N. 366 SENTENZA 11 - 23 luglio 1991

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo  penale - Indagini preliminari - Intercettazioni telefoniche
 - Utilizzabilita' dei risultati in  procedimenti  diversi  -  Limiti:
 utilizzabilita'  solo  per  i  delitti  per  il quali e' obbligatorio
 l'arresto in flagranza  -  Lamentata  illogica  differenziazione  con
 violazione  del  principio  dell'obbligatorieta' dell'azione penale -
 Esclusione in quanto il divieto di  utilizzabilita'  e'  estraneo  al
 tema   della   possibilita'  di  dedurre  "notizie  di  reato"  dalle
 intercettazioni
 legittimamente disposte nell'ambito di altro procedimento - Non
 fondatezza della questione.
 
 (C.P.P., art. 270, primo comma).
 
 (Cost., artt. 3 e 112).
(GU n.30 del 31-7-1991 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Ettore GALLO;
 Giudici: dott. Aldo CORASANITI, dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele
    PESCATORE,  avv.  Ugo  SPAGNOLI,  prof.  Francesco Paolo CASAVOLA,
    prof. Antonio BALDASSARRE, prof.  Vincenzo CAIANIELLO, avv.  Mauro
    FERRI,  prof.  Luigi  MENGONI,  prof.  Enzo  CHELI, dott.   Renato
    GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel giudizio di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  270,  comma
 primo,  del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa
 il 7 gennaio 1991 dal Giudice per le indagini preliminari  presso  la
 Pretura di Siena nel procedimento penale a carico di Cinotti Vinicio,
 iscritta  al  n.  218  del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  14,  prima  serie  speciale,
 dell'anno 1991.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio  del  5  giugno  1991  il  Giudice
 relatore Antonio Baldassarre;
                           Ritenuto in fatto
   1.  -  Il  Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di
 Siena - investito  dal  Pubblico  Ministero  della  emissione  di  un
 decreto  di  archiviazione  in relazione a un giudizio concernente il
 delitto di cui all'art. 314 c.p.,  il  quale  era  stato  iniziato  a
 se'guito  di una notitia criminis emersa nel corso di intercettazioni
 telefoniche autorizzate  in  relazione  ad  altro  giudizio  relativo
 all'accertamento  del  reato  di cui all'art. 648 c.p. - ha sollevato
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 270, primo  comma,
 c.p.p.,  il  quale  consente  la  utilizzazione  dei  risultati delle
 intercettazioni in procedimenti diversi  da  quelli  nei  quali  sono
 state disposte solo se risultino indispensabili per l'accertamento di
 delitti  per  i quali e' obbligatorio l'arresto in flagranza. Secondo
 il  giudice  a  quo,  tale  divieto  assoluto  di  utilizzazione  dei
 risultati  delle intercettazioni in altri procedimenti contrasterebbe
 con gli artt. 3 e 112 della Costituzione.
    Premesso che per il reato di cui all'art. 314 c.p.  e'  competente
 per  materia  il  Tribunale  e  che,  pertanto, egli stesso, anziche'
 accogliere la richiesta di archiviazione, dovrebbe emettere  sentenza
 di incompetenza e trasmettere gli atti alla Procura della Repubblica,
 il  giudice a quo ritiene che gli sia tuttavia inibito emettere anche
 una sentenza di tale tipo, non potendo egli legittimamente utilizzare
 la notitia criminis in ragione del  disposto  di  cui  all'art.  270,
 primo  comma,  c.p.p., il quale vieta l'utilizzabilita' dei risultati
 delle intercettazioni  in  procedimenti  (e  non  gia'  in  processi)
 diversi,   salvo   che   quei   risultati  siano  indispensabili  per
 l'accertamento di reati per i  quali  e'  obbligatorio  l'arresto  in
 flagranza  (ipotesi che non si verifica nel giudizio a quo). Infatti,
 ad  avviso  del  giudice  rimettente,  l'estensione  del  divieto  di
 utilizzabilita'  dei  risultati  delle  intercettazioni alle indagini
 preliminari, e cioe' a una fase pre- ed extra-processuale  avente  la
 finalita' di cui all'art. 326 c.p.p., vanifica completamente lo scopo
 di   acquisizione   degli   elementi   necessari   al   p.m.  per  le
 determinazioni  inerenti  all'esercizio  dell'azione  penale  e,   di
 conseguenza,  rende impossibile al p.m. stesso tali determinazioni in
 relazione a elementi rilevabili dalla stessa  intercettazione  oppure
 acquisibili  per  effetto  delle  indagini  consequenziali,  anche se
 coattivamente  disposte  dal  Giudice  per  le  indagini  preliminari
 investito della richiesta di archiviazione.
    Sotto tale profilo, continua il giudice a quo, si puo' prospettare
 la  lesione del principio, disposto dall'art. 112 della Costituzione,
 relativo alla obbligatorieta' dell'azione penale da parte  del  p.m.,
 obbligatorieta'  che  non  e' limitata a determinati tipi di reati e,
 men che meno, a quelli per  i  quali  e'  obbligatorio  l'arresto  in
 flagranza,  ma  e'  estesa  a  tutti  i  reati. Contro tale principio
 sembra, dunque, porsi l'art. 270, alinea, c.p.p., in quanto il  p.m.,
 di  fronte  a una notitia criminis emersa da intercettazioni disposte
 in un certo processo,  non  potrebbe  attivare  le  indagini  di  cui
 all'art.  326 c.p.p. (certamente essenziali e strumentali all'obbligo
 di  esercizio  dell'azione  penale)  e  neppure  potrebbe  esercitare
 direttamente l'azione penale stessa.
    Sempre  secondo il giudice a quo, l'art. 270, primo comma, c.p.p.,
 cosi' come sopra interpretato, contrasterebbe anche con "il principio
 del divieto di illogica differenziazione di  cui  all'art.  3  Cost.,
 alla  luce  della  corretta  mancata  limitazione ai soli reati per i
 quali e' obbligatorio l'arresto in flagranza da  parte  dello  stesso
 principio di cui all'art. 112 Cost.".
    2.  -  E'  intervenuto  nel  presente  giudizio  il Presidente del
 Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata non
 fondata.
    Premesso  che  non  puo'  dubitarsi   della   legittimita'   della
 esclusione   (e   della  limitazione)  del  valore  probatorio  delle
 intercettazioni in procedimenti diversi da quello  nel  quale  furono
 autorizzate,  l'Avvocatura  dello Stato osserva che il divieto di cui
 all'art. 270 c.p.p. "afferisce al piano dell'efficacia  probatoria  e
 non  a  quello,  del tutto diverso, della acquisizione degli elementi
 necessari  al  pubblico  ministero  per  le  determinazioni  inerenti
 all'esercizio  dell'azione penale". Conseguentemente, "in nessun caso
 puo' ritenersi pregiudicato il potere-dovere del pubblico  ministero,
 di  fronte  ad una notitia criminis relativa ad un reato per il quale
 non e'  obbligatorio  l'arresto,  di  attivare  le  indagini  di  cui
 all'art.  326 c.p.p.". Ad avviso dell'Avvocatura, infatti, le notizie
 ricavabili da intercettazioni costituiscono pur sempre fatti  storici
 rilevanti  al  fine di promuovere le indagini necessarie ad accertare
 la possibile esistenza di reati e ad esercitare l'azione penale.
    Esclusa, dunque, la violazione dell'art. 112  della  Costituzione,
 l'Avvocatura  conclude  contestando anche la fondatezza del richiamo,
 peraltro estremamente generico, all'art. 3 della Costituzione.
                         Considerato in diritto
   1. - L'art. 270, primo comma,  c.p.p.,  il  quale  dispone  che  "i
 risultati  delle  intercettazioni  non  possono  essere utilizzati in
 procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati  disposti,  salvo
 che  risultino  indispensabili  per  l'accertamento  di delitti per i
 quali  e'  obbligatorio  l'arresto  in  flagranza",   e'   sospettato
 d'illegittimita'   costituzionale   dal   Giudice   per  le  indagini
 preliminari  presso  la Pretura di Siena per violazione dell'art. 112
 della Costituzione ("il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare
 l'azione penale") e del  divieto  di  illogica  disparita'  stabilito
 dall'art.  3  della  Costituzione.  Secondo  il  giudice  a  quo,  la
 disposizione  impugnata  -  nel  vietare  che   i   risultati   delle
 intercettazioni  telefoniche  disposte  nell'ambito di un determinato
 processo possano  essere  utilizzati  "in  procedimenti  diversi",  e
 pertanto  anche  nella  fase pre- ed extra-processuale delle indagini
 preliminari,   -   vanificherebbe   il    principio    costituzionale
 dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale  e contrasterebbe, inoltre,
 con il principio "del divieto di  illogica  differenziazione  di  cui
 all'art.  3  Cost.,  alla  luce della corretta mancata limitazione ai
 soli reati per i quali e'  obbligatorio  l'arresto  in  flagranza  da
 parte dello stesso principio di cui all'art. 112 Cost.".
    2. - Deve innanzitutto essere dichiarata la inammissibilita' della
 questione  di  legittimita'  costituzionale  sollevata in riferimento
 all'art. 3 della Costituzione, in  quanto,  in  difetto  di  adeguata
 motivazione,  non puo' individuarsi in modo univoco il contenuto e il
 senso della censura proposta.
    3. - La questione di legittimita'  costituzionale  in  riferimento
 all'art. 112 della Costituzione non e' fondata.
    L'art.  270 c.p.p. costituisce l'attuazione in via legislativa del
 bilanciamento di due valori costituzionali fra loro contrastanti:  il
 diritto  dei  singoli individui alla liberta' e alla segretezza delle
 loro comunicazioni e l'interesse pubblico a reprimere  i  reati  e  a
 perseguire in giudizio coloro che delinquono.
    Sin  dalla  sentenza n. 34 del 1973, questa Corte ha affermato che
 la liberta' e la segretezza della  corrispondenza  e  di  ogni  altro
 mezzo   di  comunicazione  costituiscono  un  diritto  dell'individuo
 rientrante tra i  valori  supremi  costituzionali,  tanto  da  essere
 espressamente   qualificato  dall'art.  15  della  Costituzione  come
 diritto inviolabile.
    La stretta attinenza di tale  diritto  al  nucleo  essenziale  dei
 valori  di  personalita'  -  che  inducono  a qualificarlo come parte
 necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il
 quale questa non  puo'  esistere  e  svilupparsi  in  armonia  con  i
 postulati    della    dignita'   umana   -   comporta   una   duplice
 caratterizzazione della sua inviolabilita'. In base all'art. 2  della
 Costituzione,  il  diritto  a  una  comunicazione libera e segreta e'
 inviolabile, nel senso generale che il suo contenuto  essenziale  non
 puo'  essere oggetto di revisione costituzionale, in quanto incorpora
 un valore della personalita' avente un carattere fondante rispetto al
 sistema democratico voluto dal Costituente. In base all'art. 15 della
 Costituzione, lo stesso diritto e' inviolabile nel senso che  il  suo
 contenuto  di  valore  non  puo'  subire restrizioni o limitazioni da
 alcuno dei poteri costituiti  se  non  in  ragione  dell'inderogabile
 soddisfacimento  di un interesse pubblico primario costituzionalmente
 rilevante, sempreche' l'intervento limitativo  posto  in  essere  sia
 strettamente   necessario   alla  tutela  di  quell'interesse  e  sia
 rispettata la duplice garanzia che la disciplina prevista risponda ai
 requisiti  propri  della  riserva  assoluta  di  legge  e  la  misura
 limitativa sia disposta con atto motivato dell'autorita' giudiziaria.
    Non  v'e'  dubbio  -  e questa Corte l'ha affermato piu' volte (v.
 sentt. nn. 34 del 1973, 120 del 1975, 98 del 1976 e 223 del  1987)  -
 che l'esigenza di amministrare la giustizia e, in particolare, quella
 di  reprimere  i  reati corrisponda a un interesse pubblico primario,
 costituzionalmente rilevante, il cui soddisfacimento e' assolutamente
 inderogabile. Allo stesso modo, non si puo' dubitare - e questa Corte
 non ha mai dubitato - che tale interesse primario  giustifichi  anche
 il  ricorso  a  un  mezzo  dotato di formidabile capacita' intrusiva,
 quale l'intercettazione  telefonica.  Tuttavia,  proprio  perche'  si
 tratta  di  uno  strumento  estremamente  penetrante  e  in  grado di
 invadere anche la privacy di soggetti terzi, del  tutto  estranei  ai
 reati  per  i  quali  si  procede,  e proprio perche' la Costituzione
 riconosce  un  particolare  pregio  all'intangibilita'  della   sfera
 privata  negli  aspetti  piu'  significativi  e piu' legati alla vita
 intima della persona umana,  le  restrizioni  alla  liberta'  e  alla
 segretezza   delle  comunicazioni  conseguenti  alle  intercettazioni
 telefoniche sono sottoposte a condizioni di validita' particolarmente
 rigorose,  commisurate  alla  natura  indubbiamente  eccezionale  dei
 limiti  apponibili  a  un diritto personale di carattere inviolabile,
 quale la liberta' e la segretezza delle comunicazioni (art. 15  della
 Costituzione).
    In  base  a tali premesse, questa Corte (v., in particolare, sent.
 n.  34  del  1973)  ha  sottolineato  con  forza  tanto  che   l'atto
 dell'autorita'  giudiziaria  con  il  quale  vengono  autorizzate  le
 intercettazioni telefoniche deve essere  "puntualmente  motivato"  o,
 per  usare  un'altra espressione presente nella stessa sentenza, deve
 avere  una   "adeguata   e   specifica   motivazione",   quanto   che
 l'utilizzazione in giudizio come elementi di prova delle informazioni
 raccolte  con  le intercettazioni legittimamente disposte nell'ambito
 di  un  processo   deve   essere   circoscritta   alle   informazioni
 strettamente rilevanti al processo stesso.
    Nel  collegare  questa affermazione direttamente agli artt. 2 e 15
 della Costituzione, questa Corte ha chiaramente  presupposto  che  la
 predetta   garanzia  sia  una  immediata  conseguenza  del  principio
 costituzionale che  le  intercettazioni  telefoniche  debbano  essere
 disposte   senza   eccezioni   con   atto   motivato   dell'autorita'
 giudiziaria, poiche' e' da quest'ultimo che  deriva  direttamente  il
 vincolo    che   nell'atto   giudiziale   di   autorizzazione   delle
 intercettazioni siano quantomeno predeterminati  sia  i  soggetti  da
 sottoporre al controllo, sia i fatti costituenti reato per i quali in
 concreto  si procede. Infatti, giova sottolineare che l'art. 15 della
 Costituzione - oltre a garantire la "segretezza" della  comunicazione
 e,  quindi,  il  diritto di ciascun individuo di escludere ogni altro
 soggetto   diverso   dal   destinatario   della   conoscenza    della
 comunicazione  -  tutela  pure  la  "liberta'"  della  comunicazione:
 liberta' che risulterebbe  pregiudicata,  gravemente  scoraggiata  o,
 comunque,  turbata  ove la sua garanzia non comportasse il divieto di
 divulgazione o di utilizzazione successiva delle notizie di cui si e'
 venuti a conoscenza a seguito  di  una  legittima  autorizzazione  di
 intercettazioni  al fine dell'accertamento in giudizio di determinati
 reati. Di qui  consegue  che  l'utilizzazione  come  prova  in  altro
 procedimento   trasformerebbe   l'intervento  del  giudice  richiesto
 dall'art. 15 della Costituzione in un'inammissibile autorizzazione in
 bianco", con conseguente lesione della "sfera  privata"  legata  alla
 garanzia  della  liberta'  di  comunicazione e al connesso diritto di
 riservatezza  incombente  su  tutti  coloro  che  ne  siano  venuti a
 conoscenza per motivi di ufficio.
    Dalla tutela della liberta' di comunicazione deriva dunque che, in
 via di principio,  e'  vietata  l'utilizzabilita'  dei  risultati  di
 intercettazioni  validamente  disposte  nell'ambito di un determinato
 giudizio come elementi di prova in processi diversi, per il  semplice
 fatto  che,  ove  cosi'  non fosse, si vanificherebbe l'esigenza piu'
 volte  affermata  da  questa   Corte   che   l'atto   giudiziale   di
 autorizzazione   delle   intercettazioni  debba  essere  puntualmente
 motivato nei sensi e nei modi precedentemente chiariti.
    4. - Interpretato come divieto di utilizzabilita', quali fonti  di
 prova  in  procedimenti  diversi, dei risultati delle intercettazioni
 legittimamente disposte in un determinato giudizio, l'art. 270, primo
 comma, c.p.p., appare nel suo complesso come  l'immediata  attuazione
 in  via  legislativa  dei principi costituzionali sopra enunciati. Il
 giudice a quo,  tuttavia,  muovendo  dal  rilievo  che  l'espressione
 "procedimenti"  denota un campo semantico comprensivo della fase pre-
 processuale delle indagini preliminari, ritiene che l'art. 270, primo
 comma, c.p.p., possa essere interpretato  in  un  senso  piu'  ampio,
 comportante    anche    la   preclusione   dell'utilizzazione   delle
 informazioni  raccolte  attraverso   intercettazioni   legittimamente
 disposte   in   un   determinato   procedimento  come  fonti  da  cui
 eventualmente desumere una notitia criminis.  Sulla  base  di  questa
 interpretazione,   lo  stesso  giudice  a  quo  dubita  che  siffatta
 preclusione sia conforme  a  Costituzione,  poiche',  a  suo  avviso,
 quest'ultima   vanificherebbe   il   principio  costituzionale  della
 obbligatorieta' dell'azione  penale,  disposto  dall'art.  112  della
 Costituzione.
    Occorre   premettere   che,   fermo   restando   che   l'eventuale
 utilizzabilita' dei risultati delle intercettazioni  in  procedimenti
 diversi da quello per cui sono state disposte deve commisurarsi con i
 principi costituzionali sopra enunciati, per altro verso, l'ipotetica
 estensione di tale divieto al di la' del campo probatorio rientra nel
 discrezionale  apprezzamento  del  legislatore allorche' determina la
 conformazione del processo penale sulla base dei principi  ispiratori
 da   esso  prescelti,  sempreche'  questi,  naturalmente,  non  siano
 contrari alla Costituzione. Il limite che in tale direzione  incontra
 il  legislatore  e',  come  sempre si richiede in questi casi, quello
 della non irragionevolezza delle sue scelte e  della  coerenza  della
 disciplina  predisposta con il sistema di cui quella e' parte e con i
 relativi principi ispiratori. E'  su  questa  base,  quindi,  che  va
 apprezzata  la  validita' dell'interpretazione proposta dal giudice a
 quo e, prima ancora, la plausibilita' della stessa.
    Sotto il profilo ora  indicato,  va  sottolineato  che  la  stessa
 lettura   integrale  dell'art.  270  c.p.p.  induce  a  escludere  la
 plausibilita' dell'interpretazione proposta dal  giudice  rimettente.
 In particolare, occorre considerare che l'art. 270, al secondo comma,
 stabilisce  che  "ai fini della utilizzazione prevista dal comma 1, i
 verbali e le  registrazioni  delle  intercettazioni  sono  depositati
 presso l'autorita' competente per il diverso procedimento". E, subito
 dopo,  aggiunge:  "si  applicano  le  disposizioni dell'articolo 268,
 commi 6, 7 e 8". Ebbene, oltre a sottolineare che il rinvio a  queste
 ultime disposizioni, le quali concernono le garanzie della difesa per
 l'acquisizione  delle  intercettazioni  degli  atti del procedimento,
 presuppone   chiaramente  la  pendenza  di  un  diverso  procedimento
 all'interno del quale utilizzare  le  intercettazioni  legittimamente
 disposte in altro procedimento, si puo' affermare con certezza che la
 previsione  dell'applicazione della procedura stabilita nell'art. 268
 ai commi citati ha un  senso  unicamente  nella  prospettiva  che  ai
 risultati  delle intercettazioni telefoniche si attribuisca efficacia
 probatoria. E  cio'  e'  confermato  dal  terzo  comma  dello  stesso
 articolo  impugnato,  il quale attribuisce al pubblico ministero e ai
 difensori delle parti "la  facolta'  di  esaminare  i  verbali  e  le
 registrazioni  in  precedenza  depositate  nel procedimento in cui le
 intercettazioni furono autorizzate". In altri  termini,  l'art.  270,
 visto  nell'insieme  dei  suoi  commi,  mostra  di presupporre che il
 divieto  di  utilizzazione  dei   risultati   delle   intercettazioni
 legittimamente  disposte  in  un determinato procedimento debba esser
 riferito soltanto a  processi  diversi  e  all'utilizzabilita'  degli
 stessi risultati come elementi di prova.
    Ne',  invece,  puo' riconoscersi valore decisivo al rilievo che la
 dizione originariamente contenuta nella  rubrica  dell'art.  270  era
 "utilizzazione  in  altri processi" e che questa nel corso dei lavori
 preparatori  e'  stata  successivamente  sostituita  con  la  diversa
 dizione  "utilizzazione  in altri procedimenti". Infatti, a parte che
 tale modifica e' stata presumibilmente apportata, non gia' al fine di
 modificare il significato della disposizione, ma  al  solo  scopo  di
 uniformare  la  dizione  della  rubrica  al testo contenuto nel primo
 comma dell'articolo,  occorre  considerare  che  argomenti  meramente
 lessicali,  come  quello  ora esaminato, possono avere un significato
 soltanto nel caso che risultino suffragati  da  sicuri  argomenti  di
 ordine  sistematico o attinenti alla ratio delle disposizioni consid-
 erate.  Tuttavia,  nell'ipotesi  esaminata,  non  solo  cio'  non  si
 verifica,  ma  all'argomento testuale addotto dal giudice a quo se ne
 puo' contrapporre uno opposto della stessa  natura,  consistente  nel
 rilievo   che  nel  nuovo  codice  di  procedura  penale  il  termine
 "utilizzazione" e' normalmente  riferito  alle  sole  prove  (v.,  ad
 esempio, artt. 191, 238, quarto comma, 526 e 606, lettera c).
    5.  -  Su  tali  basi e in linea con la giurisprudenza consolidata
 formatasi sotto il codice precedente, puo' concludersi che il divieto
 disposto dall'art. 270 c.p.p. e' estraneo al tema della  possibilita'
 di  dedurre  "notizie  di reato" dalle intercettazioni legittimamente
 disposte nell'ambito di altro procedimento. La  conoscenza  di  fatti
 astrattamente  qualificabili come illeciti penali che venga acquisita
 attraverso intercettazioni legittimamente autorizzate o,  all'interno
 del  medesimo  procedimento,  per  altri  reati,  non  impone al P.M.
 l'inizio di un procedimento, ma consente piuttosto che  egli  proceda
 ad  accertamenti volti ad acquisire nuovi elementi di prova sulla cui
 base soltanto potra' successivamente proporre l'azione penale.  Tanto
 piu'  cio'  vale in un sistema nel quale si prevede che "il P.M. e la
 polizia giudiziaria acquisiscono  le  notizie  di  reato  di  propria
 iniziativa"  (art.  330  c.p.p.),  e  si attribuisce rilevanza pure a
 eventuali notizie di reato apprese dal pubblico ministero al di fuori
 dell'esercizio delle proprie funzioni (v. art. 70 del R.D. 30 gennaio
 1941, n. 12, come sostituito dall'art. 20  del  d.P.R.  22  settembre
 1948, n. 449).
    In definitiva, dovendosi escludere che il divieto di utilizzazione
 in altri procedimenti dei risultati delle intercettazioni telefoniche
 legittimamente  disposte in un determinato processo possa estendersi,
 stando a una corretta interpretazione  dell'art.  270  c.p.p.,  anche
 all'utilizzazione  degli  stessi  risultati  al fine dell'eventuale e
 successiva proposizione dell'azione penale, vengono meno in radice  i
 dubbi di legittimita' costituzionale sollevati dal giudice a quo.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondata  la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 270, primo comma, c.p.p., sollevata,  in  riferimento  agli
 artt.  3  e  112  della  Costituzione,  dal  Giudice  per le indagini
 preliminari presso la Pretura di Siena con  l'ordinanza  indicata  in
 epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, l'11 luglio 1991.
                         Il Presidente: GALLO
                       Il redattore: BALDASSARRE
                        Il cancelliere: MINELLI
    Depositata in cancelleria il 23 luglio 1991.
                Il direttore della cancelleria: MINELLI
 91C0955