N. 17 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 ottobre 1991
N. 17 Ordinanza emessa il 30 ottobre 1991 dal tribunale di Trapani nel procedimento penale a carico di Peralta Antonello Processo penale - Dibattimento - Divieto per il collegio giudicante di procedere alla lettura delle dichiarazioni gia' rese al p.m. o al giudice durante le indagini preliminari da imputato di reato connesso o collegato, per il quale e' in corso separato procedimento, quando, comparso in seguito a citazione ai sensi dell'art. 210 del c.p.p., costui si sia avvalso della facolta' di non rispondere - Ingiustificata differenza di tale disciplina da quella prevista, in analoga situazione, nel caso in cui l'imputato di reato connesso non compaia al dibattimento - Irrazionalita' - Compressione dei poteri di cognizione del giudice nell'esercizio della giurisdizione - Impossibilita' di redigere corretta ed adeguata motivazione nonche' di effettivo e concreto esercizio della giurisdizione penale. (Legge 16 febbraio 1987, n. 81, art. 2, n. 76; c.p.p. 1988, art. 513, secondo comma). (Cost., artt. 3, 24, 111 e 112).(GU n.6 del 5-2-1992 )
IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale a carico di Peralta Antonello imputato dei reati di cui agli artt. 56, 519 e 527 del c.p. IN FATTO Peralta Antonello e' stato tratto a giudizio perche' ritenuto responsabile di aver tentato di usare violenza carnale nei confronti della minore Messina Vincenza. A seguito di dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari la Messina veniva indagata dal procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minori di Palermo per i reati collegati di calunnia e simulazione di reato. Il p.m. ha richiesto l'audizione della parte offesa nell'odierno dibattimento ai sensi dell'art. 210 del c.p.p. ed in tal senso e' stata ammessa la prova. La Messina, in sede di esame ai sensi dell'art. 210 del c.p.p., si e' avvalsa della facolta' di non rispondere. Il p.m., a questo punto, chiedeva che si desse lettura delle dichiarazioni in precedenza rese dalla p.o.; il tribunale, accogliendo eccezione della difesa, rigettava la richiesta, rilevando l'inapplicabilita' al caso di specie dell'art. 513.2 del c.p.p. Il p.m. ha, quindi, sollevato questione di costituzionalita' della norma di cui all'art. 513.2 del c.p.p. in relazione all'art. 3 della Costituzione. IN DIRITTO La questione e' rilevante per la manifesta decisivita' delle dichirazioni della Messina; non e' manifestamente infondata sia sotto il profilo dedotto dal p.m. che in relazione agli artt. 24, 111 e 112 della Costituzione, come esaurientemente gia' rassegnato dal tribunale di Roma nell'ordinanza del 28 giugno 1991 nel procedimento penale a carico di Rinversi ed altri. Quel collegio ha cosi' motivato: la lettura dell'intero art. 513 del c.p.p., alla luce della regola generale sulla valutazione delle dichiarazioni del coimputato dello stesso reato, ovvero di reato connesso, dettata dall'art. 192, terzo comma, del c.p.p., e' sufficiente per far apprezzare con immediatezza la incongruita' immotivata e quindi la irragionevolezza e la violazione dell'art. 3 della Costituzione - della mancata previsione, nell'ultimo periodo del secondo comma dell'art. 513 del c.p.p., della possibilita' di dar lettura dei verbali contenenti le dichirazioni rese dalle persone in- dicate nell'art. 210 del c.p.p., non solo nel caso - espressamente e unicamente previsto dalla norma de quo - di impossibilita' di avere la presenza del "dichiarante", ma anche nel caso - come quello di specie (che e' anche quello statisticamente piu' frequente nei processi contro la criminalita' organizzata) - in cui il "dichiarante" compaia, ma dichiari di non voler rispondere alle domande. E' opinione diffusa che le norme sulla lettura abbiano carattere eccezionale nel nuovo processo penale, e quindi non siano suscettibili di interpretazione analogica: non puo' che prendersi atto della formulazione del secondo comma dell'art. 513 del c.p.p., che, nel suo chiaro e inequivoco tenore letterale, non autorizza questo collegio a supplenze interpretative e detta una disciplina del tutto diversa da quella prevista dal primo comma, per le dichiarazioni rese dagli imputati nel proprio procedimento, la' dove e' espressamente prevista la acquisizione e la lettura delle dichiarazioni rese in precedenza dal contumace o dall'imputato che rifiuta di sottoporsi all'esame; cosi' come non puo' che prendersi atto della differenziazione di trattamento prevista nello stesso secondo comma, tra gli imputati di reati connessi o separatamente giudicati la cui presenza non si possa ottenere, e quelli che invece compaiono, ma fanno scena muta; nel primo caso le dichirazioni rese in precedenza sono acquisibili; nel secondo caso non lo sono, stante la formulazione attuale della norma che non lascia spazio all'interprete ordinario. E allora, e' piu' che giustificato domandarsi se una siffatta differenziazione tra imputati, coimputati, coimputati separatamente giudicati, e imputati di reati connessi, abbia una razionale giustificazione in una obiettiva differenza di situazioni processuali e sostanziali, ovvero se la discriminazione - sia essa frutto di una mal coordinata formulazione normativa o di una precisa scelta del legislatore delegato - si presenti come ingiustificata sotto il profilo razionale e si traduca percio' in una irrazionale menomazione del potere-dovere del giudice penale di giudicare conoscendo, e di motivare adeguatamente la valutazione delle prove legittimamente previste dalla norma processuale e altrettanto legittimamente aquisibili al processo. Orbene, non pare al collegio che sussista quella differenza sostanziale di posizione che giustifichi un trattamento processuale diverso, queanto alle letture, tra imputati (e coimputati del medesimo processo) e imputati del medesimo reato, ma separatamente processati, ovvero imputati dei reati connessi: non vi e' dubbio, infatti, che si tratta sempre di persone cui viene mosso un addebito di reato e che hanno, quindi, una particolare veste e interesse processuale per rendere dichiarazioni sul fatto che viene loro addebitato, insieme ad altri e di soggetti, infine, che hanno reso la loro dichiarazione con tutte le particolari cautele e garanzie previste dal codice di rito. Non basta: non pare che sussista, poi, nessuna differenza sostanziale tra le ipotesi previste nel secondo comma dall'art. 513 del c.p.p.: infatti non e' dato comprendere perche', se il dichiarante non e' piu' reperibile ovvero, comunque, non si riesce a portarlo davanti al giudice, le dichiarazioni rese in precedenza possono essere lette e valutate, mentre invece se compare e non vuole piu' parlare, tutto cio' che e' stato legittimamente acquisito in precedenza non possa essere acquisito e debba essere sottratto alla valutazione del giudice. Dunque, non solo non esistono ragioni sostanziali valide per distinguere tra le posizioni teste' indicate, ma tale differenziazione appare ancora piu' incongrua - e fonte di ingiustificata disparita' di trattamento e di irragionevolezza normativa - se si tengono presenti le norme generali dettate dal codice di rito in tema di valutazione delle prove. Infatti, il nuovo codice mostra chiaramente di respingere il principio della inutilizzabilita' ex lege delle dichiarazioni del coimputato dello stesso reato ovvero di connesso e giudicato separatamente: anzi, detta la regola generale che dette dichiarazioni possono essere utilizzate purche' riscontrate da elementi di prova che ne confermino l'attendibilita': art. 192, terzo comma, del c.p.p. Si tratta di una regola generale, che, tra l'altro equipara gli imputati del medesimo processo (e coimputati in senso stretto) agli imputati di reato connesso. Ebbene, dopo aver posto tale regola generale, l'incongrua formulazione della ultima parte del secondo comma dell'art. 513 del c.p.p. viene a vanificare la concreta operativita' della regola generale teste' ricordata, impedendo (e, si ripete, sono i casi piu' frequenti nei procedimenti piu' gravi, come quelli contro la criminalita' organizzata) al giudice di poter compiere tale valutazione allorche' il medesimo soggetto processuale, ossia il coimputato di reato connesso, e separatamente giudicato, non sia comunque sottratto alla comparizione, bensi' sia comparso, decidendo pero' di non rispondere piu' ad ulteriori domande. In tal modo viene irrazionalmente ed arbitrariamente scriminata la posizione del coimputato ex art. 210 del c.p.p. rispetto a quella dell'imputato nel giudizio in corso - il quale sa che, rifiutandosi di sottoporsi all'esame, richiesto da una delle parti ed ammesso dal giudice, non riuscira' ad impedire che, a richiesta di parte, possa darsi lettura delle sue dichiarazioni e si possa fara piena utilizzazione delle stesse ai fini del giudizio nel merito. Il differente regime delineato dal nuovo codice di rito ha, infatti, per presupposto due contegni processuali sostanzialmente simili, ed ambedue concretantisi nel rifiuto di rendere l'esame. Ancora piu' evidente e' l'arbitrarieta' della discriminazione prevista nell'ambito dello stesso secondo comma dell'art. 513 del c.p.p. ove viene diversamente disciplinata la acquisibilita' e la lettura delle dichiarazioni rese dallo stesso soggetto, a seconda che costui sia o meno comparso in dibattimento, consentendosi la lettura solo se le ricerche e le citazioni - per qualunque ragione, anche la volontaria irreperibilita'| - non conseguono effetto, ma vietandosi le letture se invece il soggetto compare e dichiara di non voler piu' rispondere; non solo in tal modo si finisce per attribuire una sorta di potere dispositivo delle proprie dichiarazioni legalmente rese, che a nessuno, e meno che mai all'imputato, e' consentito dal codice di procedura, ma, in ogni caso si subordina la valutazione di una prova ad una discriminazione tra posizioni che non ha alcuna giustificazione razionale. Dunque, assoluta ingiustificatezza del diverso trattamento riservato a posizioni identiche o analoghe, con intrinseca contraddizione ai principi generali dettati da altre norme dello stesso codice; non sembra percio' infondato il dubbio di violazione dell'art. 3 della Costituzione. Tale arbitraria ed ingiustificata diversita' di trattamento si risolve, inoltre, in una inammissibile compressione dei poteri di cognizione del giudice nell'esercizio della giurisdizione, sebbene questi, nel valutare le dichiarazioni rese dal coimputato dello stesso reato ovvero di reato connesso, e giudicato separatamente, debba compiere una obbligatoria attivita' di verifica, in applicazione della regola di valutazione dettatagli dall'art. 192, terzo comma, del c.p.p., e quindi, non possa riconoscere valenza probatoria a tali dichiarazioni in se', ma unitamente agli altri elementi di prova che ne corroborino l'attendibilita'. In altri termini, il particolare criterio di valutazione della prova, imposto al giudice dal surrichiamato art. 192, terzo comma, del c.p.p.), pena la rilevabilita' anche d'ufficio, in ogni stato e grado del procedimento della sua violazione (art. 191 del c.p.p.), nel caso del coimputato comparso ai sensi dell'art. 210, terzo comma, del c.p.p. che si rifiuta di rispondere, non ha modo alcuno di essere applicato, poiche' e' inibita la stessa acquisizione delle dichiarazioni rese dal coimputato nel processo separato: con la conseguenza che la giurisdizione, del giudice, in questo particolare caso, sebbene disciplinata da una regola generale ed obbligatoria, presidiata da una sanzione processuale, non ha il minimo spazio per essere esercitata. Pare, dunque, al tribunale che il congegno normativo introdotto dall'art. 513, secondo comma, del c.p.p. in attuazione della direttiva n. 76 dell'art. 2 della legge delega n. 81/1987, sia viziato da violazione dell'art. 3 della Costituzione, nonche' da violazione del principio di costituzione materiale sotteso dagli artt. 24 e 112 della Costituzione e che puo' essere sinteticamente indicato come l'esigenza fondamentale dello Stato - cui corrispondendo legittime aspettative dei cittadini - di assicurare l'effettivo e concreto esercizio della giurisdizione penale. Di non minore rilievo appare, infine, una ulteriore considerazione: l'applicazione della prescrizione normativa, dettata dall'art. 513, secondo comma, del c.p.p. realizza, in concreto, un condizionamento, razionalmente ingiustificato, dello stesso esercizio della funzione giurisdizionale anche sotto il profilo dell'art. 111, primo comma, della Costituzione, poiche' in divieto di acquisire le dichiarazioni del coimputato citato ai sensi dell'art. 210 del c.p.p. - che, comparendo, si rifiuta di rispondere - contenenti riferimenti a fatti rilevanti ai fini della decisione, comporta l'impossibilita' di una corretta ed adeguata motivazione della decisione. In tal caso il giudice si trovera' a decidere costretto ad ignorare aspetti decisivi del fatto portato alla sua cognizione, e non potra' soddisfare appieno l'esigenza di una motivazione completa e immune da vizi logici (art. 606, primo comma, lett. e), del c.p.p.). Le considerazioni che precedono inducono, pertanto, a sollevare la questione di illegittimita' costituzione degli artt. 513, secondo comma, del c.p.p. e dell'art. 2, n. 76, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, in relazione agli artt. 3, 24, primo e secondo comma, 111 e 112, della Costituzione, nei sensi e termini in precedenza denunciati. Il tribunale ritiene di aderire in toto, facendole proprie, alle argomentazioni sopra esposte, valide anche nel caso di richiesta di lettura di dichiarazioni rese da imputato di reato collegato che si e' avvalso della facolta' di non rispondere come nella fattispecie in esame.
P. Q. M. Visti gli artt. 23 e segg. della legge 11 marzo 1953, n. 87; Ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 2, n. 76, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, e 513.2 del c.p.p. per violazione degli artt. 3, 24, primo e secondo comma, 111 e 112 della Costituzione nella parte in cui vietano che possa darsi lettura delle dichiarazioni rese al p.m. o al giudice durante le indagini preliminari, da imputato di reato connesso o collegato per il quale e' in corso separato procedimento e citato ai sensi dell'art. 210 del c.p.p., qualora lo stesso, comparso, dichiari di volersi avvalere della facolta' di non rispondere; Manda alla cancelleria la notificazione alla Presidenza del Consiglio e la comunicazione alla Presidenza del Senato e della Cam- era dei deputati della presente ordinanza; Sospende il procedimento penale a carico di Peralta Antonello; Dispone la trasmissione alla Corte costituzionale degli atti del procedimento e della presente ordinanza unitamente alla prova delle avvenute notificazioni e comunicazioni sopra indicate. Trapani addi', 30 ottobre 1991 Il presidente: Piero GRILLO I giudici: Anna GRILLO - Maria BORSELLINO 92C0083