N. 4 SENTENZA 20 - 22 gennaio 1992

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo   penale   -   Misure   cautelari  -  Imputati  minorenni  -
 Applicazione - Intervento del p.m. - Irragionevolezza  di  un  uguale
 trattamento    di    situazioni    diverse   -   Non   fondatezza   e
 inammissibilita'.
 
 (C.P.P., art. 291, comma 1- bis, inserito dall'art. 12 del d.lgs.  14
 gennaio  1991,  n.  12;  c.p.p.,  art.  391,  terzo  comma, nel testo
 sostituito dall'art. 25 del d.lgs. 14 gennaio 1991, n.
 12).
 
 (Cost., artt. 3, primo  e  secondo  comma,  24,  secondo  comma,  31,
 secondo comma, e 111).
(GU n.5 del 29-1-1992 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Aldo CORASANITI;
 Giudici: prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof.
    Gabriele  PESCATORE,  avv.  Ugo  SPAGNOLI,  prof.  Francesco Paolo
    CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE,  prof.  Vincenzo  CAIANIELLO,
    avv.  Mauro  FERRI,  prof.  Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott.
    Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 291, comma  1-
 bis,  e  391,  comma  3, del codice di procedura penale, in relazione
 all'art. 23 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione  delle
 disposizioni  sul  processo  penale  a carico di imputati minorenni),
 promossi con le seguenti ordinanze:
      1) n. 2 ordinanze emesse il 4 e l'8 aprile  1991  dal  Tribunale
 per  i minorenni di Napoli, iscritte rispettivamente ai nn. 400 e 401
 del registro ordinanze 1991 e  pubblicate  nella  Gazzetta  Ufficiale
 della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell'anno 1991;
     2)  ordinanza  emessa  il  28  febbraio  1991 dal Tribunale per i
 minorenni di Catania, iscritta al n. 468 del registro ordinanze  1991
 e  pubblicata  nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima
 serie speciale, dell'anno 1991;
      3) ordinanza emessa il 9 marzo 1991 dal Giudice per le  indagini
 preliminari  presso  il  Tribunale di Catania, iscritta al n. 484 del
 registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta  Ufficiale  della
 Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 1991;
    Visti  gli  atti  di  intervento  del Presidente del Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio del 20 novembre  1991  il  Giudice
 relatore Giuliano Vassalli.
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  Con  due ordinanze di identico contenuto pronunciate il 4 e
 l'8 aprile 1991  (rispettivamente  n.  400  e  401  R.O.  del  1991),
 adottate  la prima in sede di riesame e la seconda in sede di appello
 relativo a misure cautelari, il Tribunale per i minorenni  di  Napoli
 ha  sollevato  questione  di  legittimita' costituzionale degli artt.
 291, comma 1- bis (inserito dall'art. 12 del decreto  legislativo  14
 gennaio 1991, n. 12), e 391, comma 3, del codice di procedura penale,
 in  relazione  all'art.  23  del  d.P.R.  22  settembre  1988, n. 448
 (Approvazione delle disposizioni sul  processo  penale  a  carico  di
 imputati  minorenni), deducendo la violazione degli artt. 3, 31, 101,
 24 e 76 della Costituzione. Osserva il  rimettente  che  l'art.  291,
 comma  1-  bis,  del codice di procedura penale, nel prevedere che il
 giudice puo' disporre misure meno gravi solo se il pubblico ministero
 non ha espressamente richiesto di provvedere in  ordine  alle  misure
 indicate,  inibisce al giudice l'autonoma valutazione circa la misura
 idonea e proporzionale al caso di specie. Da  cio',  si  afferma,  il
 contrasto con l'art. 3, primo comma, della Costituzione, in quanto il
 giudice  e'  costretto  "a trattare uniformemente situazioni diverse,
 nel senso che per non rimettere  in  liberta'  minori,  che  appaiono
 comunque  bisognevoli  di  sostegni  da  una  parte  e  in  grado  di
 commettere ulteriori reati dall'altra, applica misure  corrispondenti
 a  situazioni  diverse  e  non  proporzionate  ai  casi in esame". Si
 denuncia, inoltre, la violazione degli artt. 3, secondo comma,  e  31
 della  Costituzione,  giacche'  il giudice, tanto nell'ipotesi in cui
 disponga la rimessione in liberta' del minore, quanto  in  quella  in
 cui  applichi  una  misura  sproporzionata,  "non  pone  in  essere i
 presupposti per favorire il pieno  sviluppo  della  persona  umana  e
 anziche'    proteggere    la   gioventu'   puo'   creare   situazioni
 sostanzialmente  pregiudizievoli  e  puo'  privare  il   minore   del
 vantaggio  che l'applicazione di una misura cautelare appropriata gli
 arrecherebbe". La norma denunciata contrasterebbe,  poi,  con  l'art.
 24,  secondo  comma,  della Costituzione, in quanto il difensore deve
 limitarsi a chiedere o la remissione in liberta'  o  riportarsi  alle
 richieste   del   pubblico  ministero,  essendo  inutile  evidenziare
 l'opportunita' di applicare altre  misure,  nonche'  con  l'art.  101
 (rectius:  111) della Costituzione, posto che il giudice e' spinto ad
 una  motivazione  parziale  e  irragionevole,  essendo  obbligato  "a
 motivare un provvedimento diverso da quello che egli reputa idoneo al
 caso concreto".
    Viene  poi sollevata questione relativa all'art. 391, terzo comma,
 del codice di procedura penale,  come  sostituito  dall'art.  25  del
 decreto  legislativo  14  gennaio  1991,  n.  12,  nella parte in cui
 consente al pubblico ministero  di  non  comparire  alla  udienza  di
 convalida, per contrasto con gli artt. 76 e 24 della Costituzione.
    Osserva il rimettente che la legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81,
 ha  fissato  nell'art. 2, nn. 2 e 3, le direttive della "adozione del
 metodo orale" e della "partecipazione della accusa e della difesa  su
 basi  di  parita'  in  ogni stato e grado del procedimento". La norma
 denunciata, quindi, permettendo al pubblico ministero  di  presentare
 richieste scritte, non rispetterebbe ne' il principio di oralita' ne'
 quello  di  parita' tra difesa e accusa, vulnerando, altresi', l'art.
 24 della Costituzione. A quest'ultimo riguardo il giudice a quo  pone
 in risalto la circostanza che nel procedimento minorile "la eventuale
 misura  da  irrogare  viene  'costruita'  proprio  nella  udienza  di
 convalida nella quale devono essere presenti, e non solo formalmente,
 i genitori ed i servizi sociali e che  deve  costituire  comunque  un
 momento  di  approfondimento  della  personalita'  e  della  vita del
 minore"; sicche', conclude il rimettente, la cristallizzazione  delle
 richieste   del   pubblico   ministero   ad  un  momento  antecedente
 all'udienza di convalida, lede "il diritto del  minore  ad  avere  un
 provvedimento  idoneo  e corrispondente alla reale situazione ed alle
 esigenze emerse nel  corso  dell'udienza  alle  quali  situazioni  ed
 esigenze il difensore farebbe riferimento".
    2.  -  Con  ordinanza del 28 febbraio 1991 (R.O. 468 del 1991), il
 Tribunale per i minorenni di Catania,  chiamato  a  pronunciarsi  sul
 riesame  proposto avverso l'ordinanza con la quale era stata disposta
 la custodia cautelare in carcere nei confronti di  un  minorenne,  ha
 sollevato  questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 12 del
 decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12, con  il  quale  e'  stato
 introdotto  il  comma  1-  bis  nell'art. 291 del codice di procedura
 penale.  I  parametri  costituzionali  invocati   sono   parzialmente
 corrispondenti  a  quelli  dedotti  dal  Tribunale per i minorenni di
 Napoli.  Si  lamenta,  infatti,  la  violazione  dell'art.  3   della
 Costituzione,  assumendosi  che la norma impugnata da un lato vulnera
 il  principio  di  uguaglianza,  trattando  uniformemente  situazioni
 difformi,  dall'altro  e' censurabile sul piano della ragionevolezza,
 in quanto costringe il giudice - nei casi analoghi a quello di specie
 - o ad applicare una misura non  proporzionata  o  a  non  applicarne
 nessuna,  nonostante  la  ritenuta  necessita'. La stessa norma, poi,
 contrasta  con  l'art.  101  (rectius:  111),  primo   comma,   della
 Costituzione,  essendo impossibile una motivazione effettiva, nonche'
 con  l'art.  101,  secondo  comma,  della  Costituzione,  in   quanto
 assoggetta  il  giudice  non  alla  legge  ma alla determinazione del
 pubblico ministero. Si denuncia, infine, la violazione dell'art.  31,
 secondo  comma,  della  Costituzione,  sia  perche'  la  disposizione
 impugnata, anziche' proteggere l'infanzia e la gioventu', ne ostacola
 gli interessi allo sviluppo, sia perche' non rispetta il principio di
 residualita' della carcerazione a fini processuali che, nel  processo
 minorile,  il rimettente ritiene essere assurto al rango di principio
 costituzionale.
    3. - Con ordinanza del 9 marzo 1991 (R.O. 484 del 1991), anche  il
 Giudice  per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catania -
 nel respingere le richieste del pubblico ministero  di  applicare  la
 custodia  cautelare  nei  confronti  di  un  minore  -  ha  sollevato
 questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  12  del  decreto
 legislativo  14  gennaio 1991, n. 12. Oltre a lamentare la violazione
 degli artt. 3, 101 e 111 della Costituzione sulla base  di  argomenti
 analoghi a quelli svolti dal Tribunale per i minorenni di Catania (la
 cui  pronuncia  e'  richiamata  nella  ordinanza  di  rimessione), il
 giudice a quo denuncia:
       a)  il  contrasto  con  l'art.   13,   secondo   comma,   della
 Costituzione,  assumendo  che, ove il giudice ritenesse di accogliere
 la richiesta di custodia  cautelare  per  salvaguardare  le  esigenze
 cautelari, dovrebbe adottare un provvedimento a motivazione apparente
 o contraddittoria;
       b)  il contrasto con gli artt. 7 e 2, n. 59, della legge-delega
 16 febbraio 1987, n. 81, in  relazione  agli  artt.  70  e  76  della
 Costituzione,   in  quanto  la  norma  denunciata  ha  introdotto  la
 possibilita' per il pubblico ministero di richiedere - senza che cio'
 fosse previsto dalla delega - una determinata misura in via esclusiva
 e senza motivazione, rendendo al tempo stesso impossibile al  giudice
 una effettiva motivazione sul punto;
       c)   il   contrasto   con   l'art.   102,  primo  comma,  della
 Costituzione,  giacche'  la  giurisdizione  piena  viene  ad   essere
 compressa, essendo sottoposta alla vincolante richiesta di una parte.
    4. - In tutti i giudizi e' intervenuto il Presidente del Consiglio
 dei  ministri,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello
 Stato,  chiedendo   che   le   questioni   siano   dichiarate   parte
 inammissibili per difetto di rilevanza e parte non fondate.
    Osserva  la  difesa  dello  Stato che la questione di legittimita'
 dell'art. 291, comma 1- bis, del codice di procedura penale, inserito
 dall'art. 12 del decreto legislativo  14  gennaio  1991,  n.  12,  e'
 irrilevante  ai  fini  della definizione dei procedimenti di cui alle
 ordinanze rispettivamente pronunciate dal Tribunale per  i  minorenni
 di Napoli il 4 aprile 1991 (R.O. n. 400 del 1991) e dal Tribunale per
 i  minorenni  di  Catania il 28 febbraio 1991 (R.O. n. 468 del 1991),
 posto che in entrambi i casi i giudici  rimettenti  sono  chiamati  a
 provvedere  in  sede  di  riesame  della  misura  cautelare disposta.
 Considerato, infatti, che l'art.  309,  nono  comma,  del  codice  di
 procedura penale, stabilisce che il giudice del riesame puo' non solo
 annullare ma anche riformare il provvedimento impugnato, se ne desume
 che  al  giudice  stesso  e'  consentito di provvedere in difformita'
 delle  richieste  del  pubblico  ministero,  disponendo   la   misura
 cautelare  piu' adeguata alle esigenze del caso concreto. Nel merito,
 e  con  riferimento  ai  diversi  parametri  invocati,   l'Avvocatura
 osserva:
      1)  la  pretesa  violazione  dell'art.  3,  primo  comma,  della
 Costituzione e' frutto di una  erronea  interpretazione  della  norma
 denunciata:  questa,  infatti,  non  vincola  affatto  il  giudice ad
 adottare la misura che non reputi adeguata alle  esigenze  cautelari,
 posto  che  il  giudice ben puo' respingere la richiesta del pubblico
 ministero;  da  cio',  l'impossibilita'  di  ipotizzare  la   dedotta
 disparita'   di  trattamento  (applicazione  di  misure  difformi  in
 relazione a casi per i quali sussistono le medesime esigenze);
      2) neppure vulnerati sono gli artt.  3,  secondo  comma,  e  31,
 secondo  comma,  della  Costituzione.  Le  misure  nei  confronti dei
 minorenni, infatti, pur se  parametrate,  quanto  a  caratteristiche,
 modalita'  esecutive e criteri di scelta, alle necessita' del minore,
 non cessano  di  essere  destinate  a  soddisfare  esclusivamente  le
 esigenze  "cautelari". Ne deriva che gli interventi di "sostegno" del
 minorenne non possono certo essere attuati con le  misure  cautelari,
 ne' possono in se' giustificarne l'adozione;
      3)   quanto   alla   dedotta   violazione   dell'art.  24  della
 Costituzione, osserva l'Avvocatura che il diritto di  difesa  permane
 integro,  potendo  il difensore contraddire le deduzioni del pubblico
 ministero anche in punto  di  proporzionalita'  e  adeguatezza  delle
 misure;
      4)  la  norma  denunciata,  poi,  non  vulnera  l'art. 101 della
 Costituzione, in  quanto  non  "subordina"  il  giudice  al  pubblico
 ministero  ma esalta la ripartizione dei ruoli - a salvaguardia della
 terzieta' del giudice - in linea con la scelta del codice di limitare
 i poteri ex officio del giudice in tema di misure cautelari nel corso
 delle indagini preliminari.
    Quanto alla questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
 391,  terzo  comma,  del  codice  di procedura penale, sollevata, con
 riferimento agli artt. 24 e 76 della Costituzione dal Tribunale per i
 minorenni di Napoli  (R.O  400  e  401  del  1991),  l'Avvocatura  ne
 eccepisce  l'irrilevanza,  sul  presupposto che la questione medesima
 doveva essere eventualmente sollevata dal  giudice  della  convalida.
 Nel  merito,  viene  dedotta  l'infondatezza sotto entrambi i profili
 denunciati,  considerato  che  l'eventuale   assenza   del   pubblico
 ministero  in  sede  di  convalida  non limita le garanzie difensive,
 mentre  il  principio  di  oralita' e' tradizionalmente riferito alla
 fase dibattimentale.
                         Considerato in diritto
    1.  -  Le  quattro  ordinanze  di   rimessione,   pronunciate   in
 altrettanti  procedimenti  incidentali  relativi alla applicazione di
 misure cautelari nei confronti di  imputati  minorenni,  sottopongono
 all'esame   della   Corte   questioni  identiche  fondate  su  motivi
 parzialmente coincidenti: i relativi giudizi, pertanto, vanno riuniti
 per essere decisi con unica sentenza.
    2.  -  Deve  essere   preliminarmente   accolta   l'eccezione   di
 inammissibilita'  sollevata  dalla Avvocatura Generale dello Stato in
 ordine alla questione di legittimita' dell'art. 291,  comma  1-  bis,
 del codice di procedura penale, sollevata dal Tribunale di Napoli con
 ordinanza  del  4  aprile  1991  e  dal  Tribunale per i minorenni di
 Catania  con  ordinanza  del  28  febbraio  1991.   In   entrambi   i
 procedimenti  a  quibus,  infatti,  i  giudici  rimettenti sono stati
 investiti a seguito di istanza di  riesame  proposta  avverso  misure
 coercitive, sicche' la norma impugnata non assume alcuna rilevanza ai
 fini  della  decisione  che  i  giudici  medesimi  sono  chiamati  ad
 adottare. Va rilevato, in proposito, che il comma  1-  bis  dell'art.
 291  del  codice  di  procedura  penale,  nel  dettare  una specifica
 previsione  in  merito  al  procedimento  applicativo  delle   misure
 cautelari   nel  corso  delle  indagini  preliminari,  stabilisce  un
 peculiare  regime  che  incide   esclusivamente   sul   provvedimento
 adottabile  dal  giudice  a  seguito  ed  in funzione della richiesta
 formulata dal  pubblico  ministero,  senza  quindi  produrre  effetti
 ulteriori  rispetto  alla  circoscritta  "sede" processuale in cui la
 norma e' chiamata ad operare. Una volta  introdotto  il  giudizio  di
 riesame  avverso  l'ordinanza  che  ha disposto la misura coercitiva,
 spetta dunque al giudice della impugnazione, a norma  dell'art.  309,
 nono  comma,  del  codice di procedura penale, il potere, non solo di
 annullare o confermare l'ordinanza oggetto del riesame, ma  anche  di
 riformarla;   e  cio',  evidentemente,  a  prescindere  dal  tipo  di
 richiesta a suo  tempo  formulata  dal  pubblico  ministero,  proprio
 perche' quest'ultima, sia stata o meno rivolta a sollecitare in forma
 esclusiva  l'adozione  di  determinate  misure,  ha  esaurito  la sua
 funzione per essere integralmente  "assorbita"  nella  ordinanza  del
 giudice,  che  a  sua  volta  costituisce  l'unico tema devoluto alla
 cognizione del tribunale in sede di riesame.
    3. - Del pari inammissibile deve essere dichiarata la questione di
 legittimita' dell'art. 391, terzo  comma,  del  codice  di  procedura
 penale,  sostituito  dall'art.  25 del decreto legislativo 14 gennaio
 1991, n. 12, sollevata dal Tribunale per i minorenni di Napoli con le
 ordinanze emesse il 4 e l'8 aprile 1991. Come ha correttamente  posto
 in  risalto  l'Avvocatura  Generale  dello Stato nei relativi atti di
 intervento,  la  nuova  disciplina  che  prevede  la   partecipazione
 facoltativa  del  pubblico  ministero  alla  udienza di convalida non
 interferisce in alcun modo con  la  definizione  dei  procedimenti  a
 quibus,  trattandosi,  in entrambi i casi, di giudizi di impugnazione
 relativi  a  provvedimenti  riguardanti  l'applicazione   di   misure
 cautelari personali. A prescindere, infatti, dell'eccezionale ipotesi
 prevista  dall'art. 391, quinto comma, secondo periodo, del codice di
 procedura penale, per la quale la convalida dell'arresto  per  taluno
 dei   delitti   previsti  dall'art.  381,  secondo  comma,  funge  da
 presupposto  necessario per l'applicazione delle misure coercitive al
 di fuori dei  limiti  previsti  dall'art.  280,  la  decisione  sulla
 convalida  e'  concettualmente  e funzionalmente scissa da quella che
 inerisce alla applicazione delle  misure  cautelari,  nel  senso  che
 anche  ad  un  provvedimento  negativo  sulla  convalida puo' seguire
 l'applicazione delle misure e viceversa: un'autonomia che si proietta
 normativamente anche sul regime delle impugnazioni che possono essere
 proposte avverso le due categorie di provvedimenti,  giacche'  mentre
 la  decisione  sulla  convalida  puo'  essere  oggetto di ricorso per
 cassazione a prescindere dalle statuizioni de  libertate  (art.  391,
 quarto  comma),  contro i provvedimenti che riguardano l'applicazione
 delle misure coercitive puo' essere proposto, a seconda dei casi,  il
 riesame  (art.  309), l'appello (art. 310) o il ricorso immediato per
 cassazione (art. 311, secondo comma), senza che a tal fine rilevi  la
 decisione sulla convalida.
    La  norma  impugnata,  quindi,  ha  esaurito  la  propria sfera di
 applicazione, cessando conseguentemente di rilevare agli  effetti  di
 possibili  censure di costituzionalita', con la decisione del giudice
 che ha definito il procedimento incidentale sulla convalida.
    4. - Residua, pertanto, la  necessita'  di  affrontare  il  merito
 della  questione  di  legittimita'  dell'art.  291, comma 1- bis, del
 codice di procedura penale, sollevata dal Tribunale per  i  minorenni
 di  Napoli  con ordinanza dell'8 aprile 1991 (R.O. n. 401 del 1991) e
 dal Giudice per le indagini preliminari presso  il  Tribunale  per  i
 minorenni  di Catania con ordinanza del 9 marzo 1991 (R.O. n. 484 del
 1991).
    Entrambi i giudici rimettenti esordiscono,  nella  rassegna  delle
 censure,  evocando l'art. 3 della Costituzione quale parametro di cui
 si assume la violazione ad opera della norma oggetto di  impugnativa.
 Seppure  sotto  angolature  parzialmente  difformi,  le  ordinanze di
 rimessione  deducono,  ambedue,  la  violazione  del   principio   di
 uguaglianza   e  di  ragionevolezza,  nel  senso  che  la  "richiesta
 vincolante"  del  pubblico  ministero  finisce  per  "costringere  il
 giudice a trattare uniformemente situazioni diverse". Si assume, piu'
 in particolare, che ove il giudice ritenga adeguata al caso di specie
 una  misura  diversa  da  quella richiesta dal pubblico ministero, e'
 tenuto "a negare l'erogazione di altra misura meno  grave,  che  pure
 ritiene    necessaria",   generando   irragionevolmente   conseguenze
 identiche per situazioni fra loro divergenti, quali  sono  quella  di
 chi "abbisogna di misura", rispetto a quella di chi "non ne abbisogna
 affatto".
   Il  vizio  logico  da  cui  trae  alimento  la  tesi  concordemente
 sostenuta  dai  giudici  rimettenti,  e'  presto   svelato.   Occorre
 anzitutto  premettere  che,  come  correttamente osserva l'Avvocatura
 Generale  dello  Stato,  la  richiesta  del  pubblico  ministero   di
 provvedere esclusivamente sulla misura indicata, non comporta affatto
 per  il giudice un vincolo ad applicare la misura stessa nell'ipotesi
 in cui, pur ritenendo la sussistenza  dei  pericula  libertatis,  non
 reputi   la   specifica  misura  adeguata  alle  esigenze  cautelari,
 apprezzate alla stregua dei parametri delibativi enunciati  dall'art.
 19  del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448. In una simile eventualita',
 infatti, il giudice e' tenuto a respingere la richiesta del  pubblico
 ministero,  proprio  perche'  difettano  le condizioni normativamente
 stabilite  per  il  relativo  accoglimento.  Da  cio'   un   evidente
 corollario  che  vale a dissolvere il sospetto che la norma impugnata
 induca il giudice a "trattare uniformemente situazioni  diverse".  Il
 procedimento  di  applicazione  delle  misure cautelari delineato dal
 codice  postula,  infatti,  come   indefettibile   antecedente,   uno
 specifico  atto  propulsivo  rappresentato  dalla  "domanda"  che  il
 pubblico ministero rivolge al giudice: se, quindi,  come  precisa  la
 Relazione  al  Progetto  preliminare,  deve essere da un lato esclusa
 "una legittimazione ai provvedimenti cautelari in  capo  al  pubblico
 ministero  ..  cosi'  e' da escludersi l'adozione di misure cautelari
 che prescinda dall'iniziativa del pubblico  ministero  il  quale  e',
 sotto  questo  profilo,  soggetto necessariamente "richiedente" senza
 legittimazione a  disporre,  mentre,  per  converso,  il  giudice  e'
 soggetto  decidente,  ma  non  ex  officio".  Al  pubblico ministero,
 dunque, spetta il  potere  esclusivo  di  promuovere,  attraverso  la
 richiesta, il procedimento applicativo delle misure, non diversamente
 da  cio'  che accadrebbe ove si configurasse la richiesta stessa alla
 stregua di un atto di esercizio della  "azione  cautelare";  sicche',
 alla  domanda  della  parte  pubblica,  corrisponde  la  genesi di un
 fenomeno devolutivo, che assegna al giudice un potere  decisorio,  la
 "quantita'"  del  quale  ben puo' essere circoscritta all'interno dei
 confini tracciati dal devolutum. Se, dunque,  il  pubblico  ministero
 formula  al  giudice  domanda  di provvedere esclusivamente in ordine
 alla misura indicata e  se,  ancora,  il  giudice  ritiene  di  dover
 respingere  la richiesta reputando la misura inadeguata alle esigenze
 cautelari che ravvisa nella specie, il preteso "trattamento  uniforme
 di  situazioni  diverse",  su  cui  fan  leva le ordinanze rimessive,
 svanisce, nel suo rigore logico, proprio perche' manca il presupposto
 unificante: vale a dire  la  domanda  del  pubblico  ministero  e  la
 correlativa legittimazione del giudice a provvedere.
    In altri termini, e' ben vero che, nel respingere la richiesta, il
 giudice  mantiene  in  liberta'  tanto  la  persona  che a suo avviso
 abbisognerebbe di una misura diversa da quella indicata dal  pubblico
 ministero,  quanto  la  persona nei confronti della quale non ravvisi
 alcuna esigenza cautelare: ma cio' accadrebbe ugualmente in  tutti  i
 casi  in  cui il pubblico ministero, malgrado l'esistenza di pericula
 in libertate, non ritenesse di formulare alcuna richiesta  di  misura
 cautelare.
    5.  -  Il  Tribunale  per  i minorenni di Napoli denuncia anche la
 violazione degli artt. 3, secondo comma, e 31, secondo  comma,  della
 Costituzione,  poiche',  afferma  l'ordinanza,  "sia  che  il giudice
 rimetta  in  liberta'  il  minore  sia  che   applichi   una   misura
 sproporzionata,  non  pone  in  essere  i presupposti per favorire il
 pieno sviluppo della persona umana e anziche' proteggere la gioventu'
 puo' creare situazioni sostanzialmente pregiudizievoli e puo' privare
 il minore del vantaggio che l'applicazione di  una  misura  cautelare
 appropriata gli arrecherebbe".
    L'assunto  del  rimettente  e'  fallace  sotto  piu' profili. Come
 infatti giustamente osserva la difesa  dello  Stato,  e'  proprio  in
 funzione  delle particolari caratteristiche della condizione minorile
 che il  legislatore  ha  ritenuto  di  calibrare  specifiche  misure,
 aggiungendo   agli   ordinari  criteri  di  scelta  delle  stesse  la
 necessita'  che  l'adozione  del  provvedimento   restrittivo   della
 liberta'  del  minorenne  sia adeguata al fine "di non interrompere i
 processi educativi in atto" (art. 19, secondo comma,  del  d.P.R.  n.
 448  del  1988).  Ma  tutto  cio'  non  toglie  che le misure, pur se
 peculiari quanto a caratteristiche e modalita' attuative,  mantengono
 inalterata  la loro esclusiva funzione cautelare, restando quindi del
 tutto estranea al  tema  la  possibilita'  di  un  loro  impiego  con
 finalita' di "sostegno" per il minorenne, che l'ordinamento ha invece
 espressamente    riservato   all'intervento   di   specifici   organi
 amministrativi (art. 19, terzo comma, del d.P.R. n.  448  del  1988).
 Paradossalmente,  dunque,  sarebbe proprio il "vantaggio" prospettato
 dal rimettente a far assumere  alle  misure  cautelari  una  funzione
 educativa  o,  meglio,  "rieducativa", che finirebbe ineluttabilmente
 per porsi, questa si',  in  palese  contrasto  con  la  Costituzione,
 risultando  per  questa  via vulnerato il principio di presunzione di
 non colpevolezza che  certo  non  ammette  graduazioni  di  sorta  in
 funzione della maggiore o minore eta' degli imputati.
    Il  medesimo  Tribunale denuncia anche la violazione dell'art. 24,
 secondo comma, della Costituzione, osservando che la norma  impugnata
 vulnera   il  contraddittorio,  nel  senso  che  il  difensore  "deve
 limitarsi a chiedere o la remissione in liberta' del suo assistito  o
 riportarsi  alle  richieste" del pubblico ministero, "essendo inutile
 evidenziare l'opportunita' dell'applicazione di altre misure".  Anche
 a  voler prescindere dal rilievo che la questione, nei termini in cui
 risulta proposta, sembra riferirsi piu' alla  udienza  di  convalida,
 ove   si  instaura  un  contraddittorio  sulla  richiesta  di  misura
 cautelare  formulata  dal  pubblico  ministero,  che  non  alla  fase
 dell'appello   in   cui   versa   il   giudizio  a  quo,  a  svelarne
 l'infondatezza basta il dato incontrovertibile  che  alla  difesa  e'
 consentito  dedurre,  nell'ambito del tema oggetto di gravame, quanto
 ritenga necessario od opportuno ai fini dell'esercizio  del  relativo
 diritto,  restando  invece  del  tutto  inconferenti, ai fini che qui
 interessano, i profili  di  mero  fatto  riguardanti  il  concreto  e
 variabile atteggiarsi di ogni singola "strategia" defensionale.
   6.  -  Tanto  il Tribunale per i minorenni di Napoli che il Giudice
 per le indagini preliminari presso il Tribunale per  i  minorenni  di
 Catania,  lamentano  la  violazione dell'art. 111, primo comma, della
 Costituzione, assumendo  che  la  norma  impugnata,  costringendo  il
 giudice  "ad  adottare  un  provvedimento  diverso  da quello che una
 corretta deduzione gli suggerisce",  rende  in  concreto  impossibile
 "una  motivazione  effettiva".  Cio'  spinge  il giudice di Catania a
 denunciare anche il contrasto con l'art.  13,  secondo  comma,  della
 Costituzione,  giacche',  afferma  l'ordinanza,  ove  il  giudice per
 salvaguardare le esigenze cautelari,  "accedesse  alla  richiesta  di
 custodia cautelare avanzata dal P.M., dovrebbe farlo immotivatamente,
 (rectius: con motivazione contraddittoria o apparente)".
    Nessuno degli invocati parametri puo' dirsi violato dalla norma in
 questione.  Come  si  e'  gia'  posto  in risalto, infatti, quando il
 pubblico  ministero  formula  al  giudice  richiesta  di   provvedere
 esclusivamente  in ordine alla misura indicata, traccia i confini del
 devoluto all'interno del quale  il  giudice  stesso  e'  chiamato  ad
 operare  le proprie scelte secondo gli ordinari parametri delibativi.
 Il potere decisorio di  accogliere  o  respingere  "quella"  domanda,
 permane,  quindi,  integro  in tutti i suoi connotati, ed allo stesso
 viene cosi' a correlarsi funzionalmente l'onere di  motivazione,  che
 non subisce limiti diversi da quelli propri del tipo di decisione che
 il  giudice  deve  adottare.  Cio'  non toglie, peraltro, che, ove il
 giudice  ritenesse  di  dover  respingere  la richiesta, reputando la
 misura indicata dal pubblico ministero eccessiva  rispetto  a  quella
 adeguata  al  fine  di  salvaguardare le esigenze cautelari, in tanto
 puo' dirsi esaurientemente soddisfatto  l'onere  di  motivazione,  in
 quanto il giudice concretamente "indichi" nel provvedimento reiettivo
 quale  misura  reputi adeguata al caso di specie, cosi' da permettere
 al pubblico ministero una nuova domanda cautelare alimentata  proprio
 dagli apprezzamenti compiuti dall'organo giurisdizionale.
    7.  -  Le  considerazioni che precedono valgono anche a dissolvere
 l'ulteriore  dubbio  di  costituzionalita'  che  il  Giudice  per  le
 indagini  preliminari  presso il Tribunale per i minorenni di Catania
 solleva con riferimento agli artt. 101, secondo comma, e  102,  primo
 comma,  della Costituzione. Quanto al primo degli invocati parametri,
 il rimettente deduce che la norma impugnata priverebbe il giudice "di
 un suo potere  caratterizzante,  non  in  virtu'  di  una  situazione
 rigorosamente   predeterminata  dalla  legge,  ma  a  cagione  di  un
 discrezionale potere attribuito al  P.M.";  la  violazione  dell'art.
 102,  primo  comma,  della  Costituzione, viene invece prospettata in
 base all'assunto che la "novella  censurata"  (art.  12  del  decreto
 legislativo  n.  12  del  1991) esproprierebbe il giudice della piena
 giurisdizione,  "lasciandogli  residuare  una  sorta   di   semipiena
 giurisdizione,  sottoposta  alla  vincolante  richiesta  di una parte
 (seppur pubblica)". L'Avvocatura Generale dello  Stato  incisivamente
 osserva,  a  tale riguardo, che, portando alle estreme conseguenze la
 tesi sostenuta dal  giudice  a  quo,  la  violazione  degli  indicati
 precetti costituzionali "dovrebbe dirsi sussistente ogni volta in cui
 la  legge  vincoli  i  poteri  del  giudice alla sollecitazione delle
 parti": e il paradosso, al  di  la'  della  suggestione,  coglie  nel
 segno,  evidenziando  come  il  rimettente  erroneamente  postuli  un
 obbligo per il legislatore di delineare il  munus  del  giudice  alla
 stregua  di  un complesso di attribuzioni prive di qualsiasi raccordo
 con il potere di impulso delle parti. Ancora una volta, invece,  vale
 l'esatto  reciproco.  Se,  infatti,  la  domanda  della parte privata
 costituisce espressione del diritto  di  agire  e  difendersi  e  se,
 ancora,  la  domanda  del  pubblico  ministero  si colloca nell'alveo
 dell'obbligatorio esercizio dell'azione penale, e' evidente,  allora,
 che la configurazione di un giudice "autosufficiente" e "monopolista"
 verrebbe  a  porsi  in stridente antinomia rispetto a quei princi'pi,
 specie se calati in un modello processuale che  dichiaratamente  mira
 ad  esaltare  il ruolo delle parti ed a preservare, correlativamente,
 la terzieta' del giudice.
    8. - La questione deve essere dichiarata non fondata  anche  sotto
 l'ultimo  dei  profili  che  qui  occorre  esaminare:  vale a dire la
 lamentata violazione della direttiva  n.  59  della  legge-delega  16
 febbraio  1987,  n.  81,  che  il Giudice per le indagini preliminari
 presso il Tribunale per  i  minorenni  di  Catania  denuncia  essersi
 realizzata  con  l'introduzione  della  norma oggetto di impugnativa.
 Piu' in  particolare,  il  rimettente  osserva  che  la  disposizione
 inserita dall'art. 12 del decreto legislativo 14 gennaio 1991, n. 12,
 eccede  dai  limiti  imposti  con la legge di delegazione perche': ha
 introdotto una "richiesta vincolante" del  pubblico  ministero  della
 quale  non  v'e'  traccia "nella pur puntuale previsione della legge-
 delega";  ha  conferito  al  pubblico   ministero   "il   potere   di
 immotivatamente  richiedere una determinata misura in via esclusiva";
 ha  infine  reso  impossibile al giudice, per le ragioni gia' esposte
 nella medesima ordinanza, "di svolgere alcuna effettiva motivazione".
 L'ultimo degli accennati rilievi deve ovviamente ritenersi  assorbito
 dalle  considerazioni  che  questa  Corte  ha  svolto  in merito alla
 dedotta violazione degli artt. 111, primo comma, e 13, secondo comma,
 della Costituzione, posto che di tali precetti la legge-delega si  e'
 limitata  ad  operare  una semplice trasposizione riproduttiva, nella
 parte in cui ha sancito l'obbligo  per  il  giudice  di  disporre  le
 misure  di coercizione personale "con provvedimento motivato". Quanto
 agli altri due rilievi sui  quali  il  rimettente  fonda  la  propria
 denuncia,  piu'  ragioni  ne  rivelano la inconsistenza. E' ben vero,
 infatti, che la direttiva 51 della legge-delega non ha  espressamente
 previsto  la  disciplina  introdotta  con  la  norma impugnata: ma un
 assunto  di  tal  genere  rappresenta,  in  se',  null'altro  che  la
 constatazione  del  naturale  rapporto  di  "riempimento" che lega la
 norma delegata a quella delegante, dovendosi altrimenti ritenere  che
 le  funzioni  del  legislatore  delegato  siano  limitate ad una mera
 "scansione linguistica" delle previsioni dettate dal  delegante,  con
 evidente  snaturamento  del ben diverso regime che la Costituzione ha
 inteso prefigurare. Dovendosi dunque verificare se la norma impugnata
 violi o meno sul  piano  contenutistico  i  criteri  enunciati  dalla
 direttiva 59, ci si avvede agevolmente che la conformita' della norma
 a  quei  criteri  e'  fuori  discussione.  Gia'  sul piano semantico,
 infatti,  l'indicata  direttiva  correla  intimamente  tra  loro  "il
 potere-dovere del pubblico ministero di richiedere", al potere-dovere
 "del  giudice  di  disporre"  le  misure  di  coercizione  personale,
 evocando,  cosi',  una  corrispondenza  biunivoca  tra  richiesta   e
 decisione  che  ben  puo' spingersi a prefigurare una interdipendenza
 necessaria tra il "tipo" di richiesta  ed  il  "tipo"  di  decisione.
 Nello  stabilire,  quindi,  che  nel corso delle indagini il pubblico
 ministero puo' chiedere al giudice di provvedere esclusivamente sulle
 misure  indicate,  il  legislatore  delegato  non  solo  non  si   e'
 discostato  dalle scelte operate dal legislatore delegante, ma le ha,
 anzi, coerentemente sviluppate, secondo  una  linea  che,  mirando  a
 privilegiare la netta separazione di ruoli tra soggetto richiedente e
 organo  deliberante,  indubbiamente  consente  di  prevedere  che  il
 decisum sia rigorosamente  circoscritto  nei  confini  tracciati  dal
 petitum.
    Per  cio'  che  infine  concerne  l'asserito  potere  del pubblico
 ministero "di immotivatamente richiedere una  determinata  misura  in
 via  esclusiva",  il  rimettente cade nell'equivoco di confondere tra
 loro l'onere di allegazione, che incombe sul pubblico ministero,  con
 il presunto obbligo di motivazione della specifica richiesta.
    E'  fuori di dubbio, infatti, che il pubblico ministero sia tenuto
 a "presentare al  giudice  gli  elementi  su  cui  si  fonda  la  sua
 richiesta"  (direttiva  59,  secondo periodo, nonche' art. 291, primo
 comma, del codice di procedura penale), ma tutto cio' non ha nulla  a
 che  vedere  con  il  supposto  obbligo - che il rimettente, errando,
 ritiene desumibile dalla legge-delega - di motivare le ragioni per le
 quali il pubblico ministero si e' indotto a chiedere  al  giudice  di
 provvedere  esclusivamente  in  ordine  alle misure indicate. Spetta,
 dunque, solo al giudice il dovere di motivare il provvedimento con il
 quale accogliere o respingere la  richiesta  formulata  dal  pubblico
 ministero,  e, nell'un caso come nell'altro, l'esercizio di un simile
 dovere  non  potra' ritenersi compresso o eluso anche nell'ipotesi in
 cui, come gia' si e'  detto,  il  pubblico  ministero  abbia  chiesto
 l'applicazione di una determinata misura "in via esclusiva".
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti i giudizi:
      dichiara non fondata la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  291, comma 1-bis, del codice di procedura penale, inserito
 dall'art.  12  del  decreto  legislativo  14  gennaio  1991,  n.   12
 (Disposizioni  integrative  e correttive della disciplina processuale
 penale e delle norme ad essa collegate),  sollevata,  in  riferimento
 agli  artt.  3, primo e secondo comma, 24, secondo comma, 31, secondo
 comma, e 101 (rectius: 111) della Costituzione, dal Tribunale  per  i
 minorenni  di  Napoli  con ordinanza dell'8 aprile 1991 e dal Giudice
 per le indagini preliminari presso il Tribunale per  i  minorenni  di
 Catania,  in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, primo comma,
 101, secondo comma, 13, secondo comma,  70  e  76  (in  relazione  al
 combinato  disposto degli artt. 7 e 2, n. 59, della legge 16 febbraio
 1987, n. 81) e 102, primo comma, della  Costituzione,  con  ordinanza
 del 9 marzo 1991;
      dichiara    inammissibile    la    questione   di   legittimita'
 costituzionale dell'art. 291, comma 1- bis del  codice  di  procedura
 penale,  inserito  dall'art.  12  del  decreto legislativo 14 gennaio
 1991, n. 12 (Disposizioni integrative e correttive  della  disciplina
 processuale  penale  e  delle norme ad essa collegate), sollevata dal
 Tribunale per i minorenni di Napoli con ordinanza del 4 aprile 1991 e
 dal Tribunale per  i  minorenni  di  Catania  con  ordinanza  del  28
 febbraio 1991;
      dichiara    inammissibile    la    questione   di   legittimita'
 costituzionale dell'art. 391, terzo comma, del  codice  di  procedura
 penale,  nel testo sostituito dall'art. 25 del decreto legislativo 14
 gennaio 1991, n. 12  (Disposizioni  integrative  e  correttive  della
 disciplina  processuale  e  delle norme ad essa collegate), sollevata
 dal Tribunale per i minorenni di Napoli con ordinanze del 4 e  dell'8
 aprile 1991.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 20 gennaio 1992.
                       Il presidente: CORASANITI
                        Il redattore: VASSALLI
                       Il cancelliere: FRUSCELLA
    Depositata in cancelleria il 22 gennaio 1992
                       Il cancelliere: FRUSCELLA
 92C0071