N. 555 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 maggio 1991
N. 555 Ordinanza emessa il 16 maggio 1991 dal pretore di Venezia, sezione distaccata di Mestre, nel procedimento penale a carico di Damo Sergio ed altro Processo penale - Istruzione dibattimentale - Testimonianza indiretta - Divieto solo per gli ufficiali ed agenti di p.g. di deporre sul contenuto di dichiarazioni acquisite da testimoni - Ingiustificata disparita' di trattamento rispetto ad altre categorie di testimoni per i quali tale divieto non opera. (C.P.P. 1988, art. 195, n. 4). (Cost., art. 3).(GU n.36 del 11-9-1991 )
IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale a carico di Damo Sergio e Trevisiol Manuele, imputati il primo di furto pluriaggravato ed il secondo di favoreggiamento personale, commessi rispettivamente in Marcon il 13 gennaio 1988 e in Eraclea il 7 marzo 1988. F A T T O Dalla esposizione introduttiva del p.m. si evince che in data 13 gennaio 1988 Damo Sergio, previa forzatura della porta d'ingresso si introduceva nell'abitazione di Stronghi Adolfo, impossessandosi di oggetti vari che caricava sulla propria autovettura Renault 20 DS targata VE 428465 parcheggiata poco distante dall'abitazione del derubato. Il Damo, in sede di immediate indagini di p.g., negava che la sua auto fosse in circolazione il giorno dei fatti e asseriva (si ignora in quale veste esaminato), che la stessa trovavasi ricoverata presso la carrozzeria del Trevisiol per riparazioni. A riprova di quanto affermato, esibiva una ricevuta fiscale. Sempre secondo l'esposizione del p.m. il Trevisiol nel confermare le dichiarazioni del Damo, ritenute menzognere, si sarebbe reso responsabile di favoreggiamento personale. Il p.m. all'esito della esposizione introduttiva chiedeva l'ammissione degli esami testimoniali di Stronghi Adolfo, parte offesa, e dei sottufficiali dei carabinieri Padiglione Carmine, Tonin Emilio e D'India Antonio che si erano occupati delle indagini. L'esame dei citati ufficiali di p.g., allorche' gli stessi si accingevano a dichiarare come e da chi avessero appresso circostanze evidenzianti le eventuali responsabilita' degli imputati, era ripetutamente interrotto per le opposizioni delle difese che eccepivano il divieto di deposizione de relato previsto dall'art. 195, n. 4, del c.p.p. Ne conseguiva che all'esito dell'istruttoria dibattimentale era pacificamente provata, in virtu' del divieto frapposto, solo l'avvenuta commissione del furto nell'abitazione, senza che fosse possibile conseguire ne' la prova ne' alcun elemento utile neppure a far comprendere, anche per il divieto di allegazione di qualsiasi atto delle indagini preliminari, sulla base di quali elementi i reati potessero essere, in via di mera ipotesi, attribuibili agli attuali imputati. D I R I T T O Premesso che deve darsi per scontato, o per lo meno cosi' dovrebbe ritenersi, che le indagini preliminari necessariamente hanno consentito di acquisire indizi e/o prove a carico dei prevenuti, dovendo presumersi che in caso contrario, il procedimento non sarebbe approdato alla fase del giudizio non puo' non sottolinearsi come il divieto di cui all'art. 195, n. 4, del c.p.p., nella fattispecie abbia impedito al p.m. che, per l'accertamento della fondatezza della pretesa punitiva, si avvale prevalentemente della polizia giudiziaria, di sottoporre alla valutazione del giudicante quanto gli organi di p.g. hanno appreso da terzi nel corso delle indagini. E' indubbio che il divieto normativo, prescindendosi da quelle che potranno essere le valutazioni finali sulla vicenda, impedendo, nella fattispecie, l'utilizzazione delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria da terzi nell'immediatezza, non consente al p.m. di portare a conoscenza del giudice elementi a fondamento dell'accusa. E' altrettanto indubbio che da tale divieto consegua una grave compromissione del diritto alla prova del p.m. cui compete di dimostrare la fondatezza dell'accusa che e' diretta conseguenza e corollario necessario del principio della obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale teso ad ottenere una pronuncia giurisdizionale su fatti astrattamente riconducibili a ipotesi criminose. Non essendo emerso nel caso concreto che alcun ufficiale di p.g. fu testimone oculare del fatto, deve verosimilmente ipotizzarsi che, sicuramente, qualcuno dei citati carabinieri abbia appreso da terzi circostanze utili alle indagini, non comprendendosi altrimenti come si sia potuto pervenire nel corso delle indagini preliminari alla individuazione dell'auto del Damo di cui fu rilevata la targa ed alla identificazione di quest'ultimo, dato che il derubato, assente dall'abitazione, nulla ha potuto riferire, prima alla p.g., e poi in dibattimento sugli autori del delitto. Orbene: il divieto posto dall'art. 195, n. 4, del c.p.p., secondo il quale gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni, finisce per costituire un ostacolo insormontabile, all'accertamento giudiziale della verita' cui non puo' non tendere anche il processo accusatorio in cui il diritto alla prova e', salvo rare deroghe, monopolio delle parti processuali la cui parita', e' pero' gravemente compromessa da tale divieto, a scapito del p.m., che di quelli organi istituzionalmente ed abitualmente si serve per la ricerca delle prove e per l'accertamento dei fatti. Il nuovo codice ha affrontato per la prima volta a livello normativo il problema della testimonianza indiretta nell'art. 195. Nel regolare l'istituto il legislatore ha fissato una serie di regole sulla utilizzabilita' delle dichiarazioni del testimone indiretto ed ha riconosciuto, in virtu' del generale disposto di cui all'art. 196, n. 1, la capacita' di testimoniare ad ogni persona. Tale capacita', riferita alla testimonianza indiretta, non e' riconosciuta per l'espresso divieto di cui si e' detto agli agenti e ufficiali di polizia giudiziaria dal disposto di cui al n. 4 dell'art. 195 del c.p.p. Ritiene questo giudicante che la scelta del legislatore di discriminare il teste, ufficiale di p.g., rispetto ai testi comuni cittadini, laddove entrambi possano riferire, de relato, circostanze utili sui fatti oggetto di prova e' illogica, irrazionale e incongruente. I lamentati vizi appaiono ancor piu' evidenti ove ci si soffermi a meditare che a quei soggetti incombe l'obbligo istituzionale di riferire la notizia di reato (art. 347 del c.p.p.), assicurare le fonti di prova (art. 348 del c.p.p.), identificare l'autore dei reati (art. 349 del c.p.p.), assumere sommarie informazioni oltre che dall'indagato (art. 350 del c.c.p.) anche da quelle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini (art. 351 del c.p.p.). Come si concilino queste attivita', peraltro penalmente sanzionate in caso di omissione, con il menzionato divieto di testimonianza indiretta non e' dato comprendere se non in una logica di eccesso di garantismo inconciliabile con il principio che la giurisdizione penale, naturale conseguenza dell'obbligatorieta' dell'azione penale, deve tendere il massimo possibile all'accertamento della verita' sostanziale. Non puo' non rilevarsi inoltre come nella fattispecie concreta, a fronte di una medesima situazione di fatto (la testimonianza de relato dell'ufficiale di p.g. non si discosta da quella del qualsiasi privato che ebbe ad apprendere fatti percepiti da testimoni diretti), la norma, di cui si denuncia l'illegittimita' costituzionale, crei una discriminazione ingiustificata ed irrazionale tra le due categorie di possibili testimoni con la conseguenza che in un caso il giudice potra' assumerla ed utilizzarne il contenuto, qualunque sara' la decisione di merito, mentre nell'altro gli viene preclusa aprioristicamente la possibilita' di acquisire elementi eventualmente utili alla decisione. Risultando identiche le due situazioni e dovendosi escludere che la qualita' di ufficiale di p.g. valga a differenziare le due categorie di soggetti-testimoni appare, ad avviso di questo giudicante, evidente come la diversa disciplina violi il principio di uguaglianza di tutti i cittadini, sancito dall'art. 3 della Costituzione. Secondo il costante insegnamento della Corte si ha violazione dell'art. 3 della Costituzione sia quando situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo diverso, non bastando una differenza meramente nominalistica per giustificare un trattamento discriminatorio, sia quando la norma risulta priva di coerenza intrinseca mancando di razionale giustificazione la diversita' di trattamento. Ritenuta la questione di costituzionalita' rilevante sulla decisione del presente procedimento e non manifestamente infondata.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara di ufficio rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 195, n. 4, del c.p.p., nella parte in cui e' fatto divieto agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria di deporre sul contenuto di dichiarazioni acquisite da testimoni; Ordina la sospensione del giudizio in corso; Manda alla cancelleria per la notifica della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri e per la comunicazione al Presidente della Camera e del Senato; Ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Venezia Mestre, addi' 16 maggio 1991 Il pretore: PAVONE 91C1026