N. 650 ORDINANZA (Atto di promovimento) 1 agosto 1991

                                N. 650
      Ordinanza emessa il 1  agosto 1991 dal tribunale di Pesaro
           nel procedimento penale a carico di Paolini Paolo
 Reati tributari - Sostituti d'imposta - Omesso versamento delle
    ritenute  d'acconto - Applicabilita' della nuova e piu' favorevole
    disciplina   subordinata   alla   previa   "regolarizzazione"   da
    effettuarsi  nei  termini  stabiliti  dall'art.  8  della legge 15
    maggio 1991, n. 154 - Obbligatorieta' di tale procedura anche  nei
    casi  in  cui  la  pendenza tributaria sia stata gia' definita per
    avere il soggetto versato al fisco  quanto  dovuto  -  Conseguente
    previsione  di  un  esborso aggiuntivo, imposto successivamente ed
    indipendentemente dalla vicenda tributaria - Irragionevolezza  con
    incidenza sul principio della capacita' contributiva.
 (D.-L. 16 marzo 1991, n. 83, art. 7, secondo comma, convertito in
    legge 15 maggio 1991, n. 154).
 (Cost., artt. 3 e 53).
(GU n.42 del 23-10-1991 )
                             IL TRIBUNALE
    Visti  gli atti del procedimento penale contro Paolini Paolo, nato
 a Ripe il 17 gennaio 1953, residente a Mondolfo, via Buona  Costa  n.
 2/A,  difensore avv. Sergio Gori di Pesaro, imputato del delitto p. e
 p. dall'art. 2, ultimo comma, del  d.-l.  10  luglio  1982,  n.  429,
 convertito  in  legge  7  agosto  1982,  n.  516, per avere nella sua
 qualita' di legale rappresentante della  ditta  Paolini  Paolo  e  di
 sostituto d'imposta omesso di versare nei termini di cui agli artt. 7
 e  8  del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembrre 1973,
 n. 602 e successivamente, le ritenute di acconto effettivamente oper-
 ate e come dichiarazione nel modello  770/85.  Accertato  da  ufficio
 finanziario nel circondario di Pesaro.
    Ritenuto  che  la sospensione del processo, disposta con ordinanza
 collegiale del 16 gennaio 1991 in ossequio  alla  previsione  di  cui
 all'art. 8, sesto comma, del d.-l. 14 gennaio 1991, n. 7, e' venuta a
 cessare  in data odierna, alla stregua di quanto disposto dal secondo
 comma dell'articolo unico della legge 15 maggio 1991, n. 154;
    Dato atto che il difensore  dell'imputato  ha  dato  comunicazione
 della  mancata  utilizzazione  della procedura di regolarizzazione di
 cui al predeto art. 8, reiterata dall'art. 8 del d.-l. 16 marzo 1991,
 n. 93, convertito nella legge 15 maggio 1991, n. 154;
    Rilevato che in sede di interrogatorio l'imputato Paolini  ebbe  a
 documentare  di avere effetuato in data 11 novembre 1987 a seguito di
 ruolo esattoriale il versamento di L.  108.000 di ritenute d'acconto,
 non versate nel dicembre 1984 e di cui all'imputazione,  e  di  altre
 somme  per sanzioni pecuniarie, soprattasse e interessi, il tutto per
 complessive L. 200.000;
                             O S S E R V A
    L'art. 7 del d.-l. 16 marzo 1991, n. 83, sulla repressione  penale
 delle violazioni tributarie, convertito con modificazioni nella legge
 15  maggio  1991,  n. 154, prevede espressamente, al 1º comma, che le
 nuove  norme  penal-tributarie  non  abbiano  efficacia  retroattiva,
 ipotizzando  tuttavia, al secondo comma, una deroga limitata a taluni
 reati (art. 1, sesto comma, e art. 2, secondo e  terzo  comma,  della
 legge  n.  516/1982;  art.  3, sesto comma, della legge 17/1985) ed a
 taluni imputati ed esattamente  a  coloro  che  provvedono  entro  il
 termine  del  31  luglio  1991 ad esperire una specifica procedura di
 "regolarizzazione" prevista dal successivo art. 8: per tali persone e
 per tali reati viene sancita l'applicabilita'  del  secondo  e  terzo
 comma   dell'art.   2   del  c.p.,  vale  a  dire  la  retroattivita'
 dell'eventuale abolitio criminis e dell'eventuale legge modificatrice
 piu' favorevole, il tutto in  dichiarata  deroga  all'art.  20  della
 legge  7  gennaio  1929,  n.  4  che, come e' noto, afferma l'opposta
 regola dell'ultrattivita' della legge finanaziaria penale.
    L'art. 8 disciplina la  detta  "regolarizzazione"  richiamando  in
 vita  la  procedura  di  sanatoria  delle irregolarita' c.d. formali,
 regolata dall'art. 21 del d.-l. 2 marzo 1989, n. 69,  convertito  con
 modificazioni  nella  legge  27  aprile  1989,  n. 154, con la quale,
 versando un milione di lire per  ogni  anno  d'imposta,  si  otteneva
 appunto  la  "estinzione"  ad ogni effetto, penale ed amministrativo,
 del contenzioso fiscale sottostante.
    La sanatoria novellata dall'art. 8 della legge n. 154/1991 prevede
 invece effetti diversi in sede  penale  ed  in  sede  amministrativa:
 mentre infatti, quanto agli effetti amministrativi, viene ripetuta la
 previsione  di  piena regolarizzazione fiscale con eliminazione delle
 sanzioni accessorie residue e delle procedure ancora  in  corso,  per
 gli   effetti   penali   non   viene  dettata  alcuna  previsione  di
 regolarizzazione o di estinzione del  contenzioso  penale,  ma  viene
 dettata  soltanto  una  previsione, neutra nel merito, di mero rinvio
 normativo, nel senso che la mancata utilizzazione della procedura  di
 sanatoria  comportera',  come  di  regola, l'applicazione della legge
 penale  pregressa,  mentre  l'effettuazione  della  sanatoria  e  del
 relativo  pagamento comportera', in linea di deroga, l'applicabilita'
 della legge penale piu' favorevole fra quella vecchia e quella nuova.
    In pratica gli effetti penale  della  sanatoria  fiscale  potranno
 evidenziarsi  sia  in  termini  di  impunita'  penale per l'eventuale
 abolitio criminis, sia soprattutto in termini di  applicazione  della
 norma  modificatrice  piu'  favorevole al reo in concreto, secondo il
 consolidato  criterio  giurisprudenziale  che  fa  riferimento   alla
 normativa  che,  considerata  integralmente,  rechi minor pregiudizio
 all'imputato nella sua applicazione pratica sia in ordine  alla  pena
 principale  che  a  quelle  accessorie ovvero alle scriminanti o alle
 cause di  giustificazione  o  comunque  a  qualsiasi  mutamento  (lex
 mitior)  di  diritto  penale  sostanziale.  L'applicazione  di questa
 normativa, che nella pratica giudiziaria e' stata gia' definita  come
 "retroattiva  a pagamento", puo' dunque portare nei vari casi e per i
 reati di cui e' riferibile ex art. 7, secondo comma, della  legge  n.
 154/1991,  al  riconoscimento  di  una  depenalizzazione  retroattiva
 eventualmente operante anche su condanne gia'  passate  in  giudicato
 ovvero  a riconoscere applicabile l'una o l'altra normativa o l'una o
 l'altra sanzione per la medesima condotta criminosa storica,  in  una
 ricca  casistica  che  sta  gia'  emergendo  sulle riviste giuridiche
 specializzate, sicche'  all'imputato  viene  offerto  di  pagare  per
 ottenere,  non  tanto o non solo l'impunita' penale, ma, in concreto,
 una data sanzione minore.
    L'ipotesi e' assolutamente nuova  e  senza  precedenti  nella  pur
 vasta  tipologia  della  vente  d'indulgences con la quale si crea di
 incentivare con  benfici  penali  la  regolarizzazione  di  posizioni
 fiscali  pregresse  ed  i  connessi esborsi: non si tratta infatti di
 benefici penali veri e propri,  non  prevedendosi  ne'  amnistie  ne'
 indulti ne' altre forme di estinzione del reato o della pena e non si
 tratta    neppure    di   regolarizzazione   penale   conseguente   a
 regolarizzazione fiscale (come si fece con gli altri artt.  14  e  21
 della  legge  154/1989)  giacche',  come  si  e' visto, non sempre si
 ottiene l'impunibilita'  penale.  Si  tratta  invece,  formalmente  e
 sostanzialmente,  di  una deroga ad una norma eccezionale, deroga che
 tuttavia consiste nel ripristino della  norma  generale:  infatti  la
 deroga  all'art.  20  della  legge  n.  4/1929, norma eccezionale che
 sancisce  l'ultrattivita'  della  legge  penale  finanziaria,   viene
 espressamente  formulata  come  ripristino,  a  domanda  ed  a titolo
 oneroso, della norma generale, vale a dire  dell'art.  2,  secondo  e
 terzo  comma,  del  c.p.  sulla  retroattivita'  della  legge  penale
 favorevole.
    La nuova disciplina pone al collegio  il  dubbio  se  il  richiamo
 all'art.   20   della   legge   n.  4/1929  e,  conseguentemente,  la
 volontarieta' e l'onerosita'  del  ripristino  della  norma  generale
 possano  ritenersi  costituzionalmente  legittimi  agli  artt. 3 e 53
 della Costituzione.
    Premesso che la questione e' sicuramente  rilevante  nel  caso  di
 specie  in  quanto  all'imputato  risulterebbe  molto piu' favorevole
 l'applicazione, nel senso che il fatto non  e'  piu'  preveduto  come
 reato,  della  norma penale nuova, applicazione preclusa, allo stato,
 dal mancato esperimento della procedura  di  "sanatoria",  rileva  il
 collegio che la questione non appare manifestamente infondata, atteso
 che  ogni  riferimento  all'art. 20 ed all'ultrattivita' ivi sancita,
 per essere costituzionalmente legittimo  deve  risultare  fondato  su
 esigenze  tributarie  astrattamente  riconducibili  all'art. 53 della
 Costituzione.
    La giurisprudenza della Corte costituzionale, infatti,  fin  dalla
 sentenza  n.  45/1963  ha  chiaramente affermato ed ha poi piu' volte
 ribadito (sentenze nn. 164/1974, 43/1975, 6/1978) che  la  deroga  al
 principio  di  eguaglianza che si concreta nella previsione dell'art.
 20  della  legge  n.  4/1929  di  ultrattivita'  della  legge  penale
 finanziaria  puo'  ritenersi  costituzionalmente  legittima  solo  in
 quanto la divesita' di trattamento  in  materia  tributaria  rispetto
 alla   regola   generale  della  retroattivita'  della  legge  penale
 favorevole trovi specifica  giustificazione  nell'interesse  primario
 alla  riscossione  dei  tributi,  costituzionalmente differenziato ex
 art.  53   della   Costituzione   e   pertanto   idoneo,   in   linea
 costituzionale, a legittimarne una tutela particolare differenziata.
    Per  un  verso pertanto il principo di eguaglianza viene ad essere
 vulnerato ogni volta che la deroga ai  principi  comuni  in  tema  di
 retroattivita'  delle  norme  penali  favorevoli  non  trovi adeguata
 giustificazione in interessi di pari rilevanza costituzionale  e,  pe
 altro  verso,  l'interesse  che  deve  sorreggere  ogni  applicazione
 dell'art. 20 della legge  n.  4/1929  non  puo'  essere  strettamente
 agganciato  ai  principi  di cui all'art. 53 della Costituzione, dato
 che nel diritto penale comune la retroattivita' ad istanza  di  parte
 ed  a  titolo  oneroso  sicuramente confliggerebbe con l'art. 3 della
 Costituzione.
    Nella  disciplina  in  esame   un   siffatto   aggancio   parrebbe
 puntualmente   realizzato  attraverso  la  previa  "regolarizzazione"
 fiscale: nel contesto di misure tutte  finalizzate  al  conseguimento
 del  petitum  fiscale,  anche  la regola dell'art. 20, della legge n.
 4/1929 risulterebbe invocata a ragion  veduta  operando  essa,  nella
 specie  in linea di deroga, ma pur sempre per il raggiungimento di un
 fine riconducibile alla previsione dell'art. 53 della Costituzione.
    A ben vedere tuttavia la "sanatoria" di cui si  tratta  ha  natura
 fiscale  solo  apparente  e cio' in quanto la sua rilevanza penale e'
 stata disciplinata indipendentemente dalla vicenda fiscale:  difatti,
 se  in  sede  fiscale  la "sanatoria" opera comunque dove c'e' poco o
 nulla da sanare, essa e' invece dovuta ai fini penali  a  prescindere
 dagli  interessi fiscali ed anche da chi non abbia nulla da sanare in
 sede tributaria.
    Le violazioni tributarie cui fa riferimento l'art. 8  della  legge
 n.  154/1991  sono  infatti  indicate  mediante  espresso richiamo di
 quelle elencate dall'art. 21 della legge n. 154/1989 ed ivi  definite
 come  violazioni  formali  che  non incidono sulla determinazione del
 debito d'imposta non comportano  evasioni  d'imposta.  Pertanto,  per
 definizione  normativa, si tratta di ipotesi in cui non c'e' evasione
 d'imposta  e   l'interesse   tributario   principale   risulta   gia'
 sostanzialmente  soddisfatto.  Nella  pratica peraltro, come nel caso
 dell'odierno imputato, il fisco era stato  integralmente  soddisfatto
 anche   di   ogni   altra  pretesa  accessoria  a  quella  tributaria
 (interessi, soprattasse, pene pecuniarie, ecc. ) e,  nel  momento  in
 cui  e'  intervenuta  la nuova normativa penale, non residuava alcuna
 pretesa tributaria, diretta o indiretta. Anche prescindendo dai  casi
 concreti,  le  ipotesi  legislative  astratte sono qualificate dunque
 dalla mancanza di contenzioso in punto d'imposta e dalla presenza  di
 situazione tributarie gia' definite.
    A  ben  vedere  e' proprio questa la ragione che ha consigliato il
 legislatore ad aprire una breccia nel muro  dell'ultrattivita'  della
 legge  penale  finanziaria  nell'assunto  che le ragioni dell'art. 20
 della legge n. 4/1929, una volta conseguito  lo  scopo  di  garantire
 l'interesse  tributario  sostanziale, ben potessero dirsi superare ed
 essere dunque  derogare  e  che  la  permanenza  di  pretese  fiscali
 accessorie  e residuali in quanto tali non potesse risultare comunque
 ostativa.
    La disamina di tutte le ipotesi emergenti dal  combinato  disposto
 degli  artt. 8, della legge n. 154/1991 e 21, della legge n.154/1989,
 disanima inattuabile nella  presente  sede,  confermerebbe  la  ratio
 predetta.
    In  realta' il legislatore e' andato ben oltre, disegnando ipotesi
 nelle  quali  la  "sanatoria"  e'  richiesta  ai  puri  fini  penali,
 prescindendo   anche  dall'esistenza  e  dall'attualita'  di  pretese
 tributarie come tali. Si pensi alla previsione in  cui  (art.  8)  il
 termine  per  la domanda di sanatoria e' fissato con riferimento alla
 data di notifica dell'avviso di garanzia, vale a dire  con  esclusivo
 riferimento  all'iter del processo penale. Si pensi anche all'ipotesi
 in cui la domanda di sanatoria tenda a
  giovarsi dell'abolito  criminis  che  travolge  anche  il  giudicato
 penale ex art. 2, secondo comma, del c.p.: l'istanza di sanatoria per
 conseguire  un  siffatto  effetto  e'  oggi dovuta persino da chi sia
 stato condannato penalmente  per  tardiva  vidimazione  di  un  libro
 contabile,  non  piu' compreso nell'elencazione di cui al nuovo testo
 dell'art. 1, sesto comma,  della  legge  n.  516/1982,  risalente  al
 gennaio 1983 ed ormai fiscalmente immemorabile.
    Decisiva  nel  chiarire  il senso vero della "sanatoria" e' quella
 parte dell'art. 8 che si premura di precisare che la regolarizzazione
 non e' consentita, neppure ai fini fiscali, quando  le  violazioni  o
 irregolarita'  formali  "siano altresi' previste come reato" da norme
 penali diverse da  quelle  menzionate  nell'art.  7,  secondo  comma.
 Pertanto  la  irregolarita'  potra' essere sanata fiscalmente solo se
 essa si  riferisca  unicamente  a  reati  "sanabili",  mentre  se  si
 riferisce  anche  a  reati non sanabili, anche la sanatoria meramente
 fiscale ne viene preclusa. In pratica dunque la  sanatoria  "fiscale"
 non  si  puo'  fare ai soli fini fiscali e non si puo' fare neppure a
 fini penali generici: si puo' fare a fini penali specifici per  certi
 e  determinati  reati e sempre che non concorrano con altri reati. Il
 che rende assolutamente evidente che  non  di  sanatoria  fiscale  si
 tratta,   ma   di   sanatoria   penale   mirata  e  mascherata,  solo
 eventualmente coincidente  con  pendenze  fiscali  per  irregolarita'
 formali.
    Il  riferimento  alll'art.  20  della  legge  4/1929, sul quale la
 disciplina  si  impernia  per  motivarne  la  deroga  attraverso  una
 asserita prestazione tributaria aggintiva, conserva forse in tal modo
 una giustificazione in termini di legitimita' costituzionale?. L'art.
 20  nella  specie  e'  stato  invocato ed utilizzato a proposito, per
 garantire  "l'interesse  primario  alla   riscossione   dei   tributi
 costituzionalmente   protetto   e  differenziato  ex  art.  53  della
 Costituzione" ovvero e' stato strumentalizzato a fini diversi?.
    L'ambito di legittimita' costituzionale dell'art. 20  della  legge
 n.  4/1929  non  puo'  che essere inteso restrittivamente come e' per
 ogni deroga ai principi generali e per ogni  norma  eccezionale:  del
 resto  proprio  la  Corte  costituzionale  ne  ha gia' dato reiterate
 letture restrittive, con la sentenza n. 43/1975 in materia di tributi
 locali  e  soprattutto  con  la  sentenza  n. 6/1978 in tema di norme
 penali generali.
    Peraltro se il legislatore ha positivamente sancito in certi  casi
 l'applicazione   della   regola   generale   (art.   2   del   c.p.),
 l'utilizzazione dell'art. 20 della legge n.  4/1929  per  imporre  in
 questi casi prestazioni "sananti" deve essere misurata in base ad una
 lettura  rigorosa  del  suo aggancio costituzionale all'art. 53 della
 Costituzione se, come si e' visto, la c.d. sanatoria  fiscale  e'  in
 realta'  una  "sanatoria"  solo penale vuoi in ragione della pochezza
 degli interessi tributari coinvolti vuoi soprattutto in ragione della
 sua autonomia della vicenda fiscale, se ne evince  che  il  pagamento
 della somma di un milione per anno per fruire di una normativa penale
 migliore  non trova giustificazione in interessi rilevanti ex art. 53
 della  Costituzione:  il  che  rende  ultronea   ogni   utilizzazione
 dell'art.  20  della  legge  n.  4/1929 per qualificare la disciplina
 cosi'  dettata.  Non  si  vuole  qui  riproporre  la   questione   di
 costituzionalita'  dell'art.  20 della legge n. 4/1929, ancora aperta
 in dottrina: si vuole  soltanto  proporre  una  questione  di  limiti
 costituzionali  all'utilizzazione  del principio codificato in quella
 lontana norma.
    Il dubbio di costituzionalita' attiene dunque  principalmente,  ad
 avviso del collegio, al richiamo che, per i casi ed i reati di cui al
 secondo  comma  dell'art.  7  della  legge  n.  154/1991, viene fatto
 all'art.  20  della   legge   n.   4/1929,   richiamo   probabilmente
 ingiustificato  ex  art.  53  della  Costituzione.  Conseguentemente,
 esclusa questa motivazione,  non  se  ne  ravvisano  altre  idonee  a
 giustificare  la disparita' di trattamento penale rilevante ex art. 3
 della Costituzione fra chi abbia chiesto e pagato  la  "sanatoria"  e
 chi non lo abbia fatto.
    Appare   peraltro   inammissibile,   in   linea   di   eguaglianza
 costituzionalmente doverosa  anche  nei  confronti  degli  autori  di
 reati,  che  la medesima identica situazione tributaria gia' definita
 ed esaurita, riferita al medesimo  pregresso  periodo  d'imposta  (ad
 esempio  quella  del  caso  in  esame ed altra identica il cui autore
 abbia  effettuato  la  "sanatoria")   comporti   conseguenze   penali
 radicalmente  diverse  sol  perche' non si e' ritenuto o si e' invece
 ritenuto,  di  ottemperare  ad   un   esborso   aggiuntivo,   imposto
 successivamente  e  distintamente  e  indipendentemente dalla vicenda
 tributaria. La disparita' di trattamento, evidente ex  art.  3  della
 Costituzione,  e'  ingiustificata  ex  art.  53  della  Costituzione,
 sicche' la apparente  deroga  all'art.  20  della  legge  n.  4/1929,
 espressamente  voluta  dal  legislatore  in  una  serie di situazioni
 ritenute diverse da quelle di specifica  illicita'  penal-tributaria,
 non puo' essere esclusa per "chi non ha piu' niente da dare al fisco"
 e  non  puo'  essere  neppure subordinata all'istanza di parte e resa
 onerosa mediante un corrispettivo  del  tutto  sganciato  da  ogni  e
 qualsiasi obligazione tributaria.
                               P. Q. M.
    Visti  gli  artt.  23  della legge 11 marzo 1953, n. 1 e 246 delle
 disposizioi transitorie del c.p.p.;
    Sospeso il processo in corso;
    Rimette  agli  atti alla Corte costituzionale perche' decida della
 legittimita' costituzionale, in relazione agli artt.  3  e  53  della
 Costituzione, dell'art. 7, secondo comma, del d.-l. 16 marzo 1991, n.
 83,  convertito  in  legge 15 maggio 1991, n. 154, nella parte in cui
 subordina l'applicabilita' dell'art.  2  del  c.p.  secondo  e  terzo
 comma,  al previo esperimento della "regolarizzazione nei modi di cui
 all'art. 8";
    Dispone che la presente ordinanza sia notificata alle parti ed  al
 pubblico  ministero ed al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia
 comunicata al Presidente della Camera dei deputati ed  al  Presidente
 del Senato della Repubblica.
    Cosi' deciso in Pesaro, addi' 1º agosto 1991
                  Il presidente: (firma illeggibile)

 91C1141