N. 718 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 ottobre 1991
N. 718 Ordinanza emessa il 21 ottobre 1991 dal pretore di Bergamo nel procedimento penale a carico di Borella Francesca Processo penale - Dichiarazione resa alla p.g. nell'immediatezza del fatto - Ritrattazione - Instaurazione di procedimento per falsa testimonianza - Assunzione della qualita' di imputato da parte del teste - Conseguente divieto assoluto per gli ufficiali di p.g. di rendere testimonianza sulle dichiarazioni gia' raccolte o di utilizzazione delle stesse - Impossibilita' di effettuare un confronto o di contestare le precedenti deposizioni o di dare lettura dei verbali delle dichiarazioni gia' rese - Irrazionale disparita' di trattamento tra cittadini - Limitazione dell'esercizio della giurisdizione - Violazione del principio di obbligatorieta' dell'azione penale. (Legge 16 febbraio 1987, n. 81, art. 2, n. 31; c.p.p. 1988, artt. 195, terzo e quarto comma). (Cost., artt. 3, 102 e 112).(GU n.51 del 24-12-1991 )
IL PRETORE Sulla questione di legittimita' costituzionale proposta dal p.m. nel presente procedimento penale a carico di Borella Francesca imputata del reato di falsa testimonianza - art. 372 del c.p. - commesso in Bergamo il 18 giugno 1991 davanti ai giudici del tribunale di Bergamo osserva quanto segue. OSSERVA IN FATTO Nel corso di indagini di p.g. relative ad una vicenda di assegni rubati, Borella Francesca veniva fermata a bordo dell'auto su cui si trovava con Vanin Luca e Cortesi. Nell'occasione - secondo quanto e' dato di comprendere dalla relazione orale svolta dal p.m. ex art. 483 del c.p.p., nonche' dai verbali di udienza del separato processo penale tutt'ora pendente presso il tribunale di Bergamo - essa dichiarava ai carabinieri, con dichiarazioni raccolte a verbale ex art. 357 del c.p.p., di avere ricevuto la droga dal Vanin, conseguentemente imputato del reato di cessione di stupefacente. Esaminata in dibattimento quale principale teste a sostegno dell'accusa, la Borella negava di avere mai inteso dire di aver ricevuto la droga dal Vanin poiche' la droga era stata da lei autonomamente acquistata e pagata con danari propri, cosi' ritrattando le dichiarazioni accusatorie rese alla p.g. Veniva quindi sospeso il procedimento a carico di Vanin Luca e trasmessi gli atti alla procura presso la pretura perche' procedesse nei confronti della Borella stavolta in qualita' di imputata del reato di falsa testimonianza. Nel giudizio oggi pendente davanti a questo pretore il p.m. richiedeva l'esame del teste maresciallo Palma quale unica prova a sostegno dell'accusa, esseno state le prime dichiarazioni rese al maresciallo dei carabinieri in assenza di altri testimoni; la testimonianza resa in dibattimento in tribunale, ed in ispecie i verbali di udienza del 18 giugno 1991, venivano invece inseriti nel fascicolo del dibattimento ex art. 431, lett. f), in quanto "corpo del reato" o comunque "cose pertinenti al reato", trattandosi di reato di falsa testimonianza che necessariamente si sostanzia in una dichiarazione raccolta a verbale. Orbene, chiamato a deporre il maresciallo Palma, ed esaminato sulle circostanze di contorno, il p.m. chiedeva cosa avesse a lui dichiarato la Borella - domanda che costituisce il perno dell'imputazione ascritta - ma a tale domanda si opponeva la difesa ai sensi del quarto comma dell'art. 495 del c.p.p., stante il divieto assoluto posto dalla legge agli ufficiali di p.g. di riferire le dichiarazioni rese dai testimoni: tale era infatti la qualita' della Borella nel momento in cui rendeva tali dichiarazioni. Il p.m. chiedeva allora di allegare al fascicolo del dibattimento il verbale delle s.i.t. raccolte dai carabinieri ex art. 357 del c.p.p., ma anche questa volta la domanda veniva respinta stante il divieto posto dall'art. 514 del c.p.p. di dare lettura delle dichiarazioni rese dall'imputato e dai testimoni alla p.g. al di fuori dei casi consentiti, casi in cui non ricade la fattispecie in esame. RILEVA IN DIRITTO Va preliminarmente sottolineata la evidente rilevanza, ai fini della decisione nel merito del processo e della valutazione dell'ipotesi accusatoria espressa nell'imputazione, del contenuto delle dichiarazioni rese da Borella Francesca al maresciallo Palma. E' sin troppo evidente che il giudizio sul reato di falsa testimonianza, nei casi di c.d. ritrattazione, si fonda sulla valutazione della dichiarazione resa dal teste all'autorita' giudiziaria alla luce di quell'altra resa in precedenza, e che ha dato origine all'esercizio dell'azione penale nei confronti del soggetto accusato (asseritamente) per errore o per equivoco. La comparazione fra le due dichiarazioni, i termini e le circostanze delle stesse, esaminate alla luce delle altre risultanze istruttorie (qualora ve ne siano) costituiscono il fulcro e la sostanza del giudizio. Pertanto e' proprio nei processi per falsa testimonianza che as- sume rilievo la possibilita' per il giudicante di "conoscere" prima ancora che di valutare il contenuto delle dichirazioni rese dalla testimone sia alla p.g. che alla autorita' giudiziaria. Appare al pretore la non manifesta infondatezza del dubbio sulla legittimita' costituzionale del congegno normativo voluto dal legislatore delegato (artt. 195, nn. 3 e 4, 514 e 512 del c.p.p.) in attuazione dell'art. 2, n. 31, della legge delega, nella parte in cui viene impedito l'esame dell'ufficiale di p.g. che abbia raccolto tali dichiarazioni ovvero l'utilizzazione delle stesse a seguito della assunzione della qualita' di imputato da parte del teste. Esaminiamo l'articolarsi del congegno normativo: divieto assoluto - art. 195, quarto colonnino, del c.p.p. - per gli ufficiali ed agenti di p.g. di deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese dai testimoni (tale qualita' rivestiva la Borella al momento in cui rese le dichiarazioni); impossibilita' conseguente di procedere ad un confronto fra l'Ufficiale di p.g. e l'imputata (che avesse accettato di sottoporsi all'esame) per mancanza del necessario presupposto richiesto dall'art. 211 del c.p.p. che le persone siano state gia' esaminate sulle circostanze su cui vi e' disaccordo; impossibilita' di applicare il meccanismo previsto dall'art. 500, quarto comma, che consente, e' vero, la contestazione e la conseguente utilizzabilita' delle dichiarazioni rese dal teste alla p.g. sul luogo e nell'immediatezza del fatto (quali quelle nel caso in esame), ma presuppone altresi' il permanere della qualita' di teste in capo al soggetto che le ha rese, mentre, nella specie, la Borella ha oggi assunto la qualita' di imputata e pertanto e' all'art. 503 che occorre fare ricorso; impossibilita' assoluta di utilizzare le dichiarazioni rese dall'imputato alla p.g. anche ai soli fini della contestazione ex art. 500, terzo comma, stante il divieto posto dall'art. 63 del c.p.p. di utilizzare le dichiarazioni rese dalla persona non imputata ne' sottoposta alle indagini contro se stessa; divieto di lettura dei verbali redatti dalla p.g. sancito dall'art. 514 del c.p.p. al di fuori dei casi consentiti; mancata previsione, nell'art. 512 del c.p.p., della possibilita' di dare lettura degli atti assunti dalla p.g. (oltre che dal p.m. e dal giudice nel corso dell'udienza preliminare) quando, per fatti o circostanze imprevedibili, ne sia divenuta impossibile la ripetizione. In conclusione, lo sbarramento congegnato dalla normativa richiamata e' insuperabile e di fatto rende diabolica la prova della falsa testimonianza in tutti i casi in cui al fatto reato oggetto della testimonianza non fossero presenti altri testi, e l'accusa si poggi sulle dichiarazioni rese dal (presunto) falso testimone alla p.g., come spesso avviene nei processi di piccolo spaccio quale quello pendente presso il tribunale o in casi piu' gravi come i reati contro la liberta' sessuale che normalmente avvengono alla presenza di sole due persone. In tutti questi casi in cui la ritrattazione del teste dell'accusa e' assai frequente, ed e' dipendente da motivi differenti da quelli che legittimerebbero il ricorso all'incidente probatorio, e' sostanzialmente sottratta al giudice, a priori, la possibilita' di valutare quale delle due versioni rese dal teste sia quella veritiera poiche' gli viene sottratta la possibilita' di conoscere anche il dato storico costituito dall'avere il teste reso alla p.g. una versione differente da quella resa in seguito. E cio', sebbene le prime dichiarazioni rese alla p.g. abbiano verosimilmente comportato l'incriminazione del soggetto accusato, la possibile emissione di misure cautelari e tutte le conseguenze giuridiche di un processo a suo carico. Tale grave empasse sarebbe facilmente superabile se fosse consentito agli ufficiali o agenti di p.g., come a tutti gli altri testi de relatio di deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite dai testimoni. Il divieto assoluto posto dal quarto comma dell'art. 195 del c.p.p. appare violare il principio di ragionevolezza e di eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge (art. 3 della Costituzione) in quanto discrimina i cittadini chiamati a testimoniare. Viene vietato senza alcuna ragionevole giustificazione, al teste che sia anche appartenente alla p.g. cio' che viene consentito al teste non qualificato. Tale aperta discriminazione non sembra rispondere ad alcuna concreta e sostanziale differenziazione fra i soggetti chiamati a deporre, a meno che non si voglia sostenere che il testimone, che sia anche appartenente alla p.g., e' per cio' stesso inattendibile in quanto portatore di un interesse personale all'accusa aprioristicamente e generalmente inteso. Tuttavia, tale aprioristica presupposizione generale non e' dato rilevare nei principi generali dell'ordinamento giuridico positivo che, al contrario, attribuisce rilievo e credibilita' all'operato della p.g., tanto da consentire alla stessa, sia pure sotto il controllo dell'autorita' giudiziaria, di incidere ben pesantemente sulla posizione del cittadino: le misure cautelari sono infatti richieste ed emesse sulla base degli indizi raccolti dalla p.g. e lo stesso rinvio a giudizio si fonda sui risultati delle indagini preliminari, sia pure vagliati dal p.m. (in Pretura) o dal g.i.p. (in tribunale). Appare dunque arbitraria la scelta del legislatore di revocare, proprio nella sede dibattimentale in cui piu' diretto e immediato e' il controllo da parte di tutti i soggetti processuali, quella credibilita' gia' ampiamente affidata alle forze di Polizia. Anche sotto altro profilo le norme richiamate sembrano ledere i principi costituzionalmente garantiti. Appaiono infatti lesi i principi sanciti dall'art. 102 e 112 del c.p.p. in quanto, sotto il primo aspetto, l'esercizio e l'effettivita' dell'esercizio della funzione giurisdizionale vengono in concreto resi impossibili dalla serie di sbarramenti e divieti configurati dal legislatore e sopra richiamati. Viene cioe' praticamente sottratta al giudicante la possibilita' anche solo astratta di valutazione e sindacato delle prove raccolte in dibattimento, nel contraddittorio delle parti processuali, per una generale e apriorisica incapacita' dell'ufficiale di p.g. di testimoniare nel caso richiamato, negandosi la possibilita' di esercizio della funzione giurisdizionale. E cio' altresi' in contrasto con l'ulteriore principio costituzionale dell'obbligatorieta' dell'azione penale (art. 112). Da un lato, infatti, il p.m. ha "dovuto" rinviare a giudizio la Borella per falsa testimonianza, dall'altro non ha potuto in concreto "esercitare" l'azione penale tramite la raccolta delle prove a sostegno della sua accusa: gli e' infatti negata la possibilita' di esaminare il suo teste principale, di richiedere un confronto, di utilizzare i verbali delle s.i.t. raccolte dalla p.g. In concreto, l'obbligo di esercizio dell'azione penale costituzionalmente sancito resta - nel caso di specie - solo formalmente riconosciuto, mentre sono sottratti al p.m. gli strumenti per sostenere l'accusa e rendere effettivo tale esercizio. Concludendo, ritiene il pretore che il divieto di cui all'art. 195, terzo e quarto comma, del c.p.p. riverberi la propria incostituzionalita' anche sull'art. 512 del c.p.p. Invero, tale norma impedisce l'utilizzazione processuale di quelle dichiarazioni che, proprio perche' rese sul luogo e nell'immediatezza del fatto, vengono ritenute dallo stesso legislatore piu' attendibili. Gli ufficiali di p.g. dovrebbero poter essere esaminati, alla stregua di qualunque altro teste de relato, sulle dichiarazioni rese dal testimone, secondo le modalita' previste dal primo comma dell'art. 195 del c.p.p. Qualora, tuttavia, come nel caso di specie, l'esame del primo teste non fosse possibile poiche' questi ha assunto la qualita' di imputato - e quindi secondo un criterio di impossibilita' non naturalistico ma giuridico - dovrebbe essere consentita l'acquisizione agli atti del verbale delle s.i.t. redatto dalla p.g. ex art. 357 del c.p.p. Invero, l'assunzione della qualita' di imputato e' circostanza certamente imprevedibile e dipendente dalle successive vicende processuali, mentre l'irripetibilita' (concetto che attiene alla natura intrinseca dell'atto e da valutare al momento di formazione dell'atto stesso, non successivamente) dell'atto discende dal mutamento della qualita' del teste in imputato e della ben nota facolta' di avvalersi del diritto di non rispondere. Pertanto, solo attraverso l'acquisizione e la lettura dell'atto raccolto dalla p.g. puo' evitarsi di "sottrarre" definitivamente tale prova al vaglio dibattimentale nel generale e superiore interesse all'accertamento della verita' attraverso l'esercizio della funzione giurisdizionale.
P. Q. M. Visti gli artt. 134 della Costituzione, 23 e segg. della legge n. 87/1953; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale sollevata dal p.m. degli artt. 2, n. 31, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, 195, quarto comma e terzo comma in relazione all'art. 512 del c.p.p. nella parte in cui vieta agli ufficiali di p.g., a differenza di qualunque altro teste, di deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese dal testimone, nonche' nella parte in cui non consentono, in caso di impossibilita' di ripetizione della deposizione per acquisizione della qualita' di imputato, di dare lettura delle dichiarazioni assunte dalla p.g. per contrasto con gli artt. 3, 102 e 112 della Costituzione; Ordina la sospensione del presente giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Manda alla cancelleria per la notificazione della presente ordinanza alla Presidenza del Consiglio e la comunicazione alle Presidenze dei due rami del Parlamento. Bergamo, addi' 21 ottobre 1991 Il pretore: DE RISI 91C1286