N. 534 ORDINANZA (Atto di promovimento) 14 giugno 1991

                                N. 534
 Ordinanza  emessa  il  14  giugno  1991  dal  pretore  di Sanremo nei
 procedimenti civili riuniti vertenti tra Pallara Wanda  ed  altri  ed
 I.N.P.S.
 Previdenza e assistenza sociale - Pensioni I.N.P.S. - Diritto alla
    integrazione  al  minimo  -  Termine  di  decadenza  (10 anni) per
    l'impugnativa  in  giudizio  dei  provvedimenti  dell'I.N.P.S.   -
    Qualificazione  di  tale  termine,  di  natura  procedimentale per
    consolidata giurisprudenza,  in  termine  decadenziale  di  natura
    sostanziale  - Prevista retroattivita' di tale disposizione tranne
    che per i processi gia' in corso alla data di  entrata  in  vigore
    del  d.-l. 29 marzo 1991, n. 103 - Irragionevole limitazione della
    retroattivita' in conseguenza di  un  fatto  estrinseco  quale  la
    proposizione del giudizio.
 (D.-L. 29 marzo 1991, n. 103, art. 6, secondo comma, convertito in
    legge 1º giugno 1991, n. 166).
 (Cost., art. 3).
(GU n.34 del 28-8-1991 )
                              IL PRETORE
    Ha  emesso la seguente ordinanza nelle cause previdenziali riunite
 nn. 3/1991, 7/1991,  10/1991,  12/1991,  14/1991,  17/1991,  18/1991,
 21/1991,   22/1991,  23/1991,  24/1991,  25/1991,  27/1991,  28/1991,
 30/1991,  32/1991,  35/1991,  37/1991,  38/1991,  39/1991,   40/1991,
 vertenti  tra  Wanda  Pallara  piu'  20, avv. Adolfo Biole' e Giorgio
 Saguato, contro l'Istituto nazionale della previdenza  sociale,  avv.
 Giacomo Frallicciardi.
    Oggetto: integrazione al minimo di pensione.
                           PREMESSO IN FATTO
    Che  con  separati  ricorsi,  depositati in cancelleria tutti il 4
 gennaio 1991, Wanda Pallara, ed  altri  venti  titolari  di  pensione
 sociale chiedevano - in applicazione della sentenza n. 314/1985 della
 Corte  costituzionale  -  l'integrazione  al  minimo  del trattamento
 previdenziale     goduto,     sostenendo     che      il      diritto
 all'integrazionestessa  non  poteva  dirsi  precluso  dal decorso del
 termine decennale di cui all'art. 47 del d.P.R. 30  aprile  1970,  n.
 639  (le situazioni di cumulo pensionistico si erano infatti determi-
 nate piu' di dieci anni  prima  della  sentenza  costituzionale),  in
 forza  della  giurisprudenza  della Corte di cassazione consolidatasi
 sul punto, che ritiene il termine non attinente ad una decadenza  dal
 diritto,  bensi' afferente unicamente al procedimento, e pertanto non
 preclusivo  di  una  riattivazione  della  procedura   amministrativa
 (veniva  in  particolare citata cass., sez. lav., 23 gennaio 1989, n.
 376); precisando di avere, in varie  date  successive  alla  sentenza
 costituzionale,  riproposto la domanda in via amministrativa, che era
 stata  respinta;  ed  infine  affermando,  quanto   all'entita'   del
 trattamento  di integrazione dovuto, che esso doveva essere computato
 con riferimento alla data del 1º ottobre  1983,  in  cui  entrava  in
 vigore la legge 11 novembre 1983, n. 638, di conversione del d.-l. 12
 settembre  1983, n. 463, in forza della considdetta cristallizzazione
 dei minimi pensionistici operata dall'art. 6 di tale legge.
    Che l'istituto previdenziale si costituiva in giudizio  sostenendo
 che   i   decreti-legge   n.   250/1990  e  28/1991  (che  costituiva
 reiterazione  del  primo)  avevano,  con  norma  di   interpretazione
 autentica,  chiarito  la natura decadenziale del termine decennale di
 cui all'art. 47 cit.; che pertanto  il  trattamento  integrativo  non
 poteva  essere riconosciuto, in quanto i rapporti dedotti in giudizio
 dovevano considerarsi esauriti alla data di acquisizione di efficacia
 della sentenza costituzionale richiamata; che doveva, per  una  serie
 di  ragioni  che  non  e'  questa  la  sede per illustrare, ritenersi
 infondata l'opinione inerente la cristallizzazione all'ottobre  1983,
 sostenuta dalle controparti.
    Che  all'udienza  di  comparizione  le  cause,  identiche quanto a
 petitum e causa petendi, venivano riunite.
    Che le parti chiedevano rinvio, in attesa della maturazione  degli
 eventi legislativi in corso nella materia.
    Che  infatti,  nelle  more,  veniva  emanato,  e  convertito  (con
 modifiche che non interessano i profili in discussione)  nella  legge
 1º giugno 1991, n. 166, il d.-l. 29 marzo 1991, n. 103.
    Che,  all'odierna  udienza  di  discussione, le difese delle parti
 affermavano l'una (cioe' quella dei  ricorrenti),  l'inapplicabilita'
 dell'art. 6 della legge stessa, e l'altra il contrario.
    Tutto cio' premesso.
                             O S S E R V A
    Per  quanto  fondata su interessanti argomentazioni, nonche' sulla
 rilevazione della somma incoerenza dell'opposta interpretazione,  non
 appare  fondata  la  lettura  della  difesa dell'I.N.P.S., secondo la
 quale l'art. 6 del recentissimo provvedimento legislativo  da  ultimo
 richiamato  in narrativa si applicherebbe anche a questi giudizi, con
 la conseguenza che, dovendosi, in forza  di  esso,  individuare  come
 attinenti  alla  decadenza dal diritto sostanziale i termini previsti
 dall'art. 47 del  d.P.R.  369  cit.,  non  potrebbe  applicarsi  alle
 situazioni  giuridiche  dedotte  in  lite,  esauritesi in forza della
 decadenza stessa, la sentenza costituzionale dai ricorrenti invocata.
    Il  secondo  comma  dell'art. 6 in rassegna statuisce infatti: "Le
 disposizioni di cui al primo comma hanno  efficacia  retroattiva,  ma
 non  si  applicano ai processi che sono in corso alla data di entrata
 in vigore del presente decreto".
    Dunque, la formula legislativa - che non consiste in  un  generico
 fatti  salvi o espressione consimile, che forse avrebbe legittimato i
 distinguo operati dalla difesa  dell'I.N.P.S.,  ma  nella  perentoria
 dizione riportata, che lascia assai poco spazio all'interpretazione -
 segnala  chiaramente  la  scelta  di limitare la retroattivita' della
 norma - che, proprio in virtu' di tale  limitazione,  e'  discutibile
 possa qualificarsi di interpretazione autentica, e che infatti in tal
 senso  non viene denominata - introdotta, alle fattispecie non ancora
 portate all'attenzione del giudice.
    Ora, e' certamente possibile e  costituzionalmente  legittimo,  in
 se',  che il legislatore effettui delle scelte e delle distinzioni in
 tema di retroattivita' di una legge, dal momento che pacificamente si
 tratta di materia non elevata, tranne  che  nel  diritto  penale,  al
 rango  costituzionale.  E  tuttavia,  la  scelta legislativa non puo'
 essere sottratta ad altro genere di vaglio costituzionale, cioe' alla
 verifica della razionalita' della discriminazione  che  eventualmente
 la    scelta    stessa    operasse,   secondo   la   consolidatissima
 interpretazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3  della
 Costituzione.
    Che  nel  caso  di  cui  si  discute si operi una discriminazione,
 sembra difficle  negarlo:  se  e'  vero  il  diritto  vivente  si  e'
 consolidato  nel senso di ritenere che l'art. 47 piu' volte citato ha
 natura di decadenza procedimentale (cosi' Cass., sez. un., 21  giugno
 1990,  n.  6245),  e  che  comunque, indipendentemente da una diversa
 qualificazione  dogmatica,  non  preclude  la  riproposizione   della
 domanda  di  integrazione  al minimo (cfr. per tutte, precedentemente
 alla pronuncia a  sezioni  unite  citata,  la  sentenza  n.  376/1989
 indicata  dalla  difesa  dei  ricorrenti), appare chiaro che il primo
 comma dell'art. 6 in esame, qualificando il termine come di decadenza
 dal diritto, e sancendo che il suo decorso determina l'estinzione del
 diritto  ai  ratei  pregressi  e  l'inammissibilita'  delle  relative
 domande giudiziali, detta una disciplina esattamente opposta a quella
 delineata  dalla  situazione  normativa  precedente, quale risultante
 dall'interpretazione  giurisprudenziale.   La   scelta   di   rendere
 retroattiva   tale   disposizione,   e'   scelta   discrezionale  del
 legislatore, per quanto si e' ricordato incensurabile.  Tuttavia,  la
 limitazione della retroattivita', anch'essa in astratto possibile, e'
 legata   ad   un   fatto  del  tutto  estrinseco,  non  significativo
 soprattutto a livello di consolidamento del diritto,  quale  la  mera
 proposizione del giudizio: la postulazione del proprio diritto, cioe'
 l'azione  giudiziaria, infatti, non comporta affatto, per la varieta'
 ipotizzabile dei singoli casi  concreti,  che  si  possa  considerare
 acquisito   il   diritto   postulato.   Dunque,  non  sorretto  dalla
 motivazione della  salvaguardia  dei  diritti  quesiti,  tradizionale
 limite  alla  retroattivita'  della  legge  e  degli  atti giuridici,
 diviene puramente arbitrario, e  irrazionalmente  discriminatorio,  a
 danno di chi non ha ancora proposto la domanda in giudizio al momento
 dell'entrata  in  vigore  del  decreto-legge,  decidere solo per tali
 soggetti, e non per tutti coloro la cui  situazione  sostanziale  sia
 analoga,   di   punto   in   bianco   la   decadenza  dal  diritto  e
 l'inammissibilita' dell'azione.
    Cio'  detto  in  punto  di  fondatezza della questione prospettata
 d'ufficio, va osservato, quanto alla rilevanza  in  questo  giudizio,
 che  senza dubbio deve farsi applicazione della recentissima norma di
 cui  si  sospetta  l'illegittimita':  se  infatti  non  vi  fosse  la
 limitazione   di   cui   si  discute,  il  primo  comma  dell'art.  6
 comporterebbe,  in  forza   della   retroattivita'   illustrata,   la
 dichiarazione di inammissibilita' delle domande portate all'esame del
 giudicante.  Non  ha poi - ed e' appena il caso di osservarlo - alcun
 rilievo  il  fatto  che  la  norma  che  si  ritiene  inficiata   sia
 favorevole,  anziche'  sfavorevole, ai ricorrenti, e comporti l'esame
 delle  loro  domande,  anziche'  tout  court  la   dichiarazione   di
 inammissibilita'.
    Infine, quanto alla valutazione della necessita' della sospensione
 del  giudizio  di  merito, di cui al secondo comma dell'art. 23 della
 legge 11 marzo 1953, n. 87, e' evidente che tale necessita' sussista,
 dacche' la norma sospettata condiziona, con l'assolutezza di cui s'e'
 detto, l'accoglimento delle domande. Non occorre che questa ordinanza
 sia notificata alle parti, in quanto viene letta in udienza,  essendo
 emessa in giudizio di lavoro.
                               P. Q. M.
    Visti  gli  artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n.
 1, e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara rilevante ai fini della decisione delle cause riunite  di
 cui  in  epigrafe  e  non  manifestamente  infondata  la questione di
 illegittimita' del secondo comma dell'art. 6 del d.-l. 29 marzo 1991,
 n. 103, convertito nella legge 1º giugno 1991, n. 166, per  contrasto
 con l'art. 3 della Costituzione;
    Ordina  la  trasmissione  degli atti delle cause riunite di cui in
 epigrafe alla Corte costituzionale, e sospende il relativo giudizio;
    Ordina  che,  a  cura  della  cancelleria,  questa  ordinanza  sia
 comunicata  al Presidente del Consiglio dei Ministri ed ai Presidenti
 delle due Camere del Parlamento.
      Sanremo, all'udienza del 14 giugno 1991
                         Il pretore: LAMBERTI

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