N. 408 ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 gennaio 1991
N. 408 Ordinanza emessa l'8 gennaio 1991 dal tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di Khatib Ben Ayed ed altro Processo penale - Giudizio direttissimo - Richiesta di trasformazione in rito abbreviato - Dissenso del p.m. per non decidibilita' allo stato degli atti - Impossibilita' per il giudice di ritenere ingiustificato tale dissenso anche quando la situazione probatoria potrebbe essere sanata dal meccanismo di integrazione ex art. 452, secondo comma, del c.p.p. - Conseguente inapplicabilita' della diminuente prevista dall'art. 442, secondo comma, stesso codice - Violazione dei principi di eguaglianza e di legalita' delle pene. (C.P.P. 1988, art. 452, secondo comma). (Cost., artt. 3 e 25).(GU n.23 del 12-6-1991 )
IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale nella causa penale nei confronti di: Khatib Ben Ayed, nato a La Chebba (Tunisia), il 30 gennaio 1964, detenuto in "R. Coeli" arrestato il 14 dicembre 1990, artt. 110 del c.p. e 73 della legge n. 685/1975, in Fiumicino il 14 dicembre 1990; Trabelsi Fakhgreddine Ben Abdelsalam, nato a Tunisi, il 18 agosto 1967, libero, arrestato il 14 dicembre 1990, scarcerato l'8 gennaio 1991, artt. 110 del c.p. e 73 della legge n. 685/1975 in Fiumicino il 14 dicembre 1990 imputati del reato di cui agli artt. 110 del c.p. e 73 della legge n. 685/1975 e successive modificazioni, perche' in concorso fra loro detenevano gr 17 circa di eroina. In Fiumicino il 14 dicembre 1990. Tratti in arresto perche' trovati in possesso di complessivi gr 17 lordi di eroina (gr 6,5 di sostanza pura, come accertera' la consulenza disposta dal p.m.), i due imputati venivano dal pubblico ministero presentati al tribunale per i provvedimenti in ordine alla liberta' personale e per il contestuale giudizio direttissimo. Dopo la convalida dell'arresto e l'applicazione della misura cautelare (custodia in carcere), gli imputati chiedevano il giudizio abbreviato, al quale si opponeva il p.m. rilevando la necessita' di assumere nel dibattimento la deposizione degli ufficiali di polizia giudiziaria, al fine di accertare la esatta dinamica dei fatti e le conseguenti responsabilita' di ciascuno dei due imputati. Si procedeva quindi nelle forme ordinarie. Espletato il dibattimento - nel corso del quale venivano assunte le deposizioni dei testi indicati dal pubblico ministero - il tribunale, pervenuto a convinzione di colpevolezza degli imputati, ritiene di dovere rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimita' dell'art. 452 del c.p.p., sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione) e del principio di stretta legalita' (art. 25 della Costituzione). La questione della compatibilita' con la Costituzione di forme pattizie di accertamento della responsabilita' penale, presenta specifici connotati di sospetta illegittimita' in relazione ai presupposti della trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato. In via generale, e' gia' di per se' opinabile che la procedibilita' nelle forme del giudizio abbreviato, che comporta la riduzione di un terzo della entita' della pena, possa essere condizionata dalla decidibilita' allo stato degli atti. La possibilita' di definire il procedimento sulla sola base degli atti di indagine dipende infatti o dal caso (l'imputato colto in flagrante e', da questo punto di vista, il piu' favorito) o dalla strategia processuale dell'organo dell'accusa il quale, essendo libero di scegliere se e quali indagini preliminari svolgere, se procedere nelle forme ordinarie o nelle forme del giudizio direttissimo (alla cui instaurazione non e' formalmente di ostacolo, nel nuovo codice, la complessita' dell'indagine), e' in grado di precostituire le condizioni della "decidibilita'" e di incidere quindi, in definitiva, sulla entita' della pena. Nel giudizio direttissimo, tendenzialmente (se non pure tassativamente: la questione e' controversa) caratterizzato dall'assenza di indagini, la indecidibilita' allo stato degli atti non costituisce di per se' un ostacolo alla trasformazione in giudizio abbreviato, potendo la lacune probatorie essere colmate con il meccanismo previsto nell'art. 452, secondo comma, del c.p.c. Percio', a differenza del giudizio abbreviato "tipico" (artt. 438 e 443 del c.p.p.), in cui il giudice puo' rigettare la pur concorde richiesta delle parti ove ritenga che il processo non possa essere definito allo stato degli atti, la trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato avviene automaticamente sol che l'imputato ne faccia richiesta e il pubblico ministero vi consenta; il giudice non puo' rigettare la richiesta, ma puo' soltanto, nel caso in cui ritenga che lo stato degli atti non consenta l'immediata definizione del procedimento, avviare il meccanismo di assunzione delle prove, anche su temi nuovi oltreche' incompleti, disciplinato nel citato art. 452. A sua volta codesta Corte, con sentenza n. 183/1990, ha stabilito che il pubblico ministero puo' legittimamente opporsi alla trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato solo per motivi attinenti alla decidibilita' allo stato degli atti e che il giudice, a conclusione del dibattimento, puo' sindacare la fondatezza del dissenso del p.m. ed applicare, in caso di ritenuta infondatezza, al diminuente di cui all'art. 442 del c.p.p. In definitiva, dunque, la indecidibilita' allo stato degli atti non impedisce in via di principio la instaurazione del giudizio abbreviato (nel quale si puo' supplire alla assenza o insufficienza delle prove necessarie per la decisione) ma, contraddittoriamente, costituisce (l'unica) ragione legittima di opposizione da parte del pubblico ministero. Tale contraddittoria rilevanza della decidibilita' allo stato degli atti, determina una situazione irrazionale in cui il trattamento sanzionatorio dell'imputato finisce col dipendere da una scelta puramente discrezionale del p.m. e dalla mera etichetta sotto la quale si assumono identiche attivita' probatorie. In presenza di una situazione processuale che non consenta la decisione sulla base delle sole risultanze delle indagini preliminari, il pubblico ministero si trova di fronte all'insolubile dilemma di prestare il suo consenso alla instaurazione del giudizio abbreviato rischiando di sacrificare le ragioni probatorie dell'accusa (nel caso in cui il giudice non solleciti la necessaria integrazione probatoria) ovvero di negarlo, al fine di assicurarsi l'assunzione di quelle stesse prove che, mediante l'iniziativa del giudice, potrebbero essere assunte nel giudizio abbreviato. Se il p.m. sceglie di prestare il consenso, confidando che il giudice dai luogo al meccanismo di integrazione probatoria previsto dall'art. 452, alla assunzione delle prove si provvedera' nelle forme del giudizio abbreviato. Ove invece il pubblico ministero - o perche' ritiene di non poter fare assegnamento sulla iniziativa del giudice o per qualunque altra ragione - non presti il suo consenso, alla stessa attivita' probatoria si provvedera' nelle forme del giudizio direttissimo. La disparita' di trattamento sanzionatorio che ne deriva e' priva di giustificazione legale, atteso che nella legge non vi e' alcun criterio che vincoli o guidi la scelta del pubblico ministero: la indecidibilita' allo stato degli atti - che, ripetesi, non costituisce un ostacolo formale alla trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato, essendo stato all'uopo previsto un apposito meccanismo di assunzione probatoria - si rivela un parametro inidoneo a determinare scelte razionali e in definitiva lascia il p.m. incensurabile arbitro della trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato e quindi della misura della pena nella rilevante misura di un terzo. Nella concreta prassi giudiziaria avviene che, a parte i casi di coinvolgimento del giudice in anomale negoziazioni sulla integrazione probatoria, ciascun pubblico ministero si determina alla scelta in ordine alla instaurazione del giudizio abbreviato secondo le proprie personali vedute. Ne consegue che, in presenza di identiche situazioni processuali, si provvede alla assunzione delle stesse prove (consulenza tecnica, testimonianze, ecc.) a volte sotto l'etichetta del "giudizio direttissimo" a volte sotto quella del "giudizio abbreviato", con conseguenze sanzionatorie che pongono la normativa che le consente (art. 452 del c.p.p.) in contrasto con i principii di uguaglianza (art. 3 della Costituzione) e di stretta legalita' (art. 25 della Costituzione). Nella situazione denunciata, infatti, il parametro (la "indecidibilita'") che incide sulla misura della pena non solo e' estraneo al fatto commesso (cui la pena e' vincolata dal citato art. 25), ma, come si e' detto, non e' in alcun modo vincolante per la scelta dell'organo dell'accusa, il quale, di fronte alla "indecidibilita'", puo' indifferentemente scegliere di consentire o di opporsi alla trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato. La violazione del principio di legalita' delle pene e la irragionevole disparita' di trattamento sanzionatorio che ne derivano, sono evidenti: nella stessa situazione sostanziale e processuale l'entita' della pena varia a seconda delle scelte discrezionali del pubblico ministero e del mero nome del procedimento nel quale avviente l'assunzione delle prove. Ne' il differenziato trattamento sanzionatorio potrebbe trovare giustificazione nelle diverse forme in cui le prove vengono assunte nei due giudizi (pubblico dibattimento ed esame incrociato nel giudizio direttissimo; camera di consiglio e audizione condotta dal giudice nell'abbreviato). Come ha stabilito codesta Corte (sentenze nn. 183 cit. e n. 66 del 1990), infatti, l'unico parametro processuale che puo' giustificare il dissenso del p.m. e' la indecibilita' allo stato degli atti e non gia' i moduli processuali con cui si risolve. Del resto, anche a voler ammettere, nonostante le obiezioni avanzate in proposito dalla dottrina, che l'economia processuale possa legittimamente entrare in un giudizio di bilanciamento dei valori costituzionali, e' palese che la sua rilevanza non puo' spingersi fino al punto di sacrificare il principio di legalita' delle pene a forme processuali che, sotto il profilo della deflazione, hanno ben scarso rilievo. Alla denunciata situazione di illegittimita' costituzionale non potrebbe ovviare, allo stato della legislazione, neppure la decisione del giudice a conclusione del dibattimento. Come ha stabilito codesta Corte, infatti, il giudice puo' applicare la riduzione della pena, nonostante che il processo si sia svolto nelle forme ordinarie a causa della opposizione del p.m. alla trasformazione in giudizio abbreviato, solo quando la predetta opposizione sia ingiustificata alla stregua della decidibilita' della causa allo stato degli atti. La riduzione della pena non puo', pertanto, essere applicata quando - come nel caso di specie, in cui le deposizioni degli ufficiali di polizia giudiziaria si sono rivelate decisive per l'accertamento delle specifiche responsabilita' di ciascuno dei due imputati - la situazione probatoria predibattimentale non avrebbe consentito la giusta decisione. Ne' si potrebbe pervenire per via interpretativa a ritenere che il dissenso del p.m. e' ingiustificato tutte le volte che l'indecidibilita' allo stato degli atti puo' essere colmata con il meccanismo integrativo previsto dall'art. 452. L'indecidibilita', infatti, e' sempre superabile con il predetto meccanismo, atteso che l'art. 452 consente di assumere tutti "gli elementi necessari ai fini della decisione, nelle forme" (e non anche nei limiti, gia' di per se' normalmente sufficienti a colmare le lacune probatorie) "previste dall'art. 422". Pertanto, affermare che il dissenso del p.m. e' ingiustificato quando alla indecidibilita' puo' rimediarsi con l'assunzione delle prove consentita dall'art. 452 equivarrebbe a dire che il dissenso del p.m. e', praticamente, sempre ingiustificato. Allo stato della legislazione, peraltro, la soluzione sopra prospettata, inammissibile in via di interpretazione (che si risolverebbe in una violazione del dato normativo, siccome emendato dalle decisioni di codesta Corte), e' quella che, mediante l'ulteriore intervento della Corte stessa, puo' ricondurre nell'ambito della legittimita' costituzionale la disciplina della trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato. Anche tale soluzione - che nella specie consentirebbe al tribunale di applicare agli imputati la riduzione di pena prevista dall'art. 442 del c.p.p., nonostante che il processo non si sia svolto nelle forme del giudizio abbreviato - equivarrebbe, evidentemente, all'affermazione (normativa) di immanente infondatezza del diniego del p.m. e cioe', in definitiva, alla eliminazione della facolta' del p.m. di opporsi alla instaurazione del giudizio abbreviato. Ma, a parte piu' radicali soluzioni legislative, proprio la eliminazione del consenso del p.m. appare allo stato l'unica via per conciliare con i principi costituzionali la permanenza del giudizio abbreviato nell'ordinamento processuale. Il principio di uguaglianza e di legalita' delle pene esige quanto meno che il giudizio abbreviato sia accessibile a tutti gli imputati che, facendone richiesta, hanno fatto quanto in loro potere per determinare le condizioni cui la legge, per ragioni di economia processuale, ricollega il "premio". Del resto, nella logica della deflazione, l'ampliamento dell'area di applicazione del giudizio abbreviato "integrato" (che conseguirebbe alla sua instaurazione per sola richiesta dell'imputato), troverebbe pur sempre un corrispettivo, in termini di economia processuale, nella utilizzazione degli elementi probatori (spesso molto utili per quanto incompleti o insufficienti) acquisiti al fascicolo del p.m. e nella limitazione delle impugnazioni (art. 443 del c.p.c.). L'abolizione del consenso del p.m. comporterebbe altresi' l'eliminazione dei casi in cui, a causa della ingiustificata opposizione del p.m., la riduzione della pena viene applicata dal giudice a conclusione del dibattimento e cioe' dopo una assunzione probatoria rivelatasi inutile. In ogni caso, come si deduce dalle piu' volte richiamate decisioni di codesta Corte, la copertura costituzionale del trattamento sanzionatorio penale esige che la riduzione di pena prevista dall'art. 442 del c.p.p. non puo' essere subordinata a scelte discrezionali del p.m. e deve essere riconosciuta all'imputato anche in assenza di corrispettivi di deflazione. In conclusione, il tribunale ritiene che la disciplina della trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato contrasti con gli artt. 3 e 25 della Costituzione e che tale contrasto possa essere superato mediante la dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 452, secondo comma, del c.p.p., in quanto subordina l'instaurazione del giudizio abbreviato al consenso del pubblico ministero ovvero in quanto non consente al giudice di ritenere ingiustificato il suo dissenso quando la indecidibilita' allo stato degli atti possa essere colmata dal meccanismo di integrazione probatoria previsto dalla predetta norma.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 452, secondo comma, del c.p.p. in relazione agli artt. 3 e 25 della Costituzione; Sospende il giudizio in corso e ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Manda alla cancelleria di notificare la presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri e di comunicarla ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Il presidente: (firma illeggibile) 91C0737