N. 618 ORDINANZA (Atto di promovimento) 28 giugno 1991

                                N. 618
 Ordinanza emessa  il  28  giugno  1991  dal  tribunale  di  Roma  nel
 procedimento penale a carico di Rinversi Pierluigi ed altri
 Processo penale - Dibattimento - Coimputato giudicato separatamente
    (nella specie, per aver usufruito del rito abbreviato) e citato ai
    sensi  dell'art. 210 del c.p.p. - Sua comparizione e dichiarazione
    di avvalersi della facolta' di non rispondere  -  Divieto  per  il
    collegio  giudicante di procedere alla lettura delle dichiarazioni
    gia' rese al p.m. o al giudice durante le indagini  preliminari  o
    all'udienza   preliminare   -   Irrazionalita'   -  Disparita'  di
    trattamento  tra  imputati  di  reati  connessi  o   separatamente
    giudicati  che  non compaiono a dibattimento e quelli che, invece,
    comparsi, si rifiutano di rispondere - Irrazionale menomazione del
    potere-dovere del giudice di giudicare con conoscenza di tutte  le
    prove  e di motivare adeguatamente - Conseguente impossibilita' di
    un effettivo e concreto esercizio della giurisdizione penale.
 (Legge 16 febbraio 1987, n. 81, art. 2, n. 76; c.p.p. 1988, art. 513,
    secondo comma).
 (Cost., artt. 3, 24, 111 e 112).
(GU n.40 del 9-10-1991 )
                             IL TRIBUNALE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza  nel  procedimento  penale  a
 carico di Rinversi Pierluigi, Corigliano Stella, Rinversi Guglielmo e
 Carovillano Liliana, imputati:
       a)  del reato p. e p. dagli artt. 110, 423, 425, n. 2, perche',
 in concorso tra loro, cagionavano l'incendio dell'immobile  destinato
 ad uso di abitazione sito in via G.B. Gandino n. 53; con l'aggravante
 per  Rinversi  e  Corigliano  ex  art.  112,  n. 2, del c.p. per aver
 proposto ed organizzato la cooperazione del  reato.  In  Roma  il  18
 agosto 1990;
       b)  del reato p. e p. dagli artt. 113 e 586 del c.p. per avere,
 commettendo il reato di cui al capo a)  cagionato,  come  conseguenza
 non  voluta,  la  morte di Calisti Giovanna che decedeva a seguito di
 intossicazione da fumo riportata in occasione dell'incendio. In  Roma
 il 26 agosto 1990;
       c) del reato p. e p. dagli artt. 110 e 642 del c.p. perche', in
 concorso   tra   loro,   al   fine  di  conseguire  il  prezzo  della
 assicurazione, cagionavano l'incendio del  negozio  di  ferramenta  e
 tende da sole gestito da Corigliano Stella, con la aggravante ex art.
 112,  n. 2 per Rinversi e Corigliano, di aver promosso ed organizzato
 la cooperazione del reato. In Roma il 18 agosto 1990.
                           OSSERVA IN FATTO
    La sera del  18  agosto  1990  un  violento  incendio  distruggeva
 l'esercizio  commerciale  ubicato  in Roma, via G.B. Gandino n. 53 e,
 propagatosi  ai  negozi  contigui  ed  alle  soprastanti  abitazioni,
 provocava   danni   ai   rispettivi  proprietari.  Inoltre  il  fumo,
 sprigionatosi dall'incendio, provocava a Giovanna Calisti,  dimorante
 in  uno  degli  appartamenti, una intossicazione in conseguenza della
 quale la donna  decedeva  il  26  agosto  successivo.  A  seguito  di
 attivita' di indagini preliminari il p.m. esercitava l'azione penale,
 per  i  reati  indicati  in  premessa,  nei  confronti  degli odierni
 imputati,  nonche'  di  Massimo  D'Alessandro  e  Michele  Giampaolo,
 richiedendo il rinvio di tutti costoro al giudizio del tribunale.
    All'udienza preliminare il D'Alessandro ed il Giampaolo chiedevano
 la  definizione  del  processo  del  rito  abbreviato,  ottenendo  il
 consenso del  p.m.,  ed  il  giudice  per  le  indagini  preliminari,
 ritenuto  di  poter  decidere  allo  stato  degli  atti, disponeva in
 conformita' ai sensi degli artt. 438 e 440 del c.p.p.,  pronunciando,
 all'esito  della  discussione, sentenza di condanna dei due imputati,
 pei delitti loro contestati riuniti col vincolo della  continuazione,
 alla  pena  di anni tre, mesi sei di reclusione ciascuno, concesse ad
 entrambi  le  attenuanti  generiche  ed  applicata   la   diminuzione
 processuale a norma dell'art. 442 del c.p.p.
    Nei  confronti  degli  altri coimputati lo stesso g.i.p., conclusa
 l'udienza preliminare, disponeva, invece, il rinvio al  giudizio  del
 tribunale, con decreto in data 10 dicembre 1990.
    Il p.m. nei termini previsti dall'art. 468, primo coma, del c.p.p.
 richiedeva,    ed    otteneva    dal    presidente    del   collegio,
 l'autorizzazione, tra l'altro,  alla  citazione  dei  due  coimputati
 D'Alessandro  e  Giampaolo,  nei confronti dei quali si era proceduto
 separatamente, per essere esaminati ai sensi dell'art. 210 del c.p.p.
    Apertosi  il  dibattimento,  il  p.m.,  in  sede  di   esposizione
 introduttiva  ex  art.  439 del c.p.p., richiamando le fonti di prova
 indicate dal g.i.p. nel decreto di rinvio a giudizio - tra le  quali,
 le  confessioni  del  Giampaolo  e  del  D'Alessandro,  e le chiamate
 incorreita' dagli stessi effettuate - riferiva che i  due  coimputati
 giudicati separatamente col rito abbreviato avevano ammesso di essere
 stati  gli  esecutori  materiali dell'incendio, e che il D'Alessandro
 aveva  indicato  nel  Rinversi  Pierluigi   colui   che   gli   aveva
 commissionato  il  fatto: insisteva, pertanto, per l'acquisizione dei
 mezzi di prova gia' precisati nella richiesta ex art. 468 del c.p.p.,
 tra cui l'esame dei due ai sensi dell'art. 210 del c.p.p.
    All'udienza dibattimentale del 14  maggio  1991,  il  D'Alessandro
 compariva  assistito  dal  difesore  di  fiducia ma si avvaleva della
 facolta' di non rispondere, prevista dall'art. 210, quarto comma, del
 c.p.p. A questo punto il p.m. richiedeva di poter  produrre,  perche'
 se   ne   desse   lettura,  i  verbali  di  interrogatorio  resi  dal
 D'Alessandro al p.m. con la partecipazione del suo difensore,  ed  al
 g.i.p.,  all'udienza  di  convalida  del fermo, ritenendo in tal caso
 applicabile quanto previsto dall'art. 513, primo comma, del c.p.p.  I
 difensori  degli  imputati  si opponevano ed il collegio ne disponeva
 l'acquisizione.
                           RILEVA IN DIRITTO
    Osserva il collegio  che,  riconsiderata  d'ufficio  la  questione
 teste' indicata, il provvedimento di acquisizione degli interrogatori
 resi  dal D'Alessandro - imputato giudicato separatamente e citato ex
 art. 210 del c.p.p. - dovrebbe  essere  revocato  in  ottemperanza  a
 quanto espressamente disposto dall'art. 513, secondo coma, del c.p.p.
    Senonche',  appare al collegio la non manifesta infondatezza della
 questione di legittimita' costituzionale del citato art. 513, secondo
 comma, del c.p.p., nella parte in cui non consente  l'acquisizione  e
 la  lettura delle dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art.
 210 del c.p.p., nel caso in cui tale persona  compaia  e  si  avvalga
 della  facolta'  di  non  rispondere, e, altresi', la rilevanza della
 questione stessa ai fini della decisione  del  merito  delle  attuali
 imputazioni.
    Infatti, quanto alla rilevanza degli interrogatori e dichiarazioni
 resi  dal  D'Alessandro,  ai  fini della valutazione della fondatezza
 della  pretesa  punitiva,  e'   sufficiente   sottolineare   che   il
 D'Alessandro, come si e' gia' esposto, e' imputato degli stessi reati
 oggetto  del giudizio a crico degli odierni imputati, ed era imputato
 con gli  stessi  nel  medesimo  procedimento,  fino  alla  richiesta,
 davanti  al g.i.p., di "rito abbreviato", con conseguente separazione
 della propria posizione e definizione della stessa  con  la  sentenza
 del 10 dicembre 1990.
    Ora,  dal  testo  del  decreto  di  rinvio  a giudizio di Rinversi
 Pierluigi e degli  altri  tre  imputati,  nonche'  della  esposizione
 introduttiva  del  p.m.  ex  art.  493  del  c.p.p.,  il  collegio ha
 acquisito la notizia certa che il D'Alessandro, interrogato dal  p.m.
 a  norma  dell'art.  388  del  c.p.p.,  nonche' dal g.i.p. in sede di
 udienza di convalida del fermo,  ex  art.  391  del  c.p.p.,  avrebbe
 ammesso  la  sua  partecipazione  ai  fatti  criminosi, indicando nel
 contempo il Rinversi  Pierluigi  come  la  persona  che  gli  avrebbe
 commissionato  l'appiccamento  dell'incendio  al  negozio di via G.B.
 Gandino n. 53. Sembra,  percio',  evidente  che  la  possibilita'  di
 leggere e valutare a norma dell'art. 192 del c.p.p. quanto dichiarato
 dal  D'Alessandro  in  qualita' di imputato nel proprio procedimento,
 connesso al presente, sia  problema  di  primaria  rilevanza  per  il
 dovere-potere   di   questo   collegio   di   emettere  una  sentenza
 adeguatamente motivata sul fondamento delle imputazioni contestate al
 Rinversi Pierluigi e agli altri imputati.
    Peraltro,  e  si  passa  ai  profili  di  incostituzionalita'  non
 manifestamente  infondati,  la  possibilita'  di acquisire e valutare
 tali interrogatori e dichiarazioni  sembra  preclusa  dall'inequivoco
 significato  letterale  della  formulazione  adottata dal legislatore
 delegato  nell'art.  513,  secondo  comma,  del   c.p.p.   Inequivoco
 significato  letterale  che,  oramai  fatto  proprio  da  parte della
 dottrina  e  dalla  prima  pronuncia  della  suprema  Corte  nota  in
 argomento (Cass. sez. VI, 24 aprile 1991, n. 783, ric. Casula) impone
 al  collegio  la  remissione  degli  atti  alla Corte costituzionale,
 apparendo  fondato  il  sospetto  di  illegittimita'   costituzionale
 dell'art.  513,  secondo  comma,  nella interpretazione letterale - e
 necessitata - allo stesso attribuibile secondo  gli  ordinari  canoni
 ermeneutici.
    La lettura dell'intero art. 513 del c.p.p., alla luce della regola
 generale  sulla  valutazione delle dichiarazioni del coimputato nello
 stesso reato ovvero di reato connesso, dettata dall'art.  192,  terzo
 comma, del c.p.p., e' sufficiente per far apprezzare con immediatezza
 la  incongruita'  immotivata  -  e  quindi  la  irragionevolezzae  la
 violazione dell'art. 3 della Costituzione - della mancata previsione,
 nell'ultimo periodo del secondo comma dell'art. 513 del c.p.p., della
 possibilita' di dar lettura dei verbali contenenti  le  dichiarazioni
 rese  dalle  persone  indicate nell'art. 210 del c.p.p., non solo nel
 caso - espressamente e unicamente previsto dalla norma de  quo  -  di
 impossibilita'  di  avere la presenza del "dichiarante", ma anche nel
 caso - come quello di specie (che  e'  anche  quello  statisticamente
 piu'  frequente nei processi contro la criminalita' organizzata) - in
 cui il "dichiarante" compaia, ma dichiari  di  non  voler  rispondere
 alle domande.
    E'  opinione  diffusa che le norme sulla lettura abbiano carattere
 eccezionale  nel  nuovo  processo  penale,   e   quindi   non   siano
 suscettibili  di  interpretazione  analogica:  non puo' che prendersi
 atto della formulazione del secondo comma dell'art. 513  del  c.p.p.,
 che,  nel  suo  chiaro  e  inequivoco tenore letterale, non autorizza
 questo collegio a supplenze interpretative e detta una disciplina del
 tutto  diversa  da  quella  prevista  dal   primo   comma,   per   le
 dichiarazioni  rese dagli imputati nel proprio procedimento, la' dove
 e'  espressamente  prevista  la  acquisizione  e  la  lettura   delle
 dichiarazioni  rese  in  precedenza dal contumace o dall'imputato che
 rifiuta di sottoporsi all'esame; cosi' come non  puo'  che  prendersi
 atto  della  differenziazione  di  trattamento, prevista nello stesso
 secondo comma, tra gli imputati di  reati  connessi  o  separatamente
 giudicati  la cui presenza non si possa ottenere, e quelli che invece
 compaiono, ma fanno scena muta: nel primo caso le dichiarazioni  rese
 in  precedenza sono acquisibili; nel secondo caso non lo sono, stante
 la  formulazione  attuale  della  norma   che   non   lascia   spazio
 all'interprete ordinario.
    E  allora,  e'  piu'  che  giustificato domandarsi se una siffatta
 differenziazione tra imputati, coimputati,  coimputati  separatamente
 giudicati,   e  imputati  di  reati  connessi,  abbia  una  razionale
 giustificazione in una obiettiva differenza di situazioni processuali
 e sostanziali, ovvero se la discriminazione - sia essa frutto di  una
 mal  coordinata  formulazione  normativa  o di una precisa scelta del
 legislatore delegato -  si  presenti  come  ingiustificata  sotto  il
 profilo razionale e si traduca percio' in una irrazionale menomazione
 del  potere-dovere  del  giudice penale di giudicare conoscendo, e di
 motivare adeguatamente  la  valutazione  delle  prove  legittimamente
 previste   dalla   norma  processuale  e  altrettanto  legittimamente
 acquisibili al processo.
    Orbene, non  pare  al  collegio  che  sussista  quella  differenza
 sostanziale  di  posizione che giustifichi un trattamento processuale
 diverso, quanto alle letture, tra imputati (e coimputati del medesimo
 processo) e imputati del medesimo reato, ma separatamente processati,
 ovvero  imputati di reati connessi: non vi e' dubbio, infatti, che si
 tratta sempre di persone cui viene mosso un addegito di reato  e  che
 hanno,  quindi,  una  particolare  veste  e interesse processuale per
 rendere dichiarazioni sul fatto che viene loro addebitato, insieme ad
 altri e di soggetti, infine, che hanno reso la loro dichiarazione con
 tutte le particolari cautele e garanzie previste dal codice di  rito.
 Non basta: non pare che sussista, poi, nessuna differenza sostanziale
 tra  le  ipotesi previste nel secondo comma dell'art. 513 del c.p.p.:
 infatti non e' dato comprendere perche', se  il  dichiarante  non  e'
 piu' reperibile ovvero, comunque, non si riesce a portarlo davanti al
 giudice,  le  dichiarazioni rese in precedenza possono essere lette e
 valutate, mentre invece se compare e non vuole  piu'  parlare,  tutto
 cio'  che  e'  stato legittimamente acquisito in precedenza non possa
 essere acquisito  e  debba  essere  sottratto  alla  valutazione  del
 giudice.
    Dunque,  non  solo  non  esistono  ragioni  sostanziali valide per
 distinguere   tra   le   posizioni   teste'   indicate,    ma    tale
 differenziazione   appare   ancora   piu'  incongrua  -  e  fonte  di
 ingiustificata  disparita'  di  trattamento  e  di   irragionevolezza
 normativa  -  se  si  tengono  presenti le norme generali dettate dal
 codice di rito in tema di valutazione delle prove.
    Infatti, il nuovo  codice  mostra  chiaramente  di  respingere  il
 principio  della  inutilizzabilita'  ex  lege delle dichiarazioni del
 coimputato dello stesso reato ovvero di reato  connesso  e  giudicato
 separatamente: anzi, detta la regola generale che dette dichiarazioni
 possono  essere  utilizzate  purche' riscontrate da elementi di prova
 che ne confermino l'attendibilita': art. 192, terzo comma, del c.p.p.
    Si tratta di una regola generale, che, tra  l'altro  equipara  gli
 imputati  del  medesimo processo (e coimputati in senso stretto) agli
 imputati di reato connesso.  Ebbene,  dopo  aver  posto  tale  regola
 generale,  l'incongrua  formulazione  della  ultima parte del secondo
 comma dell'art.  513  del  c.p.p.  viene  a  vanificare  la  concreta
 operativita' della regola generale teste' ricordata, impedendo (e, si
 ripete,  sono i casi piu' frequenti nei procedimenti piu' gravi, come
 quelli contro  la  criminalita'  organizzata)  al  giudice  di  poter
 compiere tale valutazione allorche' il medesimo soggetto processuale,
 ossia il coimputato di reato connesso, e separatamente giudicato, non
 si  sia  comunque  sottratto  alla comparizione, bensi' sia comparso,
 decidendo pero' di non rispondere piu' ad ulteriori domande.
    In tal modo viene irrazionalmente ed arbitrariamente scriminata la
 posizione del coimputato ex art. 210 del  c.p.p.  rispetto  a  quella
 dell'imputato  nel  giudizio in corso - il quale sa che, rifiutandosi
 di sottoporsi all'esame, richiesto da una delle parti ed ammesso  dal
 giudice,  non  riuscira' ad impedire che, a richiesta di parte, possa
 darsi  lettura  delle  sue  dichiarazioni  e  si  possa  fare   piena
 utilizzazione  delle  stesse  ai  fini  del  giudizio  nel merito. Il
 differente regime delineato dal nuovo codice di rito ha, infatti, per
 presupposto  due  contegni  processuali  sostanzialmente  simili,  ed
 ambedue concretantisi nel rifiuto di rendere l'esame.
    Ancora  piu'  evidente  e'  l'arbitrarieta'  della discriminazione
 prevista nell'ambito dello stesso secondo  comma  dell'art.  513  del
 c.p.p.  ove  viene  diversamente  disciplinata la acquisibilita' e la
 lettura delle dichiarazioni rese dallo stesso soggetto, a seconda che
 costui  sia o meno comparso in dibattimento, consentendosi la lettura
 solo se le ricerche e le citazioni - per qualunque ragione, anche  la
 volontaria  irreperibilita'³  - non conseguono effetto, ma vietandosi
 le letture se invece il soggetto compare e dichiara di non voler piu'
 rispondere; non solo in tal modo si finisce per attribuire una  sorta
 di  potere  dispositivo delle proprie dichiarazioni, legalmente rese,
 che a nessuno, e meno che mai all'imputato, e' consentito dal  codice
 di  procedura,  ma,  in  ogni  caso si subordina la valutazione di un
 aprova ad  una  discriminazione  tra  posizioni  che  non  ha  alcuna
 giustificazione  razionale.  Dunque,  assoluta  ingiustificatezza del
 diverso trattamento riservato a posizioni identiche o  analoghe,  con
 intrinseca contraddizione ai principi generali dettati da altre norme
 dello  stesso  codice;  non  sembra  percio'  infondato  il dubbio di
 violazione dell'art. 3 della Costituzione.
    Tale arbitraria ed ingiustificata  diversita'  di  trattamento  si
 risolve,  inoltre,  in  una  inammissibile compressione dei poteri di
 cognizione del giudice nell'esercizio  della  giurisdizione,  sebbene
 questi,  nel  valutare  le  dichiarazioni  rese  dal coimputato dello
 stesso reato ovvero di reato  connesso,  e  giudicato  separatamente,
 debba   compiere   una   obbligatoria   attivita'   di  verifica,  in
 applicazione della regola di valutazione  dettatagli  dall'art.  192,
 terzo  comma,  del  c.p.p.,  e  quindi, non possa riconoscere valenza
 probatoria a tali dichiarazioni in  se',  ma  unitamente  agli  altri
 elementi di prova che ne corroborino l'attendibilita'.
    In  altri  termini,  il  particolare criterio di valutazione della
 prova, imposto al giudice dal surrichiamato art.  192,  terzo  comma,
 del  c.p.p.,  pena  la rilevabilita' anche d'ufficio, in ogni stato e
 grado del procedimento, della sua violazione (art. 191  del  c.p.p.),
 nel caso del coimputato comparso ai sensi dell'art. 210, terzo comma,
 del c.p.p. che si rifiuta di rispondere, non ha modo alcuno di essere
 applicato,   poiche'   e'   inibita   la  stessa  acquisizione  delle
 dichiarazioni rese dal  coimputato  nel  processo  separato:  con  la
 conseguenza  che la giurisdizione, del giudice, in questo particolare
 caso, sebene disciplinata da una  regola  generale  ed  obbligatoria,
 presidiata  da  una sanzione processuale, non ha il minimo spazio per
 essere esercitata.
    Pare, dunque, al tribunale che il  congegno  normativo  introdotto
 dall'art.   513,  secondo  comma,  del  c.p.p.  in  attuazione  della
 direttiva n. 76 dell'art.  2  della  legge  delega  n.  81/1987,  sia
 viziato  da  violazione  dell'art.  3  della Costituzione, nonche' da
 violazione del principio  di  costituzione  materiale  sotteso  dagli
 artt.  24  e  112 della Costituzione e che puo' essere sinteticamente
 indicato come l'esigenza fondamentale dello Stato - cui corrispondono
 legittime aspettative dei cittadini -  di  assicurare  l'effettivo  e
 concreto esercizio della giurisdizione penale.
    Di    non   minore   rilievo   appare,   infine,   una   ulteriore
 considerazione: l'applicazione della prescrizione normativa,  dettata
 dall'art.  513,  secondo  comma, del c.p.p. realizza, in concreto, un
 condizionamento, razionalmente ingiustificato, dello stesso esercizio
 della funzione giurisdizionale anche sotto il profilo dell'art.  111,
 primo  comma,  della Costituzione, poiche' il divieto di acquisire le
 dichiarazioni del coimputato citato ai sensi dell'art. 210 del c.p.p.
 - che, comparendo, si rifiuta di rispondere - contenenti  riferimenti
 a  fatti rilevanti ai fini della decisione, comporta l'impossibilita'
 di una corretta ed adeguata motivazione della decisione. In tal  caso
 il  giudice  si  trovera'  a  decidere  costretto ad ignorare aspetti
 decisivi  del  fatto  portato  alla  sua  cognizione,  e  non  potra'
 soddisfare appieno l'esigenza di una motivazione completa e immune da
 vizi logici (art. 606, primo comma, lett. e) del c.p.p.).
    Le considerazioni che precedono inducono, pertanto, a sollevare ex
 officio  la  questione  di  illegittimita' costituzionale degli artt.
 513, secondo comma, del c.p.p. e dell'art. 2, n. 76), della legge  16
 febbraio  1987, n. 81, in relazione agli artt. 3, 24, primo e secondo
 comma, 111  e  112,  della  Costituzione,  nei  sensi  e  termini  in
 precedenza denunciati.
                               P. Q. M.
     Visti gli artt. 23 e segg. della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Ritiene  rilevante  e non manifestamente infondata la questione di
 legittimita' costituzionale degli artt. 2, n.  76),  della  legge  16
 febbraio  1987, n. 81 e 513, secondo comma, del c.p.p. per violazione
 degli  artt.  3,  24,  primo  e  secondo  commma,  111  e  112  della
 Costituzione,  nella  parte  in  cui  vietano che possa darsi lettura
 delle dichiarazioni rese  al  p.m.  o  al  giudice  nel  corso  delle
 indagini  preliminari  o all'udienza preliminare, da coimputato dello
 stesso reato o di reato connesso, giudicato separatamente e citato ai
 sensi dell'art. 210 del c.p.p., qualora lo stesso, comparso, dichiari
 di volersi avvalere della facolta' di non rispondere;
    Manda  alla  cancelleria  la  notificazione  alla  Presidenza  del
 Consiglio  e la comunicazione alle Presidenza del Senato e della Cam-
 era dei deputati della presente ordinanza;
    Sospende il procedimento penale a carico di Rinversi Pierluigi  ed
 altri;
    Dispone  la  trasmissione alla Corte costituzionale degli atti del
 procedimento e della presente ordinanza, unitamente alla prova  delle
 avvenute notificazioni e comunicazioni sopra indicate.
    Cosi'  deciso  nella  camera di consiglio della III sezione penale
 del tribunale di Roma, il 28 giugno 1991.
                         Il presidente: MILLO

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