N. 661 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 maggio 1991

                                N. 661
   Ordinanza emessa il 24 maggio 1991 dal Consiglio superiore della
                  magistratura, sezione disciplinare,
    nel procedimento disciplinare a carico di Croce Giuseppe Renato
 Consiglio superiore della magistratura (C.S.M.) - Sezione
    disciplinare - Istituto della riabilitazione previsto dall'art. 87
    del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, per i  dipendenti  civili  dello
    Stato - Applicabilita' secondo la giurisprudenza della Cassazione,
    di  detto  istituto  ai  magistrati  -  Conseguente ingiustificato
    eguale trattamento di situazioni non omogenee e  sostituzione  del
    parere  espresso dal consiglio di amministrazione per i dipendenti
    civili dello Stato col parere vincolante  espresso  dal  consiglio
    giudiziario  che viene ad interferire con l'attivita' di un organo
    giudiziario quale la sezione disciplinare del C.S.M.  -  Incidenza
    sui  principi  della  soggezione  dei giudici solo alla legge e di
    indipendenza ed autonomia della magistratura.
 (D.P.R., 10 gennaio 1957, n. 3, art. 87; r.d.-l. 31 maggio 1946, n.
    511, art. 276).
 (Cost., artt. 3, 101, 104 e 105).
(GU n.44 del 6-11-1991 )
               IL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
    Ha  pronunciato, in camera di consiglio, la seguente ordinanza nel
 procedimento disciplinare n. 57/81 del registro generale a carico del
 dott. Giuseppe Renato Croce  (nato  a  Foggia  il  3  novembre  1939)
 magistrato  di  appello  con funzioni di pretore di Tivoli, su rinvio
 dalle sezioni unite civili della suprema  Corte  di  cassazione,  per
 sentenza 11 gennaio-6 aprile 1991.
    Con  sentenza  del  9  febbraio  1983, la sezione disciplinare del
 Consiglio superiore della magistratura, infliggeva la sanzione  della
 censura  al  dott.  Giuseppe  Renato  Croce,  pretore in Tivoli, e la
 sentenza diveniva successivamente  irrevocabile,  avendo  le  sezioni
 unite della Corte di Cassazione, rigettato il ricorso.
    Il Croce, con istanza del 1ยบ luglio 1986, chiedeva al Consiglio la
 concessione  della  riabilitazione,  ma  la  sezione  disciplinare la
 rigettava,   ritenendo   inapplicabile   ai   magistrati    sia    la
 riabilitazione   prevista   dall'art.  178  del  codice  penale,  sia
 l'istituto previsto per gli impiegati civili dello Stato dall'art. 87
 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3.
    Il Croce proponeva allora ricorso per  Cassazione,  e  le  sezioni
 unite  civili  -  sulle  difformi conclusioni del p.g. - con sentenza
 dell'11 gennaio 1991, hanno cassato la sentenza impugnata,  rinviando
 la  causa  per  nuovo  esame  alla sezione disciplinare del Consiglio
 superiore della  magistratura,  fissando  il  seguente  principio  di
 diritto: "Poiche', ai sensi del terzo comma dell'art. 276 del r.d.-l.
 31 maggio 1946, n. 511, sono applicabili ai magistrati le disposizoni
 generali relative agli impiegati dello Stato, che non siano contrarie
 ai   regolamenti  dell'ordinamento  giudiziario,  la  riabilitazione,
 prevista  dall'art.  87  del  d.P.R.  10  gennaio  1957,  n.  3,   e'
 applicabile  ai  magistrati,  costituendo  un  istituto  di carattere
 generale  che  non  si  pone  in   contrasto   ne'   con   le   norme
 dell'ordinamento  giudiziario,  ne'  con  lo  status  riconosciuto ai
 giudici".
    Questa sezione dovrebbe quindi chiedere il  parere  del  consiglio
 giudiziario,   e   dichiarare  eventualmente  la  riabilitazione  del
 magistrato.   Peraltro   sussistono   motivi   per   dubitare   della
 legittimita' costituzionale delle norme in esame.
    Va rilevato che manca ogni contraria interpretazione della suprema
 Corte  e,  tenuto  conto  sia  della  vincolativita' del principio di
 diritto per il giudice di rinvio, sia soprattutto  della  circostanza
 che  l'estensione  ai  magistrati,  di  norme  di  favore dettate dal
 legislatore per i procedimenti disciplinari  degli  impiegati  civili
 dello  Stato,  costituisce ormai una consolidata linea interpretativa
 (v.  sentenza  s.u.  7  gennaio  1976,  n.  10,  sull'estensione   ai
 magistrati  di norme sulla revisione previste dall'art. 121 del testo
 unico per gli impiegati dello Stato e n. 647/1990 delle s.u. relativa
 all'estensione del condono concesso agli impiegati civili dello Stato
 con legge n. 198/1986), la interpretazione delle sezioni  unite  deve
 ritenersi  diritto  vivente.  Non  e'  in  alcun  modo controverso in
 dottrina  e  nella  giurisprudenza  (inclusa   quella   della   Corte
 costituzionale),  che  il giudice di rinvio possa sollevare questione
 di legittimita' costituzionale della norma indicata nel principio  di
 diritto.
    Ritiene  la sezione che, tra i possibili significati del combinato
 disposto degli artt. 87 del d.P.R. 10 gennaio 1957, nn. 3 e 276,  del
 r.d.-l.  31  maggio 1946, n. 511, quello accolto dalle sezioni unite,
 possa essere viziato da illegittimita' costituzionale  sotto  diversi
 profili:  per  contrasto con gli artt. 101, secondo comma, 104, primo
 comma,  e  105  della  Costituzione,  nella  parte  in  cui  mediante
 adattamenti   procedimentali,  attribuisce  competenza  al  consiglio
 giudiziario ad emettere un parere vincolante per un organo, quale  la
 sezione  disciplinare, avente natura giurisdizionale, e per contrasto
 con l'art. 3 della Costituzione,  nella  parte  in  cui  la  predetta
 interpretazione  equipara  irragionevolmente situazioni profondamente
 diverse.
    Va premesso che la suprema  Corte  ammette  che  l'istituto  della
 riabilitazione   non  e'  direttamente  contemplato  nell'ordinamento
 giudiziario,  e  che  del  pari  inapplicabili   sono   le   speciali
 riabilitazioni  previste  dal  codice  penale  (artt. 178 e 179), dal
 codice civile (art. 466), della legge fallimentare (artt. 142  e  143
 del   r.d.  16  marzo  1942,  n.  267),  ma  si  sofferma,  poi,  sul
 procedimento  riabilitativo  previsto  dall'art.  87  del  d.P.R.  10
 gennaio  1957,  n.  3,  ritenendolo "istituto di carattere generale".
 Tale ultima affermazione sembra opinabile, perche'  la  norma  citata
 suona  testualmente: "Trascorsi due anni dalla data dell'atto con cui
 fu inflitta la sanzione disciplinare e sempre che  l'impiegato  abbia
 riportato  nei due anni la qualifica di 'ottimo', possono essere resi
 nulli gli effetti di essa,  esclusa  ogni  efficacia  retroattiva,  e
 possono,  altresi', essere modificati i giudizi complessivi riportati
 dall'impiegato dopo la sanzione  ed  in  conseguenza  di  questa.  Il
 provvedimento  e'  adottato  con  decreto  ministeriale,  sentiti  il
 consiglio di amministrazione e la commissione di disciplina".
    La Corte di cassazione,  tuttavia,  non  si  nasconde  affatto  la
 evidente  difficolta'  di  adattamento  della riabilitazione prevista
 dall'art. 87 al di fuori dell'ordinamento per  gli  impiegati  civili
 dello  Stato, quantomeno per l'inesistenza della "qualifica annuale",
 dei giudizi analitici espressi nelle "note caratteristiche" (rispetto
 ai quali la qualifica, ai sensi dell'art. 42 del  d.P.R.  10  gennaio
 1957, n. 3, e' la "sintesi complessiva"), ma ritiene che la mancanza,
 per  i  magistrati,  di  tale  sistema di valutazioni non sia l'ovvia
 conseguenza   della   strutturazione   dell'ordinamento   giudiziario
 rispetto   a   valori  costituzionali  particolari  cui  deve  essere
 improntato  lo  status  del  magistrato,  e  interpreta  la  mancanza
 dell'istituto  della riabilitazione nell'ordinamento giudiziario come
 una  sorta  di  accidentale  vuoto  normativo,   colmabile   in   via
 interpretativa.
    Dal punto di vista strettamente tecnico-ermeneutico la sezione non
 contesta,  in  astratto,  il  potere  del giudice - ed in primo luogo
 della suprema Corte - di colmare le  "lacune  dell'ordinamento",  sia
 che si faccia ricorso all'analogia (come prevista dall. 12 cpv. delle
 preleggi,  ed  elaborata  dalla dottrina e dalla giurisprudenza), sia
 che - come sembra in  realta'  aver  fatto  la  suprema  Corte  nella
 sentenza   in   esame   -   si   ricorra   al   concetto  moderno  di
 "interpretazione adeguatrice" della legge alla Costituzione.  Secondo
 entrambi  i  criteri (peraltro integrabili tra loro, perche' la norma
 costituzionale entra all'interno del sistema normativo  in  posizione
 dominante  come  "principio  dell'ordinamento"), l'interprete si deve
 comunque  arrestare  alla  conseguenza  estrema  del  rispetto  della
 ripartizione  di competenza delineato dalla Costituzione, anche nella
 posizione del principio di diritto  ad  opera  della  Cassazione.  La
 "riserva    di   giurisdizione"   contenuta   nell'art.   101   della
 Costituzione, impedisce alla fonte normativa di  invadere  lo  spazio
 idealmente     riservato    alla    giurisdizione,    ma    impedisce
 correlativamente a quest'ultima di assumere i  connotati  sostanziali
 della normazione. Come e' stato autorevolmente osservato "il processo
 che  va  dalla  posizione del precetto alla sua concreta applicazione
 giudiziale (dall'universale, cioe', della norma, al particolare della
 sentenza) si rivela, pertanto, dominato da  questa  rigorosa  'doppia
 riserva'. Se, quindi, dal combinato disposto degli artt. 101, secondo
 comma,  e  111,  secondo  comma, della Costituzione puo' evincersi la
 possibilita'  che  un  qualunque  giudice  -  in  principio  soggetto
 'soltanto'  alla  legge  -  sia tenuto a far propria una enunciazione
 della Cassazione,  dallo  stesso  collegamento  interpretativo,  deve
 ricavarsi la necessita' che tale enunciazione presenti i contrassegni
 strutturali   (ed   i  conseguenti  limiti  di  efficacia)  dell'atto
 giurisdizionale". (A. D'Atena, La liberta' interpretativa del giudice
 e l'intangibilita' del punto di diritto enucleato  dalla  Cassazione,
 in Giur. cost., 1970, 563 e segg.).
    Nonostante  la crescente enfatizzazione del "ruolo creatore" della
 giurisprudenza,  derivante  dalla  "crisi  del  diritto"  come  norma
 preventivamente posta da un'autorita' esterna al rapporto da regolare
 ed  orientata ad "una visione casistica del diritto come composizione
 dialogica del conflitto di interessi, attraverso il contributo  delle
 parti  (il c.d. droit controversial)", nessuno dubita che i princi'pi
 della soggezione del giudice alla legge e  della  funzione  meramente
 applicativa  della  giurisprudenza  "continuano  ad operare sul piano
 degli schemi giuridici" e che dottrine come quelle sopracitate devono
 fare i conti con il principio di soggezione del giudice alla legge  e
 "si   prestano   a   diversa   valutazione   a  seconda  dei  settori
 dell'ordinamento in cui vogliono farsi operare: per esempio,  non  e'
 la  stessa cosa il diritto penale in cui vige il principio di stretta
 legalita', e il diritto familiare, il diritto delle locazioni,  o  il
 diritto  sindacale,  dove  la  legge stessa attribuisce al giudice un
 ruolo di equilibrio tra gli interessi  in  gioco".  (G.  Zagrebelsky,
 Manuale, vol. I, 91).
    Orbene,  la  materia in esame e' assoggettata dall'art. 108, primo
 comma, della Costituzione alla riserva  di  legge.  Ma  la  Corte  di
 cassazione,  nel procedere ad "interpretazione adeguatrice" prescrive
 "quegli adattamenti in mancanza dei  quali  la  norma  dell'art.  276
 dell'ordinamento   giudiziario   finirebbe  col  risultare  priva  di
 concreta portata giuridica", ed afferma che alla qualifica annuale di
 "ottimo", inesistente per i magistrati,  ed  evidentemente  anche  il
 parere  del "consiglio d'amministrazione", vada equiparato un "parere
 del consiglio giudiziario", richiesto ad istanza  dell'interessato  o
 d'ufficio,  dalla  sezione  disciplinare  cui sia stata presentata la
 richiesta  di  riabilitazione.  La  portata  di  tali   "adeguamenti"
 costituisce,  in  realta',  una integrazione a carattere normativo in
 materia riservata al legislatore, e suscita gravi perplessita'  sotto
 piu'  profili.  Sotto  l'aspetto sostanziale va rilevato che, a norma
 dell'art.  87,   la   speciale   riabilitazione   ivi   prevista   e'
 provvedimento  discrezionale,  ed  attiene  quindi alla categoria dei
 provvedimenti amministrativi di revoca per  motivi  di  opportunita':
 funzionale  a  questa  qualificazione  e'  il  prescritto  parere del
 consiglio
 di amministrazione, massimo organo collegiale dell'ordinamento  delle
 singole amministrazioni. E' evidente che i criteri a cui il consiglio
 di  amministrazione,  la  commissione  di  disciplina  ed il Ministro
 debbono attenersi nel concedere o negare il  provvedimento,  sono  in
 stretta relazione con l'art. 97 della Costituzione, ed in primo luogo
 con il principio del "buon andamento dell'amministrazione".
    La valutazione dovrebbe quindi comparare l'interesse dell'istante,
 la   gravita'   della   violazione  rispetto  al  pubblico  interesse
 perseguito   dall'amministrazione,   e   la   conseguenza   che    la
 riabilitazione  avrebbe  sull'ordine,  disciplina,  produttivita' del
 lavoro negli uffici.
    Ma, poiche' la  natura  giurisdizionale  dei  provvedimenti  della
 sezione disciplinare, piu' volte ribadita dalla Corte costituzionale,
 non  puo'  essere  una mera formula vuota di significato, e' evidente
 che la sezione  non  puo'  che  applicare  le  regole  proprie  della
 giurisdizione,  rispetto alla quale si e' sempre dubitato che, (salvo
 che nel campo della volontaria giurisdizione), possa parlarsi di vera
 e propria 'discrezionalita'' del giudice, anche quando  i  poteri  di
 questi  appaiono  amplissimi.  (Raselli,  Il potere discrezionale del
 giudice; Satta, Diritto processuale civile, p. 751). Si e'  osservato
 che,  persino  in  materia  di determinazione della pena, i parametri
 previsti dall'art. 133 del c.p. impongono un  accertamento  di  fatto
 (per  quanto  complesso  ed opinabile), su tutte le componenti, anche
 soggettive, del reato.
    L'assenza   di   discrezionalita'   e'   comunque   palese   nella
 giurisdizione  della  sezione disciplinare, per la quale le regole di
 giudizio espressamente richiamate dalla legge  sono  quelle  previste
 nel codice di procedura penale.
    Il   "principio   di  diritto"  enunciato  dalle  s.u.  non  dice,
 esplicitamente,  se  la  sezione  disciplinare,  in  caso  di  parere
 favorevole  del  consiglio  giudiziario,  possa  o debba concedere la
 riabilitazione,  ma  non  sembra  dubbio  che,  non  esistendo  alcun
 criterio normativo a guidarne la scelta, la riabilitazione diviene un
 diritto  soggettivo di chi abbia riportato una sanzione disciplinare,
 una volta che abbia  ottenuto  il  parere  favorevole  del  consiglio
 giudiziario,  come  avviene  infatti,  per la riabilitazione prevista
 dagli artt. 178  e  179  del  codice  penale,  che  configurano  tale
 provvedimento come diritto soggettivo del condannato.
    Dunque  l'interpretazione  accolta  dalle  sezioni unite, piu' che
 estendere anche ai magistrati  la  riabilitazione  speciale  prevista
 dall'art.  87  del  d.P.R. n. 3/1957, sembra aver creato una forma di
 "riabilitazione speciale" configurabile come  diritto  soggettivo  di
 chi abbia riportato una sanzione.
    Sotto  il profilo piu' evidente, quello procedimentale, le sezioni
 unite hanno in sostanza dettato una disciplina normativa che  non  ha
 alcuna  attinenza  con  le  qualifiche  ed  i  pareri (discrezionali)
 previsti per gli  impiegati  civili  dello  Stato,  e  che  prescrive
 invece, alternativamente, al sanzionato o alla sezione, di richiedere
 un  parere  vincolante al consiglio giudiziario. A tale proposito, si
 impongono le seguenti considerazioni:
       a)  indipendentemente  dalla  natura  delle  funzioni e dal suo
 carattere  elettivo,  il  consiglio  giudiziario  non  e'  un  organo
 ausiliario  della  sezione  disciplinare,  ma  semmai  del  consiglio
 superiore, rispetto  al  quale  la  sezione  ha  una  sua  autonomia,
 ribadita  anche dalla Corte costituzionale. La sentenza delle sezioni
 unite  viene,  quindi,  a  conferire  una   competenza   in   materia
 disciplinare al consiglio giudiziario;
       b)  il  sistema  disciplinare e', quanto alle forme, un sistema
 teoricamente completo, attraverso il rinvio, in  quanto  compatibili,
 alle  norme  del  codice  di  procedura  penale approvato con r.d. 19
 ottobre 1930, n. 1399 (artt. 32 e 34 della legge sulle  guarentigie):
 norma  anch'essa  implicitamente  modificata dal principio di diritto
 delle sezioni unite. Il rinvio alle norme  del  codice  di  procedura
 penale  abrogato  imporrebbe, infatti, di chiedere solo il parere del
 procuratore generale sull'istanza: viceversa la sezione ha  l'obbligo
 di  richiedere  (o  quanto meno di acquisire) il parere del consiglio
 giudiziario competente sul comportamento del magistrato  nel  biennio
 successivo a quello della irrogazione della sanzione.
    Anche  a ritenere compatibile la riabilitazione prevista dall'art.
 87 del d.P.R.  n.  3/1957,  e  surrogabile  l'assenza  di  qualifiche
 annuali,   una   soluzione   che  salvasse  la  discrezionalita'  del
 provvedimento e utilizzasse un parere del consiglio  giudiziario,  si
 sarebbe  potuto ravvisare nell'attribuire la competenza al plenum del
 C.S.M. in quanto organo investito anche  di  funzioni  amministrative
 rispetto  alle  quali  i  consigli  giudiziari si pongono come organi
 ausiliari di autogoverno. Ma cio' e' certamente escluso  dalla  s.C.,
 per  il  fatto stesso che ha posto un principio di diritto al giudice
 della deontologia dei magistrati;
       c) le sezioni unite prendono atto che gli effetti che la  legge
 attribuisce  alla  riabilitazione  prevista  per gli impiegati civili
 dello Stato (modifica dei giudizi riportati a seguito della sanzione,
 possibilita' di ottenere le promozioni ritardate  per  effetto  della
 stessa,   recupero   degli  scatti  di  anzianita'  perduti)  non  si
 verificano per i magistrati,  ma  concludono  in  tali  termini:  "La
 riabilitazione,  pur  non potendo determinare, come per gli impiegati
 civili, la modifica dei giudizi complessivi  ..  non  essendo  questi
 prescritti  dall'ordinamento  giudiziario,  fa  cessare la coseguenza
 negativa delle pene disciplinari e, quindi,  oltre  a  soddisfare  un
 innegabile  interesse  morale  del  beneficiato,  opera sulle stesse,
 annullando, in particolare nel caso della censura, che e' la sanzione
 inflitta al ricorrente, l'effetto dell'ineleggibilita'  a  componente
 del  Consiglio  superiore  della  magistratura,  posto  dall'art.  24
 dell'ordinamento giudiziario, a carico dei giudici che ad essa  siano
 stati  sottoposti  nel  decennio  ..  Inoltre,  della  riabilitazione
 concessa, il  Consiglio  superiore  deve  tenere  conto  in  sede  di
 progressione  in  carriera,  di trasferimento e di conferimento degli
 incarichi direttivi ..".
   E' evidente,  a  questo  punto  che  le  sezioni  unite  non  hanno
 esaminato  quali  siano  gli  effetti  della  riabilitazione prevista
 dall'art. 87 del d.P.R. n. 3/1957, e quali di essi siano  compatibili
 con    lo    status    di    magistrato   a   sensi   dell'art.   276
 dell'ordinamentogiudiziario,  ma  introdotto  un   diverso   istituto
 recante lo stesso nome di riabilitazione nellordinamento giudiziario,
 attribuendogli  effetti  tipici  e  non  previsti  dall'art. 87 (cosa
 particolarmente  chiara  per  quanto  riguarda  l'ineleggibilita'  al
 Consiglio superiore della magistratura).
    La  sezione  non ignora che, particolarmente in tema di norme c.d.
 di favore, nel nostro ordinamento esiste la possibilita' di ravvisare
 una lesione del principio di eguaglianza selezionando, all'interno di
 una previsione normativa, i soli precetti compatibili con il  diverso
 sistema  al  quale  si  ritiene  debba  essere estesa la norma, anche
 dettando  gli  opportuni  adattamenti  che  divengono,  cosi'   norme
 integrative   dell'ordinamento.  Ma  tale  possibilita',  nel  nostro
 sistema, e' consentita solo alla Corte costituzionale,  con  le  c.d.
 "sentenze manipolative", per la precisa ragione che le sentenze della
 Corte  entrano  a  pieno  titolo  tra le fonti del diritto sotto piu'
 profili (dall'annullamento della disposizione di legge  al  carattere
 vincolante  della interpretazione della Corte per il giudice), mentre
 al giudice e' consentita solo un'interpretazione adeguatrice, che non
 richieda "adattamenti" normativi.
    Certo la sezione, attesa la particolare efficacia attribuita dalla
 legge (art. 384 del c.p.c.) al principio di diritto  enunciato  dalla
 Cassazione,   deve   considerare   certa  (perche'  non  discutibile)
 l'interpretazione  enucleata,  e  conseguentemente  ricompresi  nella
 legge il significato e gli "adattamenti" forniti nonostante la stessa
 formulazione  letterale  della sentenza che parla della necessita' di
 "adattamenti".
    Ma  in  definitiva  (nonstante  le  piu'   ampie   riserve   sulla
 rispondenza  della  sentenza  delle  s.u. in esame agli schemi logici
 della  categoria  dell'interpretazione  nella  parte  in  cui   detta
 "adattamenti"  procedimentali  e  attribuisce  competenza  ad  organi
 pubblici in materia assistita da riserva di legge)  va  rilevato  che
 l'attribuzione alla sezione disciplinare del potere di pronunciare la
 riabilitazione per i magistrati, per quanto gia' accennato, trasforma
 un interesse legittimo in diritto soggettivo e rende il provvedimento
 della sezione vincolato rispetto al parere del consiglio giudiziario.
 E'  infatti del tutto improprio ritenere che il parere di tale organo
 surroghi, per i magistrati,  la  qualifica  annuale,  il  parere  del
 consiglio  d'amministrazione  e  quello  del consiglio di disciplina.
 Nell'ordinamento degli impiegati civili dello Stato la  qualifica  di
 "ottimo"  nel  biennio  successivo  al  fatto costituente un illecito
 disciplinare e il  parere  favorevole  alla  riabilitazione  dei  due
 organi predetti non toglie al Ministro la sua piena discrezionalita',
 che  si traduce nel contemperamento tra interesse del riabilitando ed
 interesse al buon andamento degli uffici.
    Viceversa   dalla   particolare   natura    giurisdizionale    del
 procedimento  disciplinare  per  i magistrati, modellato sul processo
 penale, deriva la conseguenza che  la  sezione  non  e'  titolare  di
 poteri discrezionali: di fronte ad un parere favorevole del consiglio
 giudiziario,  infatti,  il  giudice  della  deontologia  non ha altra
 strada che pronunziare la riabilitazione (salvo il generale potere di
 disapplicazione per  meri  vizi  di  legittimita').  Con  l'ulteriore
 antinomia  che  deriva dalla circostanza che il consiglio giudiziario
 non  perde,   tuttavia,   il   suo   carattere   amministrativo,   ed
 esprimerebbe, quindi, in tale materia, un parere sul merito (in senso
 amministrativo),  vincolante  per  un'autorita' giurisdizionale. Tale
 ricostruzione e' pero' lesiva sia  delle  prerogative  che  competono
 alla  sezione  in  quanto  organo  giuridizionale  (ed in particolare
 dell'indipendenza come contenuto  essenziale  della  soggezione  alla
 sola legge prevista dall'art. 101, secondo comma, e dell'indipendenza
 ordinamentale    sancita    dall'art.   104,   primo   comma,   della
 Costituzione), sia dell'attribuzione esclusiva al Consiglio superiore
 (attraverso la sezione) della materia disciplinare ad opera dell'art.
 105, che non sembra compatibile con la possibile vanificazione  delle
 sentenze   della   sezione   disciplinare   ad  opera  di  un  organo
 amministrativo.
    Sembra, quindi, che in relazione agli artt.  101,  secondo  comma,
 104,  primo  comma,  e  105  della  Costituzione non sia infondato il
 dubbio sulla legittimita' costituzionale degli artt. 87 del d.P.R. n.
 3/1957 e  276  dell'ordinamento  giudiziario,  nel  significato  loro
 attribuito dalle sezioni unite della Corte di cassazione.
    Sotto   il  secondo  profilo,  quello  relativo  al  principio  di
 eguaglianza, la sezione ritiene che l'esclusione dei magistrati dalla
 riabilitazione prevista dall'art. 87 piu' volte citato non violerebbe
 affatto l'art. 3  della  Costituzione,  e  quindi,  contrariamente  a
 quanto  afferma  la  sentenza  delle sezioni unite, qui recepita come
 diritto vivente, possa essere  la  equiparazione  tra  magistrati  ed
 impiegati  a  ledere  il  principio  di  eguaglianza,  che  impone di
 disciplinare in modo diverso situazioni profondamente diverse.
    Soccorrono a tale opinione due linee  argomentative,  strettamente
 collegate.   La   prima  ravvisa  sul  piano  formale,  una  evidente
 diversita' tra il sistema di sanzioni disciplinari esistente  per  il
 pubblico  impiego (di natura amministrativa e con garanzie assai piu'
 limitate) e un  sistema  disciplinare  che  adotta  le  garanzie  del
 processo  penale,  si  conclude con sentenza, prevede un'impugnazione
 alle sezioni unite,  un  procedimento  di  revisione  della  sentenza
 modellato   sull'omonimo   istituto  previsto  dal  c.p.c.  Tutto  il
 procedimento disciplinare per i magistrati e' ispirato ad  un  rigido
 garantismo  che  -  al  di la' del tenore formale degli artt. 32 e 34
 della legge sulle guarentigie - estende le norme del processo  penale
 anche  in tema di regole di giudizio e di valutazione della prova, in
 funzione dell'esigenza di tutela dell'innocenza  del  magistrato,  ma
 anche   del   suo  prestigio  in  quanto  rappresentante  dell'ordine
 giudiziario, e della sua  indipendenza  interna  ed  esterna.  Eguale
 siginificato ha la stessa doppia titolarita' dell'azione disciplinare
 (v. Corte costituzionale sentenza n. 12/1971).
    In  realta',  una  valutazione  complessiva  dei  due  sistemi  e'
 necessaria non solo per il giudizio di compatibilita',
  ex art. 276 ordinamento giudiziario, di singole  norme  dettate  per
 uno  solo  dei  due, ma anche per comprendere la ragione di fondo dei
 singoli  istituti  e  quindi  la  fondatezza  di   un'interpretazione
 adeguatrice   che   faccia   leva  sull'art.  3  della  Costituzione.
 Altrimenti, funzionando il rinvio dell'art.  276  a  senso  unico  in
 direzione  dell'estensione  delle sole norme di favore ai magistrati,
 si finisce per creare un sistema che cumula tutte le garanzie e tutti
 i benefici, esclusivamente per i magistrati in quanto tali,  anziche'
 dei  sistemi  razionalmente  diversi  perche'  funzionali  a principi
 costituzionali diversi.
    Va infatti rilevato, con riferimento al sistema sanzionatorio, che
 per gli impiegati dello Stato gli artt. 80, 81 e  84  dello  statuto,
 prevedono sanzioni quali la riduzione dello stipendio, la sospensione
 della  qualifica  e  la destituzione, come conseguenza di determinate
 violazioni; a cio' e' correlato un  regime  diverso  della  revisione
 (art.  121  del  testo  unico),  che  consente tale istituto anche in
 presenza di prove di un illecito meno grave.  Viceversa,  il  sistema
 sanzionatorio  previsto  per  i  magistrati  prevede  un'unica  norma
 (l'art. 18 della legge sulle guarentigie),  alla  quale,  secondo  la
 gravita'   della   violazione,   possono   conseguire   le   sanzioni
 dell'ammonimento, della censura, della perdita di  anzianita',  della
 rimozione,  della  destituzione  conseguente  a condanna penale, e la
 sanzione (cumulabile con tutte quelle piu'  gravi  dell'ammonimento),
 del  trasferimento d'ufficio, nonche' la possibilita' di dispensa dal
 servizio anche in caso di proscioglimento,  qualora  risulti  che  il
 magistrato  ha  perso, nell'opinione pubblica, la considerazione e la
 fiducia richieste dalla sua funzione.
    Tali differenze attengono a ragioni di fondo espresse negli  artt.
 101,  107,  104  e  105  della Costituzione, che sono alla radice sia
 della giurisdizionalizzazione del  settore  disciplinare,  sia  della
 particolare  configurazione  del  rapporto  di  pubblico  impiego del
 magistrato.  Occorre  dunque,  passare   ad   una   riflessione   sul
 significato di tali differenze.
    La    legge    sulle   guarentigie,   proprio   per   ripristinare
 l'indipendenza della magistratura, si preoccupo' di smantellare tutte
 le norme piu' vistosamente  incompatibili  con  l'indipendenza  della
 magistratura,   ed   affermo'   per   la  prima  volta  il  carattere
 giurisdizionale del procedimento, attribuendo alle decisioni il  nome
 di  sentenza.  La  Costituzione  ha  poi accentuato le particolarita'
 funzionali dello status del magistrato. La  giurisdizionalita'  della
 sezione    disciplinare   e'   poi   stata   ribadita   dalla   Corte
 costituzionale, con le sentenze 30 dicembre 1961, n.  76;  30  aprile
 1968,  n.  44;  2  febbraio  1971,  n.  12;  8  giugno  1981, n. 100,
 sostanzialmente con la motivazione che la soggezione  dei  magistrati
 alla   sola  legge  comporta  che,  nei  loro  confronti,  il  potere
 disciplinare non sia fondato (come avviene,  invece,  per  gli  altri
 pubblici  dipendenti)  sul  rapporto di supremazia speciale spettante
 alla amministrazione di appartenenza, poiche'  la  giurisdizione  non
 afferma  un fine suo proprio (come avviene per l'amministrazione), ma
 tutela  direttamente  i  valori  dell'ordinamento  giuridico-generale
 dello  Stato.  Ne consegue che anche la sezione disciplinare, proprio
 perche' riafferma questo valore deontologico  di  tutela  dei  valori
 dell'ordinamento  giuridico,  si  differenzia  profondamente dai vari
 organi   disciplinari   costituiti    in    seno    alla    pubbliche
 amministrazioni, per inserirsi nell'ambito della giurisdizione.
    Cio'  spiega  le  numerose  particolarita'  degli  aspetti,  anche
 sanzionatori,  del   procedimento   disciplinare   previsto   per   i
 magistrati,   quali   l'integrazione   giurisprudenziale   dell'unica
 fattispecie sostanziale, in funzione dei  particolari  caratteri  del
 rapporto  di  servizio, la relativa non sindacabilita' del merito dei
 provvedimenti giurisdizionali (non assimilabili al risultato concreto
 dell'adozione amministrativa del pubblico impiegato), il rilievo dato
 al  trasferimento  d'ufficio  ed  alla  rimozione,  o  perfino   alla
 destituzione   senza  colpa  in  funzione  della  credibilita'  della
 giurisdizione: se  il  magistrato  esercita  un  potere  diffuso,  in
 condizioni  di  indipendenza  funzionale  e rappresenta nei suoi atti
 interamente e personalmente l'ordine  giudiziario,  tanto  da  essere
 abilitato  a  promuovere  personalmente conflitto di attribuzione, e'
 evidente che ha doveri particolarmente intensi di credibilita'  e  di
 obiettivita'.
    Infine,  la  sostanziale  assenza  di  sanzioni  economiche  e  di
 carriera e' del tutto correlata alla ristrutturazione delle  carriere
 introdotta dalle leggi nn. 570/1966 e 831/1973.
    Tornando,  allora,  alla  riabilitazione prevista dall'art. 87 del
 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, ed ai suoi  effetti  (sopra  indicati),
 sembra  chiaro  che  l'assenza delle qualifiche annuali dei dirigenti
 gli  uffici,   e'   funzionale,   per   i   magistrati,   al   valore
 dell'indipendenza  interna,  mentre la loro previsione, per gli altri
 impiegati, e' espressione di rapporto gerarchico.
    Il rapporto di pubblico impiego ha come  norma  costituzionale  di
 riferimento   l'art.   97   della   Costituzione,   compatibile   con
 un'organizzazione gerarchica per assicurare il buon  andamento  della
 pubblica amministrazione.
 Il   pubblico  funzionario  e'  chiamato  continuamente  a  comparare
 interessi diversi, mentre  tale  comparazione,  per  il  giudice,  e'
 normalmente   esclusa   nell'esercizio   della  giurisdizione,  salvo
 particolari ipotesi in  cui,  in  alcune  materie,  una  comparazione
 limitata   e   predeterminata   di  interessi  gli  e'  devoluta  dal
 legislatore. Ad esempio,  in  materia  di  diritto  di  famiglia,  il
 giudice   deve   comparare   l'interesse  dei  genitori  con  quello,
 prevalente per  legge,  del  minore:  ma  si  tratta  pur  sempre  di
 interessi   che   egli   contempera,  senza  esserne  esponezialmente
 portatore.
    Viceversa,  normalmente   il   magistrato   adotta   provvedimenti
 doverosi, come nel caso dell'esercizio obbligatorio ed irretrattabile
 dell'azione  penale  per  il  pubblico ministero, e della doverosita'
 della decizione per il giudice.
    D'altro canto, la possibilita'  di  rimuovere  gli  effetti  della
 ritardata   progressione  in  carriera,  anche  in  dipendenza  della
 sanzione  disciplinare,  e'  prevista,  per  i  magistrati,  in   via
 generale,  con il procedimento di riesame dopo un triennio, su parere
 del consiglio giudiziario (artt. 2 della legge n. 570/1966 e legge n.
 831/1973), ed attuata non  da  organi  gerarchicamente  sovraordinati
 (quali   il   consiglio   di   amministrazione),   od   a   carattere
 amministrativo-disciplinare (quali la commissione di disciplina),  ma
 dal  plenum  del  Consiglio  superiore  della  magistratura,  cui  e'
 attribuita  dall'art.  105  della  Costituzione.  Prevedere,  in  via
 analogica,  che  vi  proceda  la  sezione  disciplinare  in  sede  di
 riabilitazione sembra, dunque, da un lato  irragionevole,  dall'altro
 lesivo  di  attribuzioni  che  la  Costituzione  devolve al Consiglio
 superiore della magistratura nel suo  complesso,  in  funzione  della
 loro  natura  amministrativa.  Nel  particolare  rapporto di pubblico
 impiego  previsto  per  i  magistrati  esistono,  dunque,   strumenti
 analoghi  a  quello della riabilitazione, che consentono di rimuovere
 gli  effetti  della  sanzione  disciplinare  sulla  progressione   in
 carriera  e  sui  tramutamenti  dei  magistrati,  nei  tempi e con le
 modalita'   determinati   dal   legislatore,   in   funzione    della
 particolarita' del rapporto di servizio.
    Disposizioni  che  invece  -  al di fuori dell'ipotesi eccezionale
 della riabilitazione - mancano, in  via  generale,  nel  rapporto  di
 pubblico   impiego:  non  si  ravvisa,  quindi,  alcuna  lesione  del
 principio di eguaglianza ai danni dei magistrati, ai quali si farebbe
 viceversa, un trattamento di irrazionale  maggior  favore  estendendo
 loro anche i benefici del provvedimento riabilitativo.
    Ma  le sezioni unite, nel generico riferimento degli effetti della
 riabilitazione sui "trasferimenti", potrebberpo  includere  anche  la
 sanzione accessoria del trasferimento d'ufficio; inoltre indicano due
 ulteriori  effetti  negativi  della  sanzione  disciplinare,  che  la
 riabilitazione  potrebbe  rimuovere:  il  mancato   conferimento   di
 incarichi   direttivi,   e  l'ineleggibilita',  per  dieci  anni,  al
 Consiglio superiore della magistratura.
    Quanto al trasferimento d'ufficio, occorre rilevare che  esso  non
 deriva  automaticamente  dalla gravita' della sanzione, bensi' da una
 perdita  di  credibilita'  che  puo'   essere,   o   meno,   connessa
 all'illecito  commesso:  infatti  allo  stesso  provvedimento si puo'
 pervenire, indipendentemente dal procedimento disciplinare,  in  base
 all'art.   2   della   legge   sulle  guarentigie.  L'istituto  trova
 spiegazione proprio in quella necessita' di particolare affidabilita'
 correlativa, da un lato, alla indipendenza esterna del  magistrato  e
 dall'altro   all'inamovibilita',   che   impone   almeno   il  limite
 dell'interesse generale alla credibilita' dell'ufficio: affidabilita'
 che si puo' perdere per violazione della  deontologia,  o  per  altra
 causa incolpevole. Prevedere una automatica caducazione degli effetti
 del  trasferimento  d'ufficio  solo  se  questo e' conseguente ad una
 accertata violazione di norme deontologiche (ed e'  quindi  possibile
 chiedere  la  riabilitazione),  mentre resterebbero fermi gli effetti
 del trasferimento d'ufficio senza colpa, suscita  gravi  perplessita'
 proprio  in  relazione  a  quel  principio di egualianza che vieta di
 trattare in modo piu' grave situazioni in cui il magistrato non versi
 in colpa.
    Del resto, lo  stesso  principio  della  inamovibilita'  formulato
 dall'art. 107, e' una garanzia funzionale dell'indipendenza, rispetto
 al sistema precedente che garantiva al Ministro il potere di eseguire
 trasferimenti  punitivi,  e  contiene  quindi,  nello  stesso  testo,
 deroghe relative al pubblico interesse, nelle quali  e'  inscrivibile
 il    trasferimento    d'ufficio   per   perdita   di   credibilita'.
 L'incompatibilita' ambientale e' il limite dell'inamovibilita' che ne
 esclude il carattere di privilegio corporativo. Sotto  tale  aspetto,
 non  e'  possibile  paragonare  tali  situazioni  eccezionali  con il
 trasferimento dei pubblici impiegati.
    In relazione al conferimento degli incarichi direttivi, va  invece
 osservato    che    il    dirigente    dell'ufficio    e'   investito
 irreversibilmente, di un  munus  publicum  che  comporta  ineludibili
 esigenze  di  credibilita'  e trasparenza, e che conseguentemente, la
 scelta richiede particolare  ponderazione.  Tale  situazione  e'  del
 tutto  al di fuori del concetto di "carriera" e di status: Le sezioni
 unite, ripetendo una formulazione gia' prospettata dal  Consiglio  di
 Stato,  del  resto,  affermano  che  la riabilitazione impedirebbe di
 tener conto della  sanzione,  ma  non  del  fatto  storico  che  l'ha
 determinata.  Cio'  appare  una  spia  evidente  della difficolta' di
 attribuire  una  efficacia  alla  riabilitazione  in  ordine  ad  una
 attribuzione  di  poteri  esercitati  in  piena autonomia, che non ha
 riscontro nella pubblica  amministrazione,  perche'  l'incarico  puo'
 cessare, normalmente solo per spontanea domanda di tramutamento.  In-
 fine,  nessuna  eadem  ratio  che  giustifichi  l'estensione,  sembra
 riscontrabile  neppure  tra  la  posizione  del  pubblico   impiegato
 riabilitato   e  quella  del  magistrato  ineleggibile  per  sanzione
 disciplinare    al    Consiglio    superiore    della   magistratura:
 l'ineleggibilita' e', infatti, preclusiva dell'accesso ad  un  organo
 di  rilevanza  costituzionale  che  ha  tra  i suoi compiti quello di
 riaffermare  la  corretteza  deontologica  dei  magistrati,  ed   una
 disciplina di particolare rigore, sembra del tutto razionale.
    Pertanto   la   sezione   ritiene   prospettabile   il  dubbio  di
 legittimita' costituzionale degli artt. 87 del decreto del Presidente
 della Repubblica n. 3/1957 e 276 ordinamento giudiziario  (in  quanto
 interpretati  nel  senso  che  la riabilitazione deve essere concessa
 anche  ai  magistrati,  dalla  sezione  disciplinare  del   Consiglio
 superiore,  previo  parere  favorevole del Consiglio giudiziario) per
 contrasto con gli artt. 3, 101, secondo comma, 104, primo comma, 105,
 della Costituzione, e ritiene  di  non  poter  definire  il  giudizio
 indipendentemente dalla risoluzione di tale questione di legittimita'
 costituzionale.
                               P. Q. M.
    Solleva  d'ufficio, questione di legittimita' costituzionale degli
 artt. 87 del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957,
 n.  3   e   276   dell'ordinamento   giudiziario,   nel   significato
 attribuitogli  dalla Corte di cassazione, per contrasto con gli artt.
 3, 101, comma secondo, 104, primo comma, 105, della Costituzione, nei
 sensi precisati in motivazione;
    Sospende il  giudizio  in  corso  sull'istanza  di  riabilitazione
 presentata   nell'interesse   di  Giuseppe  Renato  Croce  ed  ordina
 l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
    Ordina che la presente ordinanza  sia  notificata,  a  cura  della
 cancelleria,  al dott. Giuseppe Renato Croce, al procuratore generale
 presso la Corte  di  cassazione,  al  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri,  e sia comunicata al Presidente del Senato ed al Presidente
 della Camera dei deputati.
      Roma, addi' 24 maggio 1991
                        Il presidente: GALLONI
    Il magistrato segretario: MANNARINI
                                                 L'estensore: VIGLIETA
 91C1159