N. 6 ORDINANZA 20 - 22 gennaio 1992
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Reati in genere - Interesse privato in atti di ufficio e abuso innominato di ufficio - Trattamento sanzionatorio - Carenza di disciplina transitoria - Contraddittorio richiamo al "divieto di irretroattivita'" - Discrezionalita' legislativa - Manifesta infondatezza. (C.D., artt. 13 e 20 della legge 26 aprile 1990, n. 86, in relazione agli artt. 323 e 324 del c.p.). (Cost., art. 3).(GU n.5 del 29-1-1992 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: dott. Aldo CORASANITI; Giudici: prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI;
ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 13 e 20 della legge 26 aprile 1990, n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione), in relazione agli artt. 323 e 324 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 9 aprile 1991 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catanzaro nel procedimento penale a carico di Costa Giulio Vito ed altri, iscritta al n. 449 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 1991; Visto l'atto di intervento del Presidente del consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 4 dicembre 1991 il Giudice relatore Giuliano Vassalli; Ritenuto che, nel corso di un processo penale a carico di persone imputate di interesse privato in atti di ufficio, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catanzaro ha, con ordinanza del 9 aprile 1991, sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimita' "del combinato disposto degli artt. 13 e 20 della legge 26 aprile 1990, n. 86, in relazione agli artt. 323 e 324 del codice penale", nella parte in cui "intro- duce, nel passato", una chiara disparita' di trattamento fra gli autori dell'abuso gia' punibile a norma dell'art. 323 del codice penale e l'autore del piu' grave reato di interesse privato in atti di ufficio previsto dall'art. 324 dello stesso codice, espressamente abrogato dall'art. 20 della legge n. 86 del 1990; che il giudice a quo denuncia, quindi, la mancata previsione di una disciplina transitoria che renda punibili i fatti di interesse privato, non potendo ravvisarsi "omogeneita'" oggettiva fra la condotta punita dall'art. 324 del codice penale e la condotta punita dall'art. 323 dello stesso codice, quale sostituito dall'art. 13 della legge n. 86 del 1990, una disomogeneita' "accentuata dalla proclamata abrogazione della vecchia norma"; e che, quindi, stando al giudice a quo, l'assetto cosi' delineato rivelerebbe una vera e propria "iniquita'" nella disciplina, risultando essa incentrata nella persistente punibilita' della fattispecie di abuso innominato, "ad offensivita' meno grave" rispetto alla presa di interesse, per giunta, patrimoniale, una fattispecie con un tasso di antigiuridicita' piu' elevato e, nonostante cio', espressamente abrogata dalla legge n. 86 del 1990; che nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza e, in subordine, non fondata, avendo il legislatore, nell'esercizio del suo potere discrezionale, operato scelte non sindacabili in sede di legittimita' costituzionale; Considerato che l'eccezione d'inammissibilita' avanzata dall'Avvocatura Generale dello Stato deve essere disattesa, desumendosi dall'ordinanza di rimessione l'addebito contestato anche con riferimento alla ritenuta ipotizzabilita' di una fattispecie di presa d'interesse di contenuto patrimoniale e tanto appare sufficiente perche' venga ritenuto assolto l'onere di cui all'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; che, peraltro, in punto di rilevanza, la questione va rigorosamente circoscritta alla disciplina di diritto intertemporale, del resto espressamente richiamata dal giudice a quo sia allorche' contesta la disparita' di trattamento relativamente al "passato", sia quando imputa l'"iniquita'" della norma censurata con riferimento al regime transitorio; che, cosi' delimitato l'ambito della denuncia di illegittimita', il petitum avuto di mira dall'ordinanza di rimessione si sostanzia nella richiesta di introdurre una norma transitoria che renda punibili i fatti di presa d'interesse di contenuto patrimoniale, non perseguibili alla stregua della disciplina risultante dalla legge n. 86 del 1990, in base ai princi'pi che governano la successione della legge penale nel tempo; che, a parte la contraddizione insita nel richiamo al "divieto di irretroattivita'" coinvolgente una disciplina sopravvenuta che il giudice a quo afferma "disomogenea" rispetto a quella abrogata, la questione cosi' come proposta, si sostanzia in una censura diretta a sindacare scelte discrezionali del legislatore nella valutazione dei beni tutelati dalla norma penale, scelte non censurabili in questa sede - soprattutto allorche' venga dedotta la non conformita' alla Costituzione di una disciplina destinata ad esaurirsi con il decorso del tempo - ove tali scelte non sconfinino nella arbitrarieta', certamente non invocabile nella specie, perche' alla abrogazione dell'art. 324, conseguente ad una piu' complessa ed articolata repressione dell'abuso di ufficio, assurto da ipotesi residuale a fattispecie di reato caratterizzata da peculiari connotazioni soggettive ed oggettive, non era comunque necessario porre riparo con la previsione di un'espressa disciplina transitoria; che, peraltro, il giudice a quo ha omesso del tutto di considerare come la predetta disciplina risulta individuata dall'ormai consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale, anche a seguito di una decisione delle Sezioni Unite e' nel senso di ritenere operanti i princi'pi disciplinanti la successione della legge penale nel tempo, con la conseguente applicabilita' dell'abrogato art. 324 quando questo si riveli, quoad poenam, norma piu' favorevole; che, quindi, sotto entrambi i profili sopra enunciati, la questione proposta deve dirsi manifestamente infondata; Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale;
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 13 e 20 della legge 26 aprile 1990, n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione), in relazione agli artt. 323 e 324 del codice penale, questione sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Catanzaro con ordinanza del 9 aprile 1991. Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 gennaio 1992. Il presidente: CORASANITI Il redattore: VASSALLI Il cancelliere: FRUSCELLA Depositata in cancelleria il 22 gennaio 1992. Il cancelliere: FRUSCELLA 92C0073