato in proposito fondatamente osservato che "in tutti i casi in cui
 il pericolo concreto  non  si  presta  a  una  prefigurazione  legale
 tassativa,  il  suo accertamento tende inevitabilmente a ricalcare il
 modello penale del tipo di autore", con la conseguenza che ad  essere
 punita  e' "la mera disobbedienza o violazione formale della legge da
 parte di un'azione di per se' inoffensiva" (L. Ferrajoli,  Diritto  e
 Ragione,  Teoria  del garantismo penale, 1989, p. 525). Che e' quanto
 puntualmente accade nel caso in cui sia applicata la sanzione  penale
 a  chi  detenga  per  il  consumo  o addirittura abbia gia' consumato
 nell'arco delle 24 ore, uno "spinello" in piu' dei due-tre consentiti
 dalla "dose media giornaliera" ovvero, come nel caso di  specie,  due
 singole dosi "medie" accade nel caso in cui sia applicata la sanzione
 penale  a  chi  detenga  per  il  consumo  o  addirittura  abbia gia'
 consumato nell'arco delle 24 ore, qualche milligrammo in piu' di  una
 singola  dose  "media"  di "cocaina" ovvero, come nel caso di specie,
 dei due-tre "spinelli" consentiti dalle tabelle ministeriali.
    Quanto all'assunzione abituale di droghe "pesanti", rispetto  alla
 quale   i   pericoli  sopra  enunciati  assumono  una  dimensione  di
 concretezza, appare significativo che, a differenza del possessore di
 cose pericolose  evocato  dal  ministro  guardasigilli  -  ammesso  a
 provare l'insussistenza nel caso concreto del pericolo tutelato dalla
 norma  incriminatrice (cfr. art. 707 del c.p.) - il tossicodipendente
 e' indefettibilmente punito per il consumo di  sostanze  stupefacenti
 in  quantita'  superiori alla "dose media giornaliera", anche se, nel
 caso concreto, i beni tutelati non hanno  corso  alcun  pericolo.  E'
 evidente  pertanto  che, come in tutti i casi di "pericolo presunto",
 il fatto "pericoloso"  non  costituisce  l'oggetto  di  tutela  della
 sanzione penale, bensi' la semplice occasione per assoggettare a pena
 la  condizione  soggettiva  del  suo autore. Una situazione classica,
 cioe', di punizione per "tipo di autore".
    A parte tali rilievi, lo stesso  legislatore  ordinario  riconosce
 che  nei  confronti  del  consumatore abituale le "sanzioni penali si
 rivelano pressoche' inutili avuto riguardo alla indifferenza  con  la
 quale   il   tossicodipendente,   soverchiato   dalla  sollecitazione
 irresistibile  della  droga,  si  rapporta  a  qualsiasi  prospettiva
 sanzionatoria..  ..  ..  Naturalmente  le sanzioni dispiegano il loro
 potenziale dissuasivo quasi esclusivamente nei  confronti  di  coloro
 che  non  hanno  alcun  rapporto  di  dipendenza con la droga.. .. ..
 Pressoche'  nullo  e'  invece  tale   effetto   nei   confronti   dei
 tossicodipendenti,  totalmente soggiogati dalla esigenza pressante ed
 incessante della droga, i quali, non distolti da questa irresistibile
 pulsione da  ben  note  drammatiche  prospettive,  ben  difficilmente
 presteranno  maggiore  attenzione al messaggio dissuasivo dato da una
 sanzione penale.. .. .."  (relazione Casoli/Condorelli, cit., pp. 8 e
 11).
    Le  affermazioni  sopra  riportate, se da un lato confermano che i
 redattori  della  legge  non  si  sono  resi  conto   della   portata
 sanzionatoria delle norme che andavano approvando, dall'altro lato si
 saldano con l'osservazione secondo la quale "il principio di utilita'
 e  quello  della  separazione  tra  diritto  e  morale  impongono  di
 considerare ingiustificate tutte le  proibizioni  di  cui,  qualunque
 cosa   si   pensi   non  solo  circa  l'immoralita'  ma  anche  circa
 l'offensivita' delle azioni proibite, non  sia  comunque  prevedibile
 un'efficacia   deterrente   a   causa   delle   profonde  motivazioni
 individuali,  o  economiche  o   sociali   delle   loro   violazioni"
 (Ferrajoli, cit., p. 475).
    In  conclusione, la fattispecie criminosa che sottopone a sanzione
 penale la detenzione destinata  al  consumo  o  lo  stesso  effettivo
 consumo  di sostanze stupefacenti in quantita' eccedenti la "dose me-
 dia giornaliera", e' priva dei  fondamenti  costituzionali  richiesti
 materia penale sancita dallo stesso art. 25 della Costituzione.
    Invero  la Corte costituzionale, nei numerosi casi in cui e' stata
 chiamata a pronunciarsi sulla legittimita' delle c.d. norme penali in
 bianco, ha costantemente affermato che "il rispetto del principio  di
 legalita' dei reati e delle pene esige che nella norma primaria siano
 indicati  con  sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri,
 il  contenuto  ed  i  limiti  dei  provvedimenti  dell'autorita'  non
 legislativa,  alla  trasgressione  dei  quali  deve  seguire la pena,
 perche' il reato sia  tassativamente  determinato  in  tutti  i  suoi
 elementi  costitutivi"  (v.,  per  tutte, sent. n. 492/1987). Piu' di
 recente la Corte (sent. n. 282/1990) ha ribadito che, a tutela  delle
 esigenze  di  certezza  e determinatezza delle fattispecie penali, e'
 costituzionalmente legittima "la funzione integrativa  svolta  da  un
 provvedimento  amministrativo,  rispetto  ad  elementi  normativi del
 fatto  sottratti  alla  possibilita'  di  un'anticipata   indicazione
 particolareggiata   da   parte   della  legge,  quando  il  contenuto
 d'illecito sia peraltro da essa definito (come accade ad esempio  per
 gli  elenchi  delle  sostanze  stupefacenti  contenuti  in un decreto
 ministeriale.. .. ..)". Ma, tanto premesso, la Corte ha pure ribadito
 che  resta  riservata  alla  legge  la  determinazione  del   "nucleo
 fondante"  e  del  "contenuto  essenziale  dell'illecito penale", non
 essendo   consentito    rimettere    all'atto    amministrativo    la
 individuazione  degli elementi essenziali del reato, specie quando il
 potere dell'amministrazione,  come  nel  nostro  caso  (v.  art.  78,
 secondo  comma),  "rimanga  libero di mutare sostituire od abrogare i
 predetti elementi essenziali". E, sulla base  di  tali  premesse,  la
 Corte  ha dichiarato l'illegittimita' della norma allegata a sospetto
 in quanto consentiva che "la condotta penalmente rilevante" emergesse
 "solo  in  connessione  coi  contenuti  specifici"  di   un   decreto
 ministeriale. E' quanto accade, puntualmente, nel caso di specie.
    Secondo   l'art.   73  del  d.P.R.  n.  162/1990  la  "dose  media
 giornaliera" e' il limite quantitativo  massimo  oltre  il  quale  la
 detenzione a qualsiasi titolo della sostanza stupefacente costituisce
 reato.  L'art.  75  demanda  "ai  criteri  indicati  al  primo  comma
 dell'art. 78" la determinazione della dmg. Quest'ultimo che,  secondo
 la rubrica, disciplina la "quantificazione delle sostanze", demanda a
 sua  volta  a  un  decreto  del Ministro della sanita', previo parere
 dell'Istituto superiore di sanita', di determinare: a)  le  procedure
 diagnostiche e medico-legali per accertare l'uso abituale di sostanze
 stupefacenti   o   psicotrope;   b)  le  metodiche  per  quantificare
 l'assunzione   abituale   nelle   ventiquattro   ore;   c)  i  limiti
 quantitativi  massimi  di  principio  attivo  per   le   dosi   medie
 giornaliere.
    La  previsione  dell'art.  78  sopra  riprodotta, e' ben lungi dal
 soddisfare l'esigenza  di  predeterminazione  ad  opera  della  norma
 primaria   del  "contenuto  essenziale",  nonche'  dei  "presupposti,
 caratteri, contenuti e limiti", cui la  ricordata  giurisprudenza  di
 codesta  Corte  subordina  la  legittimita'  della integrazione della
 fattispecie penale ad opera del provvedimento amministrativo.
    Nel corso del dibattito parlamentare il governo e  la  maggioranza
 avevano  mostrato  di  annettere  grande  importanza  alla dimensione
 personalizzata della dmg. Nella seduta del  Senato  del  28  novembre
 1989  il  ministro  guardasigilli,  nel  preannunciare l'introduzione
 della norma che prevede i  criteri  sopra  elencati,  afferma:  "Cio'
 dovrebbe eliminare le lamentate equivocita' ed incertezze interpreta-
 tive  a  cui il testo attuale potrebbe dar luogo circa il riferimento
 oggettivo-soggettivo,  cioe'   personalizzato,   della   dose   media
 giornaliera"  (v.  resoconto  stenografico,  p.  75).  A sua volta il
 relatore Condorelli, replicando ad alcuni interventi critici  secondo
 i  quali  la  sostituzione  della  modica quantita' con la dose media
 giornaliera avrebbe lasciato le cose come stavano, afferma:  "Non  e'
 affatto  vero,  si  tratta di una soluzione molto differente. Oggi la
 scriminante tra lo spacciatore e il consumatore e'  rappresentata  da
 un  mero fatto quantitativo: il peso, l'elemento peso. Con la dmg no,
 c'e'  una  perizia  medica  sulla  persona,  un   accertamento,   che
 stabilisce innanzitutto se il soggetto e' un tossicodipendente. Cosi'
 anche  il  pericolo  che paventava il senatore Onorato cessa, perche'
 non sara' il mezzo grammo in  piu'  o  in  meno,  a  discriminare  il
 consumatore  dallo  spacciatore;  ci  sara'  una valutazione globale,
 medico-legale, condotta dai sanitari, che potra' valutare  l'esigenza
 di droga dei singoli soggetti. Per la modica quantita' esistono delle
 incertezze:  ad  esempio  un  soggetto  puo'  aver  bisogno  di cento
 milligrammi di eroina, ma un altro potrebbe aver bisogno di  assumere
 anche 5 grammi secondo alcuni esperti" (res. sten., p. 48).
    Senonche',  nel testo definitivo della legge, ad onta di quanto si
 era cosi'  enfaticamente  affermato,  la  distinzione  tra  assuntore
 occasionale e assuntore abituale - in relazione al quale la quantita'
 di  cui  era  penalmente lecita la detenzione, veniva determinata con
 riferimento alla dose abitualmente assunta nelle 24 ore - e' venuta a
 cadere. I criteri di cui ai punti a) e b) hanno perso cosi' qualsiasi
 rilevanza ai fini della determinazione della dose la  cui  detenzione
 per  uso  personale  non  e'  soggetta  alla sanzione penale. L'unico
 discrimine tra il punibile e il non punibile (che non coincide,  come
 sembra  credere  il  relatore  Condorelli,  con  quello tra spaccio e
 consumo) e' costituito dalla quantita', cioe' dal deprecato "elemento
 peso", secondo la giusta preoccupazione del senatore Onorato. I punti
 a) e b) dell'art. 78 null'altro sono, dunque, che  la  sopravvenienza
 verbale  di  una lodevole intenzione del legislatore rimasta priva di
 sbocchi normativi.
    Quanto al punto c), giova anzitutto chiarire che la formula  della
 legge, sfrondata anche qui dalle sovrabbondanze verbali connesse alla
 originaria   previsione   di   concorrenti  criteri  soggettivi,  non
 significa  altro  che  questo:  al  provvedimento  amministrativo  e'
 demandato  di  stabilire la quantita' di principio attivo costituente
 la   "dose  media  giornaliera",  di  cui  e'  penalmente  lecita  la
 detenzione per uso personale del detentore. Senonche', l'art. 78,  ad
 onta   della   sua   rubrica,   non   detta  alcun  criterio  per  la
 determinazione di tale quantita', con palese violazione del principio
 costituzionale di cui all'art.  25  della  Costituzione,  secondo  il
 quale,  come  si  e'  detto, nella norma primaria che conferisce alla
 p.a. il potere di integrare  la  fattispecie  penale,  devono  essere
 predeterminati  "i  presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti
 dei provvedimenti dell'autorita' non legislativa".
    La illegittimita' costituzionale dell'art. 78,  sotto  il  profilo
 della  violazione della riserva di legge, balza evidente sol che esso
 si confronti con l'art. 12 della legge n. 685/1975, dove  i  "criteri
 per  la  formazione  delle  tabelle"  sono  indicati  con una ricca e
 articolata specificazione di dettagli, che  circoscrive  l'intervento
 della  p.a. nei limiti propri di un'attivita' meramente tecnica (come
 giustamente riconosciuto da codesta Corte). Qui  non  puo'  dubitarsi
 che  "il  contenuto  essenziale  dell'illecito penale", connesso alla
 individuazione delle sostanze stupefacenti, risalga alla volonta' del
 legislatore. Ma e' estremamente significativo che il legislatore  del
 1975 abbia avvertito l'esigenza di definire con tanta precisazione di
 dettagli  la  nozione  di  "sostanza  stupefacente",  di  cui pure si
 riteneva che la scienza gia' offrisse una predeterminazione oggettiva
 idonea ad identificare "l'oggetto materiale del delitto" (v. in  tale
 senso, con riferimento alle tabelle previste dalla legge n. 104/1954,
 Corte costituzionale, sent. nn. 36/1964 e 9/1972).
    Niente  di tutto questo si riscontra nell'art. 78, in cui al vuoto
 di predeterminazione di criteri,  si  accompagna  il  rinvio  ad  una
 entita'   irreale   (la   "dose  media  giornaliera"),  assolutamente
 insuscettibile di definizione dal punto di vista tecnico-scientifico.
    Il richiamo ad una entita' "media", in  verita',  sembrerebbe  far
 riferimento  ad  un dato statistico, cioe' alla quantita' complessiva
 consumata quotidianamente dall'insieme dei consumatori  di  una  data
 sostanza  stupefacente,  divisa per il numero dei consumatori stessi.
 Un tale criterio, per  quanto  impraticabile  e  irrazionale  per  la
 determinazione  del  discrimine tra lecito e illecito penale, avrebbe
 tuttavia il pregio di conferire alla  previsione  della  "dose  media
 giornaliera" un carattere di predeterminazione legale ancorata a dati
 oggettivi,  che consentirebbe all'intervento integrativo del ministro
 della sanita' di mantenersi nei  limiti  di  quelle  "valutazioni  di
 carattere tecnico e contingente" che, in quanto tali, "sono legittime
 manifestazioni   dell'attivita'  normativa  della  p.a."  (v.,  Corte
 costituzionale n. 9/1972). Ma e' del tutto pacifico che non e' questo
 il senso della citata lett. c), riferendosi invece la  "medieta'"  ad
 una  media  aritmetica  tra  una  dose  minima  e  una  dose  massima
 assumibile nelle ventiquattro ore.
    Senonche', entrambi i termini di riferimento sopra indicati  sono,
 per  unanime  riconoscimento  della  letteratura  scientifica  che si
 occupa della materia, assolutamente  incerti,  a  causa  delle  molte
 variabili da cui essi dipendono, in particolare il modo di assunzione
 e il grado di tolleranza del soggetto assuntore.
    Illuminante  sul  punto  e' il parere espresso nel corso dell'iter
 parlamentare  (30  novembre  1989),  su   richiesta   del   ministro,
 dall'Istituto  superiore  di  sanita', avente ad oggetto "l'eventuale
 attribuzione al  Ministero  della  sanita'  di  compiti..  ..  ..  di
 individuazione  delle  dosi  medie  giornaliere", nel quale si legge:
 "tutti gli esperti in materia hanno ripetutamente riconosciuto che la
 definizione della dose media giornaliera non  puo'  servire  a  detto
 scopo (discrimine del penalmente rilevante, nda), data l'ampiezza del
 range  dei  quantitativi  che  possono  essere  adoperati  da diversi
 assuntori o dallo stesso assuntore in momenti differenti".
    A proposito degli oppiacei, cosi' continua il predetto parere:  "a
 fronte  di una dose farmacologicamente attiva di 0,01-0,02 g i.v. nel
 soggetto non assuefatto,  soggetti  assuefatti  possono  arrivare  ad
 impiegare anche piu' grammi al giorno"; e, richiamandosi a J.H. Jaffe
 (in  Goodman  and Gilman's The Pharmacological Basis of Therapeutics,
 Macmillan,  1985),  cosi'  continua:  "un  soggetto  assuefatto  puo'
 ricevere  per via endovenosa due grammi di morfina in due ore e mezzo
 senza che si verifichino variazioni della pressione arteriosa,  della
 frequenza  del  battito  cardiaco e della frequenza del respiro". Per
 quanto riguarda la cocaina, si  legge:  "a  fronte  di  una  dose  di
 0,04-0,1  g  di  cocaina  cloridrato farmacologicamenteattiva per via
 inalatoria, gli assuntori pesanti possono arrivare ad impiegare anche
 piu' grammi al giorno. Jaffe specifica che alcuni assuntori ricorrono
 a due prese all'ora di 0,1 g ciascuna.. .. .. In una tale  situazione
 -  concludeva  il  parere  - la eventuale assegnazione alla autorita'
 sanitaria di compiti di individuazione delle dosi  medie  giornaliere
 imporrebbe"  scelte  incongrue  sul piano scientifico. Considerazioni
 analoghe svolgera' poi, dopo l'approvazione della legge  n.  162,  lo
 stesso  ISS  che,  nella  "premessa" ai "criteri per l'individuazione
 delle dosi medie giornaliere", trasmessi al Ministero  della  sanita'
 con   nota   del   2   luglio   1990,  cosi'  scrive:  "L'indicazione
 esplicitamente formulata nel disposto legislativo di  distinguere  in
 base   al   solo   dato  ponderale  di  droga  il  consumatore  dallo
 spacciatore-trafficante attribuisce al dato numerico  un  significato
 che  puo'  essere  fortemente penalizzante per alcuni o colpevolmente
 gratificante per altri.. ..  ..  La  composizione  quali-quantitativa
 della  droga  di  strada  e  i  rispettivi  metodi analitici non sono
 riferibili a campioni (prototipi) standard come per i comuni  oggetti
 e  articoli  merceologici..  .. .. sembra opportuno far presente che,
 per   l'eterogeneita'   e    variabilita'    dei    parametri    (non
 standardizzabili ne' controllabili), ai valori riportati nel d.m. non
 sono da attribuire requisiti di accuratezza e precisione.. .. ..".
    Alla  luce  di tali osservazioni, particolarmente autorevoli sotto
 il  profilo  scientifico,  appare  evidente  che   la   "dose   media
 giornaliera"  e'  una  mera  formula  verbale,  del  tutto  priva  di
 riscontro nella realta', con la conseguenza che la sua determinazione
 e' rimessa alla totale discrezione della p.a., in  contrasto  con  la
 riserva  di  legge  prevista  dall'art.  25  della  Costituzione.  Il
 discrimine tra illecito ex art. 75 e delitto  ex  art.  73  e'  cosi'
 rimesso  all'autorita'  amministrativa,  senza  alcuna indicazione di
 criteri e principi direttivi. In altre parole "la condotta punibile",
 emerge dai "contenuti specifici" del provvedimento amministrativo,  e
 quindi  e'  quest'ultimo  che,  a  differenza di quanto accade per le
 tabelle  emanate  in  base  all'art.  12  della  legge  n.  685/1975,
 determina "il contenuto essenziale dell'illecito penale", ai di fuori
 di  qualunque  limite  o  parametro precostituito dalla legge. L'atto
 amministrativo   concorre   pertanto   alla   determinazione    della
 fattispecie  punibile non in base a "valutazioni di carattere tecnico
 e contingente", ma in base a scelte di tipo meramente politico,  come
 ebbe  a riconoscere in Senato il ministro Jervolino, firmataria della
 legge, che nella seduta  del  12  giugno  1990  (res.  sten.  p.  22)
 dichiarava  senza infingimenti che la determinazione della dose media
 giornaliera "rimane(va) ascritta alla responsabilita'  amministrativa
 e politica del Ministro della sanita'".
    Le  concrete  determinazioni  adottate dal Ministro con il d.m. 12
 luglio 1990, n. 186, rappresentano del  resto  un'eloquente  conferma
 che   la   "dose   media   giornaliera"   costituisce   una   entita'
 indeterminabile dietro  la  quale  si  celano  non  gia'  valutazioni
 tecniche,  ma  scelte  di  politica criminale indebitamente assegnate
 alla p.a. e da essa come tali esercitate.
    L'art. 3 di tale decreto  affida  la  quantificazione  delle  dosi
 medie   giornaliere   ad   apposite   tabelle,   corredate  da  "note
 esplicative",  che   dovrebbero   dar   conto   dei   parametri   cui
 l'amministrazione  ha fatto riferimento nell'esercizio del suo potere
 discrezionale. Senonche' le predette note  esplicative  -  del  tutto
 assenti  in  relazione ad alcune sostanze, come i derivati dell'acido
 lisergico (c.d. LSD) -  si  riducono  in  realta'  ad  alcune  scarne
 formule, la cui genericita' e vaghezza e' palesemente ascrivibile non
 gia'  a  carenze  scientifiche  dell'elaborato tecnico, ma alla ovvia
 impossibilita' di dar conto di parametri che non esistono.
    Limitando l'esame alle note  esplicative  relative  alle  sostanze
 piu'  note,  si rileva che per la cocaina e per l'eroina la nota n. 1
 spiega che "le quantita' riportate sono individuate  sulla  base  dei
 dati epidemiologici relativi all'uso abituale".
    Cosa  siano  questi  "dati  epidemiologici" si ricava dalla citata
 nota (p. 5) trasmessa dall'ISS il 2 luglio 1990. Essi "si riferiscono
 ai sequestri operati dalle forze dell'ordine e sono in  buon  accordo
 fra  loro  sulla  base  dei  corrispondenti  esami  effettuati  dalle
 strutture del  S.S.N.  e  dagli  istituti  di  Medicina  Legale".  La
 commissione  di  esperti  dell'Universita'  "La  Sapienza",  all'uopo
 nominata dal Ministro della sanita', nel parere  in  data  28  giugno
 1990  (p.  4),  spiega a sua volta di avere "individuato per le varie
 sostanze stupefacenti o psicotrope contenute nelle tabelle  I-IV,  le
 quantita'  giornaliere,  che,  secondo l'esperienza maturata presso i
 servizi di assistenza sanitaria dei  tossicodipendenti..  ..  ..,  le
 segnalazioni  provenienti  dall'ISS  e  le  statistiche dei sequestri
 effettuati dalle forze di polizia, sono consumate dalla maggior parte
 (moda statistica) dei tossicodipendenti, di  grado  medio,  nell'arco
 delle  24  ore".  Aggiunge  "a titolo di esempio", che "valutata (dai
 rilevamenti presso servizi pubblici) in circa 0,5 grammi la  dose  di
 eroina  di  strada piu' frequentemente assunta nelle ventiquattro ore
 dal tossicodipendente con  dipendenza  di  grado  medio..  ..  ..  ed
 individuata   nel   20%   circa  la  percentuale  massima  di  eroina
 cloridrato, cioe' di  principio  attivo,  presente  nella  eroina  di
 strada  attualmente  circolante  secondo quanto risulta dalle analisi
 condotte dagli istituti  universitari  di  tossicologia  forense,  e'
 stato  proposto  intorno  ai  100  mg di eroina base anidra il limite
 massimo di principio attivo per la dose media giornaliera".
    In altre parole, i "dati epidemiologici" sono stati ricavati da un
 dato soggettivo  (le  dichiarazioni  dei  tossicodipendenti  in  cura
 presso  i  SAT)  per  la determinazione della "media" quantita' delle
 assunzioni,  e  da  un  dato  oggettivo  (l'analisi  delle  "cartine"
 sequestrate dalla polizia giudiziaria) per la rilevazione del "medio"
 principio attivo.
    Una  ricerca  condotta negli anni 1976-82 con gli stessi metodi di
 indagine su un campione di 949  "cartine"  e  106  tossicodipendenti,
 aveva   rivelato   una   "dose-consumo",   cioe'   una   "dose  media
 giornaliera", di "200-400 mg di eroina pura al giorno" (v. Lopez,  de
 Zorzi, Racalbuto, Tossicomania da eroina-Il consumo medio giornaliero
 e il problema della "dose", in "Zacchia", Arch. di Med. Leg., lu-set.
 1983).
    Adottando   la   stessa  metodologia  di  indagine,  nel  1990  la
 commissione dei docenti indica in 100 mg (indicazione poi accolta nel
 d.m. n. 186) la "dose media giornaliera" dell'eroina, in  sostanziale
 accordo  con  l'ISS, che la indica in 80-100 mg, corrispondenti a 3-4
 "cartine" di droga "di strada". Tale  quantita'  -  avverte  tuttavia
 l'ISS  -  e'  stata  determinata, "in linea puramente ipotetica e con
 ampie  riserve  su  possibili   trasferimenti   automatici   a   casi
 individuali",  con  riferimento ad "un eroinomane ad uno stadio medio
 di dipendenza (cioe' in una condizione di tolleranza gia'  sviluppata
 ma  ancora  lontana  da quella di eroinomani pesanti per i quali sono
 note assunzioni anche superiori ad 1 gr di  eroina  al  giorno".  E',
 praticamente,  la  descrizione  della  situazione  tipica  in  cui il
 discrimine tra consumatore e spacciatore, fondato sulla  "dose  media
 giornaliera",    e'   "fortemente   penalizzante   per   alcuni"   (i
 tossicodipendenti  "pesanti",  cioe'  i  piu'   deboli   e   i   piu'
 indifferenti  alla  minaccia della sanzione penale, cui tuttavia sono
 inevitabilmente esposti pur se  mantengano  l'approvvigionamento  nei
 limiti  del loro fabbisogno quotidiano) e "colpevolmente gratificante
 per altri", cioe' per i piccoli spacciatori, che siano  eventualmente
 anche  assuntori  occasionali  o  allo  stadio  iniziale,  i  quali -
 potendosi accontentare dell'assunzione  quotidiana  di  una/due  dosi
 farmacologicamente  attive,  equivalenti  a 5-10 mg (nella farmacopea
 ufficiale la singola dose di morfina, per la  quale  le  tabelle  del
 d.m. n. 186 fissano la dmg in 200 mg, cioe' il doppio dell'eroina, e'
 di  10 mg; secondo il citato "Goodman and Gilman's", p. 505, 10 mg di
 morfina corrispondono a 4 mg di eroina) - conservano un buon  margine
 per  una  proficua attivita' di piccolo spaccio, reso conveniente dal
 prezzo corrente di 100 mg di  eroina  "da  strada"  (circa  200  mila
 lire).  Ancor  piu'  della  deprecata  "modica quantita'", quindi, la
 "dose media giornaliera"  non  solo  e'  inidonea  a  distinguere  il
 consumatore dallo spacciatore, ma criminalizza le situazioni che, per
 stessa  ammissione del legislatore, non possono essere risolte con la
 sanzione penale e si presta ugualmente ad essere usata  come  schermo
 per  il  piccolo  spaccio,  specie da parte e verso i consumatori non
 tossicodipendenti.
    Quanto alla cocaina, la citata nota dell'ISS (p.  6)  osserva  che
 per  essa e' "ancora piu' difficile discriminare solamente sulla base
 di una  determinata  quantita'  il  consumatore  dallo  spacciatore".
 Afferma  tuttavia  che  sulla  base  dei  "dati epidemiologici" e con
 riferimento  all'uso  abituale,  "le  quantita'  utilizzate  mediante
 aspirazione  nasale  rientrano  in  un  intervallo da 100 a 250 mg di
 cocaina cloridrato nell'arco di 2-3 ore". Ad onta di tali risultanze,
 la "dose media giornaliera" viene indicata in  100  mg,  cioe'  nella
 quantita'  minima  consumata  dall'assuntore  abituale  ogni 2-3 ore,
 evidentemente   in   applicazione   del   criterio,  enunciato  nella
 "premessa", secondo il quale "allo scopo di privilegiare il carattere
 di  prevenzione  della  normativa  e  per  disincentivare  le   prime
 assunzioni  e  l'avvio  verso  l'abuso,  la scelta della DMG e' stata
 orientata in alcuni casi verso livelli inferiori a quelli  mediamente
 risultanti   dai   dati   epidemiologici  sull'abuso  di  droga".  La
 commissione di esperti dell'Universita' di Roma,  nel  citato  parere
 (pervenuto   al   Ministero   della   sanita'  il  10  luglio  1990),
 contraddicendo le affermazioni dell'ISS, annovera invece  la  cocaina
 (p.   5)   tra   "le   sostanze   stupefacenti   prive  di  riscontro
 epidemiologico", per le quali propone, "anche per scoraggiare la loro
 utilizzazione illegittima", che  "la  dose  singola  nel  costituisca
 anche  il  livello  massimo delle 24 ore" (le sottolineature sono nel
 testo). La "dose media giornaliera" di cocaina cloridrato viene cosi'
 proposta (p. 7) in 150 mg, corrispondenti in effetti  alla  quantita'
 costantemente  indicata  dai periti giudiziari come "singola dose me-
 dia". Con altra nota coeva al parere della commissione di esperti (10
 luglio 1990), l'ISS precisa che "il valore indicato, ad  esempio  per
 la  cocaina,  pur  rientrando  in un intervallo aritmetico delle dosi
 medie rilevate nel traffico illecito, e' il risultato  di  una  media
 ponderata  tra i valori proposti dagli esperti" dell'Istituto stesso.
 Il Consiglio di Stato, infine, nel parere in data 12  luglio  1990  -
 dopo  aver rilevato in via generale che laddove l'ISS ha privilegiato
 "i fini della prevenzione e della disincentivazione.. .. .. i criteri
 seguiti appaiono non conformi a legge, in quanto  dichiaratamente  si
 discostano,  in  senso  rigoristico,  dal  dato  obiettivo del limite
 quantitativo  massimo  di  principio  attivo  per   le   dosi   medie
 giornaliere,  di cui all'art. 72-quater legge n. 685/75" - suggerisce
 di  adottare,  tra  le  contrastanti  indicazioni  dell'ISS  e  della
 commissione  di  esperti,  quelle  di  quest'ultima,  che "infatti e'
 pervenuta all'unanimita' alle proprie conclusioni e non ha utilizzato
 alcun criterio finalistico". In effetti il d.m. n.  182  adotta  come
 "dose  media  giornaliera"  della  cocaina  cloridrato  la  quantita'
 indicata dalla commissione dei docenti (150 mg,  equivalenti  ad  una
 singola  dose "media"). Ma tale soluzione non e' in alcun modo idonea
 a sanare  i  macroscopici  vizi  di  illegittimita'  che  viziano  il
 provvedimento.
   Si  potrebbe  innanzitutto osservare che la querelle tra l'ISS e la
 commissione di esperti circa i "dati epidemiologici", nasce dal fatto
 che le  fonti  da  cui  essi  dovrebbero  essere  tratti,  sono  poco
 eloquenti  per  quanto  riguarda  il  dato soggettivo (l'osservazione
 presso i SAT)  e  praticamente  mute  per  quanto  riguarda  il  dato
 oggettivo  (le  confezioni sequestrate dalla polizia giudiziaria). Da
 un lato, infatti, il cocainista medio non si rivolge ai SAT  (in  una
 ricerca  relativa  al  periodo  genn./mar.  1983 di de Zorzi, Lopez e
 Borza, pubblicato in Zacchia, cit., ott.-dic. 1983, si da'  atto  che
 il  campione  analizzato  -  129  "tossicomani abituali" che si erano
 rivolti ai CT dell'area romana - non  appartiene  alla  "tradizionale
 categoria  dei  cocainisti",  atteso che il 59% fa contemporaneamente
 uso di eroina e solo il 25% utilizza per  l'assunzione  "la  classica
 via   intranasale",  mentre  il  65%  utilizza  la  via  endovenosa).
 Dall'altro lato, il sequestro di polizia giudiziaria di confezioni di
 cocaina destinata all'immediato consumo e' fenomeno altrettanto  raro
 e comunque inidoneo a fondare una attendibile rilevazione statistica;
 e  cio'  perche'  sul  mercato  al  minuto, la cocaina non circola in
 confezioni corrispondenti a singole dosi, ma in quantita'  superiori.
 Forse,  perdurando  il  vigore  delle  norme  allegate  a sospetto di
 incostituzionalita', nel  lungo  periodo  il  mercato  della  cocaina
 finira'  con  l'adattarsi alle necessita' giudiziarie. Ma, a parte le
 pratiche difficolta' di tale adattamento (l'assuntore "medio",  cioe'
 di   singole   dosi   plurime,   dovrebbe   reiterare   l'acquisto  e
 immediatamente consumare la  dose  acquistata  piu'  volte  nell'arco
 delle  24  ore), sta di fatto che, allo stato, il consumatore "medio"
 di cocaina - che, secondo il parametro della legge,  dovrebbe  andare
 esente   da   sanzione  penale  -  e'  costretto,  dalla  illegittima
 determinazione della p.a., a commettere  reato  per  approvvigionarsi
 della  quantita'  necessaria  al  suo  fabbisogno  quotidiano (la cui
 soddisfazione e' considerata invece, nella legge, come mero  illecito
 amministrativo).
    Si  potrebbe  altresi'  considerare che non solo l'ISS, ma ance la
 commissione, assegna dichiaratamente alla determinazione della dmg di
 sostanze  come  la  cocaina  lo  scopo  di   "scoraggiare   la   loro
 utilizzazione   illegittima",  e  quindi,  arbitrariamente,  fini  di
 "prevenzione e disincentivazione".
    Quel che appare incontestabile,  tuttavia,  e'  che  la  quantita'
 indicata  nel  d.m.  (150  mg)  viola  anche  nominalmente il sia pur
 evanescente e indeterminabile criterio legislativo della "dose  media
 giornaliera", giacche' corrisponde, per esplicita dichiarazione della
 commissione   proponente  e  per  comune  acquisizione  della  prassi
 giudiziaria, ad una singola dose, che un assuntore  "medio"  consuma,
 secondo  lo  stesso  parere dell'ISS, nell'arco di un paio di ore. Il
 discrimine tra lecito e illecito  penale  e'  stabilito,  dunque,  in
 violazione  delle parole della legge, non gia' sulla base della "dose
 media giornaliera", bensi' sulla base della "singola dose media".
    Tale soluzione  determina,  altresi',  una  palese  disparita'  di
 trattamento  rispetto  alla  eroina,  di  cui e' lecito consumare 3/4
 singole dosi "medie" al giorno. Una disparita' di  trattamento  tanto
 piu'  incomprensibile se si considera che la singola dose di ciascuna
 delle due droghe a un costo equivalente  (circa  lire  50  mila),  ma
 l'una  (l'eroina)  e' molto piu' nociva della cocaina, ove questa sia
 assunta con il normale metodo dell'aspirazione nasale.
    A tale proposito, la nota esplicativa n. 5 delle tabelle  allegate
 al  d.m.  n.  186,  spiega  che  "per  la cocaina vengono specificate
 rispettivamente sia la dose come cocaina cloridrato sia la dose  come
 cocaina  base  in  quanto  il  potere tossicomanigeno delle due forme
 chimiche e' molto diverso". In effetti le  tabelle  indicano  la  dmg
 della "cocaina base (crack)" in 20 mg, a fronte dei 150 della cocaina
 cloridrato  (in  un  rapporto,  quindi, di 1 a 7,50). In base a quali
 criteri si sia pervenuti a tale determinazione, non  e'  dato  sapere
 (sul  punto tacciono i pareri sia dell'ISS che della commissione). Ma
 da uno studio recente sull'esperienza  americana  (Lopez-Potenza,  Il
 "crack",  la  cocaina  da  fumo  - Un problema in arrivo, in Zacchia,
 cit., giu. 1988),  si  apprende  che  "a  causa  della  breve  durata
 dell'higt  con  il  crack  sono  richieste  assunzioni piu' frequenti
 rispetto   all'uso   della   cocaina   intranasale,   anche   perche'
 l'esaurimento   della   fase  di  euforia  porta  ad  uno  stadio  di
 depressione profonda (crash) che induce all'assunzione di  successive
 dosi.  La  quantita' di free-base utilizzata e' dell'ordine di 80-100
 mg  per  ogni inalazione (hit); le assunzioni possono essere ripetute
 anche ogni 5 minuti. Consumi individuali di 3-4 g in 4 ore, di 9-30 g
 in 24 ore e di 150 g in 72 ore sono riferiti da  soggetti  che  hanno
 richiesto  trattamenti  terapeutici".  Alla luce di questi dati, e in
 assenza  di  qualsiasi  spiegazione   nelle   fonti   ufficiali,   la
 determinazione  della  dmg  del  crack  in  20  mg,  cioe', secondo i
 suddetti dati, in 1/5 dela singola dose minima reiteratamente assunta
 nell'arco delle  24  ore  da  un  consumatore  abituale,  risulta  al
 colleggio del tutto incomprensibile.
    Tuttavia,  quel  che  piu'  sorprende  a  fronte delle tabelle, e'
 apprendere  dai  cultori  della  materia  che  il   diverso   "potere
 tossicomanigeno"della  cocaina non dipende direttamente dalle diverse
 forme chimiche (cloridrato o base) in  cui  si  puo'  presentare,  ma
 dalle  diverse  vie  di  assunzione.  Il crack infatti, non e' niente
 altro che l'assunzione della cocaina base mediante la inalazione  dei
 fumi   che,   ottenuti   con   un   facile  processo  di  combustione
 (evaporazione),  raggiungono  rapidamente,   attraverso   le   grandi
 superfici  dei  polmoni,  i  recettori  del sistema nervoso centrale.
 L'effetto stupefacente e' percio' rapido, violento e di breve durata,
 ma anche molto pericoloso (pericolosita'  ed  effetti  analoghi  sono
 connessi  all'assunzione  endovena).  Con  l'aspirazione intranasale,
 invece, la cocaina cloridrato, solubilizzata dal liquido della mucosa
 nasale e da  questa  assorbita,  raggiunge  i  recettori  del  s.n.c.
 attraverso  il  flusso  ematico.  L'effetto pertanto e' piu' lento ma
 piu' duraturo.
    Il diverso "potere tossicomanigeno" e' legato,  dunque,  alle  due
 diverse  forme  chimiche solo nel senso che la cocaina base si presta
 piu' facilmente ad essere assunta per inalazione dei fumi, perche' si
 volatilizza ad una temperatura molto piu' bassa (97-98  gradi)  della
 cocaina  cloridrato,  il cui alto punto di fusione (195-196 gradi) ne
 determina  invece,  nel  corso  dell'operazione  di  assunzione,  una
 parziale  distruzione.  Ma cio' non toglie che cosi' come una miscela
 di  cocaina  base,  opportunamente  polverizzata,   potrebbe   essere
 "sniffata" al pari di una miscela di cocaina cloridrato, quest'ultima
 puo'  essere  a  sua  volta  assunta  per  inalazione dei fumi, in un
 duplice senso: o procedendo alla sua combustione (pagando  lo  scotto
 che  si e' detto) ovvero trasfrmando la cocaina cloridrato in cocaina
 base, attraverso procedimenti di facile accesso  (accanto  al  metodo
 tradizionale  - soluzione ed alcalinizzazione in acqua e bicarbonato;
 estrazione con etere successivamente evaporato - Lopez/Potenza, cit.,
 cosi' descrivono il metodo usato dai tossicodipendenti  negli  ultimi
 anni: "il crack si ottiene partendo dal cloridrato di cocaina, che e'
 la  forma  comune  della  cocaina presente nel commercio clandestino,
 mediante una procedura assai semplice e priva di rischi.  Le  attuali
 modalita'  di  preparazione,  possibili  anche  in  ambienti privi di
 attrezzature di laboratorio, consistono nello sciogliere  la  cocaina
 cloridrato  in  acqua,  alcalinizzare  con bicarbonato di socio o con
 ammoniaca, e infine riscaldare. Si ottiene in  tal  modo  la  cocaina
 sotto  forma  di  base  libera;  con  raffreddamento  rapido si ha la
 separazione  della  parte  solida  dalla  parte  acquosa  che   viene
 scartata".
    Alla stregua di quanto esposto, appare evidente che le due diverse
 forme    chimiche    della    cocaina,   mentre   potrebbero   essere
 ragionevolmente considerate (insieme alla  confezione:  il  crack  si
 presenta di solito come un prodotto solidificato) elemento indiziante
 del  metodo  di  assunzione  della sostanza, non sono invece idonee a
 differenziare la dmg, e costituiscono percio' un criterio incerto  ed
 arbitrario di identificazione della fattispecie penale (nonche' della
 sua  gravita'  oggettiva,  solitamente tratta dal numero delle dosi).
 Infatti, richiamando quanto detto  piu'  sopra,  150  mg  di  cocaina
 cloridrato  (equivalenti,  secondo le tabelle, ad una dmg) potrebbero
 essere facilmente trasformati in cocaina base, ricavandone 7/8 dmg di
 crack; per converso, 150 mg di cocaina base  si  prestano  ad  essere
 assunti in un'unica soluzione (per aspirazione) ovvero, come "crack",
 in  piu'  soluzioni  (in  7  giorni e mezzo per un assuntore "medio",
 secondo  le  tabelle).   Le   paradossali   conseguenze   sul   piano
 sanzionatorio  sono evidenti: la detenzione di una miscela contenente
 tra i 20 e i 150 mg  di  cocaina  base,  alla  stregua  del  criterio
 puramente  chimico  adottato dal d.m. n. 162, costituisce il reato di
 cui all'art. 73, anche se ne fosse comprovata  l'assunzione  mediante
 un'unica  aspirazione nasalle; invece, la detenzione ad uso personale
 di 150 mg di cocaina cloridrato e' esente da pena anche se  destinata
 a  plurime assunzioni di crack (al fabbisogno di oltre una settimana,
 secondo le tabelle).
    Il  riferimento  alla  forma  chimica  della   sostanza   per   la
 determinazione della dmg, e quindi della punibilita' e della gravita'
 della  pena,  si  rivela ancor piu' arbitraria e priva di senso se si
 considera che la identificazione delle due specie, cloridrato e base,
 e' possibile, con i metodi normalmente usati  nell'indagine  chimico-
 giudiziaria,solo  per  la  sostanza  allo stato puro. In realta', nel
 mercato clandestino, la cocaina si trova allo  stato  puro  solo  per
 grossi   quantitativi;  nel  mercato  al  minuto,  quello  cioe'  cui
 attingono i consumatori, la cocaina si trova invece sempre  miscelata
 ad altre sostanze (di solito lidocaina cloridrato), sicche' l'analisi
 chimica  non consente di stabilire se la presenza dei ioni cloro - su
 cui si basa la distinzione fra le due specie -  provenga  da  diversa
 sostanza  o dalla cocaina, e quindi se quella contenuta nella miscela
 sia cloridrato o base (altri metodi di indagine - punto  di  fusione;
 "Nik-o-test"  -  segnalati  nel  citato  studio Lopez/Potenza, devono
 intendersi riferiti sempre alle sostanze ad alto grado  di  purezza).
 La  conseguenza e' che, proprio per quantitativi al limite della dmg,
 sulla base del mero criterio chimico e' impossibile dire se si e'  in
 presenza  di  una  fattispecie criminosa (cioe' al di la' o al di qua
 della dmg).
    Dalle considerazioni esposte, emerge non  solo  l'inconsistenza  e
 l'irrazionalita' del criterio legale (la "dose media giornaliera") di
 identificazione  della  fattispecie  penale  e  l'arbitrarieta' della
 concreta scelta della p.a., ma altresi' la preoccupazione  che  anche
 in  Italia possa insorgere la pericolosa pratica - che secondo alcuni
 osservatori avrebbe gia' preso avvio - di  assunzione  della  cocaina
 per  le  piu'  efficaci  ma piu' pericolose vie dell'endovena (che in
 alcuni casi si e' rivelata mortale) e  dell'inalazione  dei  fumi  di
 combustione  (crack).  Potrebbe  cioe'  verificarsi una "conversione"
 degli "aspiratori" di cocaina che vogliano mantenersi nei limiti  del
 lecito  penale,  verso  queste pericolose metodiche di assunzione, in
 particolare merce' la trasformazione della dmg di cocaina cloridrato,
 rinvenibile su un mercato  adattatosi  alle  nuove  dimensioni  della
 repressione   penale,  in  cocaina  base,  utilizzabile  per  plurime
 assunzioni  di "crack", che attualmente, inteso come preparato pronto
 per essere "fumato",  non  e'  ancora  praticamente  rinvenibile  sul
 mercato illecito del nostro Paese.
    Quanto  alla  cannabis  e  derivati,  la  nota  esplicativa (n. 4)
 informa che la "dose media giornaliera" - fissata nel d.m. in gr  2,5
 al 2% di THC per foglie e inflorescenza e in gr 0,5 al 10% di THC per
 la resina (hashish) - e' stata calcolata "sulla base delle variazioni
 del contenuto medio di THC presente nei prodotti della cannabis".
    L'informazione  e'  idonea a far sapere che si e' tenuto conto del
 tenore    "medio"    di    tetraidrocannabinolo    (THC)    presente,
 rispettivamente  nella  misura  del  2%  e del 10%, nella marijuana e
 nell'hashish. Ma, a parte il valore fittizio di tale  "medieta'"  (e'
 noto  che  il  tenore di THC subisce ampie variazioni in relazione al
 luogo di coltivazione, all'epoca del raccolto, ai  tempi  e  modi  di
 conservazione,  ecc.),  la nota nulla dice sul perche' si e' ritenuto
 di determinare in 50mg di THC (gr  2,5  al  2%  e  gr  0,5  al  10%),
 equivalenti  a  2-3  "spinelli",  la  "dose  media  giornaliera"  dei
 prodotti della cannabis.
    A spiegare le ragioni di tanto rigore - che peraltro contrasta con
 l'intento legislativo, dichiarato nella citata  relazione  al  Senato
 (p.  13),  di  adottare  per  le  droghe  leggere  "un  minor  rigore
 sanzionatorio nei confronti di chi fa occasionalmente uso di sostanze
 stupefacenti che, di regola,  non  inducono  a  dipendenza  fisica  e
 psichica"  -  e'  ancora  una  volta  la  citata  nota  2 luglio 1990
 dell'ISS, dove si legge (p. 7): "trattandosi di  prodotti  utilizzati
 prevalentemente   da   gruppi  giovanili  si  e'  ritenuto  opportuno
 privilegiare il significato preventivo della normativa, con l'intento
 di disincentivare anche l'uso sporadico e le  prime  assunzioni".  La
 commissione dei docenti assume da parte sua (p.5) di essere pervenuta
 alla  determinazione  della "dose media giornaliera" - proposta in 30
 mg di THC, "corrispondente al  contenuto  di  1-2  sigarette"  -  con
 procedimento  analogo a quello seguito per l'eroina, cioe' sulla base
 dei "dati epidemiologici", che pero' non hanno lasciato  traccia  nel
 d.m.  n.  186,  se  e'  vero  che  ad essi le note esplicative, per i
 prodotti della cannabis, non fanno alcun riferimento (la nota  n.  1,
 relativa  ai  "dati  epidemiologici", riguarda solo gli oppiacei e la
 cocaina).
    Anche qui, la querelle (a parti invertite) si spiega con il  fatto
 che,  come  per  la  cocaina,  anche  per  la  cannabis  le  fonti di
 rilevazione  (SAT  e  sequestri  di  polizia)  sono  poco  eloquenti,
 giacche'  nessun fumatore di canapa si e' mai rivolto ai SAT, dei cui
 servizi, specie se considerati nella loro concreta  realta',  non  ha
 alcun  bisogno;  e d'altra parte, i prodotti della cannabis raramente
 si rinvengono sul mercato (esposti  al  sequestro)  nelle  confezioni
 pronte  per  il  consumo  ("canne", "spinelli"). Ma, a prescindere da
 tali considerazioni tratte dalla  realta',  appare  per  tabulas  che
 anche   la   dmg   del   THC   e'  stata  determinata  dall'autorita'
 amministrativa contra legem.
    In proposito il Consiglio di Stato,  dopo  aver  rilevato  in  via
 generale,  come  si  e'  ricordato,  la  non  conformita' a legge dei
 criteri ispirati a finalita' preventive, osserva  (p.  4  del  citato
 parere): "per quanto concerne specificamente la tabella II (cannabis,
 marijuana,  hashish),  in  relazione  alla  quale  il parere dell'ISS
 espressamente indica di avere utilizzato il criterio della  finalita'
 della   disincentivazione,   poiche'   la  quantita'  proposta  dalla
 commissione (30 mg THC) e' inferiore a  quella  indicata  nel  parere
 obbligatorio  (50  mg  THC),  e' necessaria una nuova valutazione che
 prescinda dal criterio finalisico e che per l'effetto potra' condurre
 ad un aumento o anche ad una conferma  della  quantita'  indicata  in
 decreto".  Tale rivalutazione, a quanto risulta, non vi e' poi stata.
 Ma non sembra che occorra spendere parola  per  rilevare  la  patente
 illegittimita'   di   una  determinazione  di  natura  amministrativa
 dichiaratamente ispirata non gia' a criteri tecnici, ma a valutazioni
 di politica criminale che spetta al  legislatore  (nei  limiti  della
 legalita'  costituzionale),  e  non  gia'  alla  p.a., di tradurre in
 diritto positivo.
    La violazione dei profili formali dell'atto amministativo,  appare
 tanto  piu' grave se si considera che il maggior rigore che ne deriva
 alla configurazione della fattispecie  criminosa,  va  a  colpire  un
 comportamento  che, come s'e' visto e come dimostra l'esperienza, non
 crea  alcun  problema  ne'  medico,  ne'  famigliare,  ne'   sociale,
 all'infuori    di    quello    della   sua   criminalizzazione.   Una
 criminalizzazione che rischia di diventare di massa per i fumatori di
 cannabis (valutati, come s'e' visto, nell'ordine di qualche milione),
 se e' vero che sul mercato al minuto dei prodotti della cannabis, ben
 difficilmente  e'  possibile  acquistare   soltanto   una   quantita'
 equivalente  alla  "dose  media giornaliera", che non e' praticamente
 commerciata a causa del suo basso costo (circa 10 mila lire) e quindi
 del suo irrisorio profitto per lo spacciatore.
    Sotto questo profilo la scelta rigorista, se raffrontata a  quella
 riguardante  l'eroina,  diventa  ancora  piu'  irragionevole,  ove si
 consideri che spesso proprio  il  valore  economico  distingue  nella
 realta'   il   consumatore   dallo  spacciatore,  cioe',  secondo  la
 irrealizzata  volonta'  soggettiva  del  legislatore,  la  detenzione
 lecita  (quella  che non consente profitti mediante lo spaccio) dalla
 detenzione illecita (quella che li consente).
    Non appare infine secondario considerare che la  criminalizzazione
 in  termini  cosi'  estesi  e rigorosi della detenzione di cannabis a
 fine di consumo, o dello stesso consumo,  appare  ancora  piu'  grave
 perche'  ai  fumatori  di  cannabis  non  sara'  mai  applicabile  la
 sospensione prevista dall'art. 90 per "le pene  detentive  comminate"
 (recte:  irrogate) "per i reati previsti dall'art. 73, quinto comma".
 La  sospensione  infatti  e'  condizionata   all'attuazione   di   un
 "programma  terapeutico  e  socioriabilitativo"  che  presuppone  una
 tossicodipendenza nella  specie  non  ipotizzabile,  come  mostra  di
 rendersi conto lo stesso legislatore.
    Con particolare riferimento al caso di specie, osserva il collegio
 che  i  due  imputati sono stati trovati in possesso, mentre erano in
 macchina con altri due amici, di due confezioni  contenenti  ciascuna
 poco  piu'  di  una  "dose  media  giornaliera" di hashish, utili per
 ricavarne  3-4  "spinelli".  Non  vi  e'  in  atti  priva  alcuna  di
 destinazione  allo  spaccio  e, considerata la esigua quantita' della
 sostanza,  e'  attendibile  che  essa  fosse  destinata  al   consumo
 personale  dei detentori. E tuttavia i due imputati dovrebbero essere
 ritenuti colpevoli del reato  di  cui  all'art.  73,  atteso  che  la
 quantita'  di  cui sono stati trovati in possesso supera, sia pure di
 pochi milligrammi, la dmg  fissata  dalla  p.a.  La  rilevanza  della
 questione di legittimita' costituzionale rimessa alla decisione della
 Corte  e' pertanto del tutto evidente, sia sotto il profilo dell'art.
 3 della Costituzione (parita' di trattamento di situazioni disuguali:
 consumo/spaccio), sia sotto quello della violazione del principio  di
 offensivita'  (nullum  crimen  sine  damno)  e della riserva di legge
 (nullum crimen sine lege) in ordine alle fattispecie penali (art.  25
 della Costituzione).
    Sotto  quest'ultimo  profilo,  il collegio dubita che la questione
 possa essere risolta con  la  mera  disapplicazione  dell'illegittimo
 provvedimento  amministrativo  della  p.a.  (il  d.m.  n.  186)  e la
 determinazione della dmg, in base ai criteri di cui all'art.  78,  da
 parte dello stesso collegio. Tali criteri, infatti, per quanto muniti
 della   forza  cogente  della  legge,  non  sono  in  grado  di  dare
 consistenza reale ad una entita' in realta' indeterminabile (la "dose
 media  giornaliera").  E  pertanto,  alla  illegittima,   ma   certa,
 determinazione   di   carattere  normativo  di  tale  elemento  della
 fattispecie da parte della p.a.,  si  sostituirebbe  una  altrettanto
 illegittima, perche' del tutto discrezionale, determinazione da parte
 del giudice, al cui potere (e non a quello della legge) finirebbe con
 il  risalire  la  configurazione,  caso  per  caso, della fattispecie
 punibile,  che  perderebbe  i   suoi   caratteri   di   tipicita'   e
 determinatezza.  La  questione  di  legittimita'  costituzionale  per
 violazione  della  riserva  di  legge  stabilita  nell'art.  25,   si
 riaprirebbe, quindi, sotto il profilo della assoluta indeterminatezza
 della  figura  di  reato prevista nel coordinato disposto degli artt.
 73, 75 e 78. E si ricadrebbe in una  situazione  di  incertezza  piu'
 grave  di  quella lamentata, sotto il vigore della legge n. 685/1975,
 in relazione alla "modica quantita'", che  secondo  il  giudizio  del
 nuovo  legislatore (v. sul punto la citata relazione al Senato, pp. 8
 e 11, nonche' l'intervento del sen. Casoli dell'11 giugno 1990, p.  7
 del   res.   sten.),  aveva  costituito  la  causa  determinante  del
 fallimento dell'intervento giudiziario sul problema droga.
    Per le  stesse  ragioni,  a  ricondurre  il  denunciato  complesso
 normativo   nell'ambito   della   legittimita'   costituzionale,  non
 basterebbe neppure la dichiarazione di  illegittimita'  dell'art.  78
 nei limiti in cui rimette alla p.a., senza determinazione di criteri,
 la  quantificazione  della  "dose  media  giornaliera".  Il risultato
 sarebbe, infatti, pur sempre la rimessione della determinazione di un
 elemento normativo della fattispecie alla piena discrezionalita'  del
 giudice,   che  quindi  sarebbe  investito  non  solo  di  poteri  di
 accertamento del fatto, ma anche di un improprio  potere  costitutivo
 della fattispecie medesima.
    La   verita'   e'  che  nella  materia  de  qua,  la  legittimita'
 costituzionale puo' essere ripristinata solo fissando  il  discrimine
 tra  consumo  (non  punibile)  e  spaccio (punibile) non in base alla
 finzione della "dose media giornaliera", ma in base alla realta',  da
 accertarsi  secondo  i  criteri propri dell'accertamento giudiziario,
 basterebbe neppure la dichiarazione di  illegittimita'  dell'art.  78
 nei limiti in cui rimette alla p.a., senza determinazione di criteri,
 la  riquantificazione  della  "dose  media giornaliera". Il risultato
 sarebbe, infatti, pur sempre la rimessione della determinazione di un
 elemento normativo della fattispecie alla piena discrezionalita'  del
 giudice,   che  quindi  sarebbe  investito  non  solo  di  poteri  di
 accertamento del fatto, ma anche di un improprio  potere  costitutivo
 della fattispecie medesima.
    La  verita'  e'  che  il  discrimine  tra consumo (non punibile) e
 spaccio (punibile) non puo' essere efficacemente  determinato,  senza
 violare  la Costituzione, ne' in base alla finzione della dmg, ne' in
 base ad altro  criterio  quantitativo.  Il  discrimine  basato  sulla
 quantita', infatti, non esce da questa alternativa: se e' fissato con
 criteri  di larghezza, si rivela inutile, perche' si presta ad essere
 utilizzato come copertura per l'attivita' di spaccio; se  e'  fissato
 invece  con  criteri  di rigore, coinvolge inevitabilmente il consumo
 nella sanzione penale, con violazione  dei  principi  costituzionali.
 L'unico  modo  di  ricondurre  la  materia  de  qua nell'ambito della
 legalita' costituzionale e', dunque, quello di fondare il  discrimine
 tra  il  punibile  (lo spaccio) e il non punibile (il consumo) non su
 arbitrarie o inutili equazioni tra  quantita'  e  spaccio,  ma  sulla
 realta',  da  accertarsi  secondo  i criteri propri dell'accertamento
 giudiziario, nell'ambito del quale la  quantita'  di  droga  detenuta
 potrebbe  costituire,  nel  concreto  contesto  del  fatto, uno degli
 elementi di prova. La previsione normativa di cui si denuncia in  via
 principale  l'incostituzionalita',  e'  pertanto  quella che fonda il
 discrimine  del  penalmente  rilevante  non  sul  tipo  di   condotta
 (destinazione  allo  spaccio  o  al  consumo),  ma  sulla "dose media
 giornaliera". Tecnicamente il complesso normativo  denunciato  (artt.
 73,  75  e  78)  potrebbe ricondursi a conformita' alla Costituzione,
 mediante  l'eliminazione  dall'art.  75  dell'inciso  "in  dose   non
 superiore  a quella media giornaliera, determinata in base ai criteri
 indicati al primo comma dell'art. 78".  Quel  che  occorre,  in  ogni
 caso,  e'  ripristinare il rispetto del principio di eguaglianza (che
 non consente di riservare  al  consumo  giudizialmente  accertato  lo
 stesso   trattamento   riservato  allo  spaccio),  del  principio  di
 necessaria offensivita' (che vieta la punizione dei fatti contro  se'
 stessi  o  privi  di  concreta  pericolosita'  per beni altrui) e del
 principio  di  legalita'   dei   comportamenti   punibili   (la   cui
 determinatezza   non   puo'   essere   sostituita   da  una  certezza
 illegalmente determinata).
    Certo, venendo a mancare  l'ausilio  probatorio  costituito  dalla
 (arbitraria)  presunzione  di  spaccio  connessa alla eccedenza dalla
 dmg, la gia' infima percentuale di  piccoli  spacciatori  attualmente
 perseguiti  diminuirebbe  ulteriormente.  Ma  non  puo'  considerarsi
 secondario  il  fatto  che  ne  guadagnerebbe  per  converso  la  non
 punibilita' di altrettanti soggetti che - secondo l'opinione (sia pur
 normativamente  mal  tradotta)  del legislatore ordinario, secondo il
 comune sentire di quanti riflettono sul problema droga e, per  quanto
 qui  decisamente  rileva,  secondo  la Costituzione - non meritano la
 sanzione penale.
    Del resto - se e' consentita in questa  sede  una  riflessione  di
 politica  criminale  -  la  flessione  della  repressione  penale del
 piccolo spaccio non muterebbe i termini generali del  contributo  che
 l'intervento  giudiziario  puo'  dare  alla  risoluzione del problema
 droga. Gia' oggi, infatti, nonostante il  supporto  probatorio  della
 dmg, l'area di impunita' del piccolo spaccio e' vastissima e, d'altra
 parte,  sulla  ben piu' grave manifestazione criminale costituita dal
 grande traffico, l'incidenza della repressione penale  e',  a  fronte
 della imponenza del fenomeno, poco piu' che simbolica.
    Il  fatto e' che la risoluzione di simili problemi non puo' essere
 affidata in via esclusiva (come accade oggi nella concreta  realta'),
 al   processo   penale,   giacche'   esso,   per   sua  natura,  come
 autorevolmente osserva  il  Consiglio  superiore  della  magistratura
 (Relazione  al  Parlamento sullo stato della giustizia, 1986-1990, in
 Quaderni del C.S.M., giugno 1990, p. 45), puo' e deve perseguire "non
 gia'  il  fenomeno  criminale,  bensi'   i   concreti   comportamenti
 criminosi".  Il  che  "pone  in  luce  i limiti del contributo che la
 giurisdizione penale puo' fornire alla risoluzione dei  problemi  che
 hanno radici profonde e diffuse nella struttura della societa'".
                               P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara non manifestamente infondata la questione di legittimita'
 costituzionale degli artt. 71, 72 e 72-quater della legge 22 dicembre
 1975,  n.  285, siccome modificata dalla legge 26 giugno 1990, n. 162
 (artt. 73, 75 e 78 del t.u. 9 ottobre 1990,  n.  309),  in  relazione
 agli artt. 3 e 25 della Costituzione;
    Sospende  il giudizio in corso e ordina trasmettersi gli atti alla
 Corte costituzionale;
    Ordina che a cura della  cancelleria  la  presente  ordinanza  sia
 notificata  al  Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai
 Presidenti delle due Camere del Parlamento.
                        Il presidente: SARACENI

 91C0327