N. 22 ORDINANZA (Atto di promovimento) 5 novembre 1991
N. 22 Ordinanza emessa il 5 novembre 1991 dal tribunale militare di Padova nel procedimento penale a carico di De Santis Massimo Reati militari - Allontamento illecito - Reato punibile su richiesta del comandante di Corpo - Ritenuta natura sostanziale e non processuale della richiesta - Conseguente antigiuridicita' del fatto in dipendenza di valutazioni rimesse al comandante - Contrasto con il principio della riserva di legge in materia penale - Prospettata violazione dei diritti fondamentali della persona con incidenza sullo spirito democratico cui e' informato l'ordinamento delle Forze armate. (C.P.M.P., art. 147, in relazione all'art. 260 stesso codice). (Cost., artt. 25 e 52).(GU n.6 del 5-2-1992 )
IL TRIBUNALE MILITARE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa contro De Santis Massimo, nato il 24 dicembre 1967 a Miggiano (Lecce), atto di nascita n. 69/A.I., ivi residente in via Mazzini n. 53, celibe, operaio, incensurato; soldato effettivo nel terzo battaglione genio guastatori "Verbano" in Udine, libero, imputato di allontanamento illecito (art. 147, secondo comma, del c.p.m.p.) perche', soldato nel terzo battaglione genio guastatori "Verbano" in Udine, legittimamente assente dal reparto per fruizione di una licenza fino alle ore 24 del 3 aprile 1991, senza giusto motivo, si presentava allo stesso solo l'8 aprile 1991. FATTO E DIRITTO Questo tribunale ritiene provato l'allontanamento illecito (art. 147, secondo comma, del c.p.m.p.) attribuito al soldato De Santis Massimo per la sua assenza dal 3 all'8 aprile 1991. Si tratta di reato che come ogni altro per il quale sia prevista la pena della reclusione militare non superiore nel massimo a sei mesi, non puo' essere punito se non a seguito di richiesta del comandante (art. 250, secondo comma, del c.p.m.p.); ma nella specie la richiesta e' stata presentata (f. 4). La norma dell'art. 260, secondo comma, e' stata piu' volte sottoposta al vaglio della Corte costituzionale, manifestando tuttavia un'inusitata capacita' di resistenza. Con ben cinque sentenze (nn. 42/1985, 189/1976, 60/1978, 114/1982, 397/1987) si e' stabilito che essa non viola il principio di uguaglianza, ne' i diritti della persona, ne' i principi della diretta responsabilita' penale del funzionario, della democraticita' dell'ordinamento militare, dell'imparzialita' della pubblica amministrazione, dell'obbligatorieta' dell'azione penale. Trovandosi di fronte ad un reato punibile a richiesta, questo giudice non intende sollevare ancora questioni gia' decise dalla Corte; ma, non puo' esimersi dal manifestare nuovi dubbi di legittimita' che investono non tanto la richiesta di procedimento in se' considerata, quanto piuttosto la norma incriminatrice dell'art. 147 del c.p.m.p., dal momento che punisce l'assenza arbitraria, di durata superiore ad un giorno ed inferiore a cinque, a condizione che questa sia la volonta' del comandante di corpo, o di altro "ente superiore" da cui dipende il colpevole. La richiesta di procedimento, in altri termini, ha una prevalente natura non processuale, bensi' sostanziale, e percio' rende dubbia, sotto i profili che saranno esaminati, la legittimita' della norma incriminatrice. E' noto che da tempo in dottrina e giurisprudenza si pone il problema se la querela, la richiesta e l'istanza di procedimento siano condizioni di punibilita', oppure di punibilita' e procedibilita', o infine solamente di procedibilita', e che negli ultimi tempi si propende per quest'ultima soluzione. E questo tribunale non puo' di certo aggiungere nuovi argomenti di carattere generale a quelli, copiosissimi, gia' tradizionalmente proposti a favore delle varie concezioni. Si deve, tuttavia, rilevare come il prevalere della tesi della condizione di procedibilita' lasci piuttosto insoddisfatti, dal momento che nella scolorita categoria processuale i tre cennati istituti vengono ad assimilarsi con quello dell'autorizzazione a procedere, e si dissolvono le differenze di origine e di funzione di querela istanza e richiesta, e la richiesta del comandante di corpo, quando non sia addirittura accomunata ad una querela, viene a confondersi con la richiesta del Ministro, con la quale probabilmente nulla ha in comune se non il nome. Limitando ogni considerazione alla richiesta del comandante, l'aspetto sostanziale che non puo' essere sottaciuto, e che vale a comprendere l'istituto nel novero delle condizioni di punibilita', e' la circostanza che il titolare del potere di richiesta e' nel contempo titolare del potere disciplinare, di modo che (come gia' avveniva per i c.d. sostitutivi disciplinari anteriormente alla vigente codificazione penalmilitare) la presentazione, o meno, della richiesta al competente magistrato e' espressione di una scelta del comandante in ordine alla sanzione, se disciplinare o penale, da irrogare per il fatto previsto dalla legge penale militare. Questa concezione e' stata a volte messa in dubbio nella considerazione che non vi sia affatto, per i reati punibili con la reclusione militare non superiore a sei mesi, l'asserita scelta e alternativita' tra la sanzione penale e quella disciplinare, dal momento che per fatti del genere il comandante da un lato non sarebbe tenuto ad esercitare l'azione disciplinare nel caso in cui non abbia inoltrato la richiesta di procedimento, e dall'altro ben potrebbe promuovere il procedimento disciplinare (che verrebbe sospeso in attesa del giudizio penale) anche nel caso di sua precedente presentazione della richiesta di procedimento penale. In realta', l'alternativita' tra sanzione disciplinare e sanzione penale trae fondamento da una consolidata prassi gia' esistente sotto la vigenza della normativa anteriore alla codificazione del 1941; ma attualmente sembra trovare riscontro anche nelle disposizioni del d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545 (regolamento di disciplina militare), che dettano norme per l'esercizio dei poteri attribuiti al comandante dagli artt. 13 e 15 della legge 11 luglio 1978, n. 382 (Norme di principio sulla disciplina militare). Innanzitutto, l'art. 58, settimo comma, del testo regolamentare stabilisce l'obbligo dell'esercizio dell'azione disciplinare nel caso di infrazioni punibili con la consegna di rigore, categoria che comprende i reati in genere, inclusi quelli punibili con la reclusione militare non superiore nel massimo a sei mesi (art. 65, settimo comma, e preambolo dell'allegato C al citato d.P.R.). Inoltre, come pure stabiliscono l'art. 65, settimo comma, ed il preambolo dell'allegato C, la sanzione disciplinare per i reati punibili con la reclusione militare non superiore a sei mesi e' irrogabile solo quando il comandante "non ritenga di chiedere il procedimento", e percio' esclusivamente quale alternativa alla sanzione penale. Di modo che, volendo abbozzare talune linee fondamentali del potere disciplinare del comandante, risulta che l'azione disciplinare puo', o in certi casi deve, essere esercitata per ogni fatto che, non rientrando nella previsione di alcuna norma penale militare, costituisca tuttavia violazione dei doveri del servizio o della disciplina militare; che l'azione disciplinare e' invece sempre da esercitare per le violazioni dei doveri medesimi che siano anche previste come reato perseguibile d'ufficio; che tra le due categorie estreme v'e' una fascia intermedia costituita dalle infrazioni ai detti doveri che nel contempo integrino la materialita' di un reato punibile con la reclusione militare non superiore nel massimo a sei mesi, e che in quest'ultimo caso, in cui l'azione disciplinare e' esperibile solamente quando non sia stata inoltrata al magistrato la richiesta di procedimento, al comandante e' conferito proprio il potere di stabilire se per l'infrazione posta in essere dal militare sia adeguata la sanzione penale oppure quella disciplinare. Del resto, che la richiesta di procedimento operi innanzitutto in un ambito di diritto sostanziale e' concezione pacificamente accolta nella dottrina meno recente anteriore ed immediatamente successiva all'ultimo conflitto mondiale, nella quale si afferma che (proprio perche' in difetto della richiesta il fatto e' privo di penale rilevanza) per il reato punibile a richiesta non v'e' obbligo di rapporto giudiziario da parte del comandante, sin quando egli non si sia eventualmente indotto a chiedere il procedimento penale. Quest'idea e' senza difficolta' accolta nella giurisprudenza, nel cui ambito, sempre in linea con la concezione sostanzialistica, si rinviene, quale particolare applicazione del principio, la decisione secondo cui non e' punibile come ricettazione l'acquisto di oggetti provenienti da reato militare per il quale non puo' procedersi poiche' manca la richiesta del comandante del corpo (Cass., sezione terza, 25 ottobre 1954, in Foro pen. 1955, 516). Rispetto a quest'originario ordine di idee la successiva relegazione della richiesta di procedimento nel novero nelle norme di diritto processuale non e' che un'astratta operazione dottrinaria, un tentativo di esercizzazione dell'istituto, che di certo non fa venir meno ed anzi rimuove il dato essenziale che il comandante sceglie il tipo di sanzione, penale ovvero disciplinare, da irrogare per il fatto previsto quale reato. Altri elementi confermano che la richiesta di procedimento deve considerarsi una condizione di punibilita': innanzitutto il fatto che l'art. 260 sia collocato nell'ambito del libro secondo "Dei reati militari" e rimanga estraneo al libro terzo "Della procedura penale militare". Ma ancor piu' significativo e' che la disposizione stessa (a differenza di quanto avviene per autorizzazione a procedere, querela, istanza e richiesta del Ministro) non riguardi reati indicati singolarmente o per l'appartenenza ad una determinata categoria, ne' i reati in genere commessi in determinate circostanze o da determi- nate persone, bensi' indistintamente tutti i reati militari, nessuno escluso, punibili con la reclusione militare nella misura suindicata, a nulla rilevando il bene giuridico tutelato, o particolari qualifiche del colpevole, o le circostanze della realizzazione: quest'individuazione dei reati punibili a richiesta esclusivamente per il tramite della quantita' della pena comminata per i medesimi dalla legge sta a segnalare che ci si trova nel contesto della punibilita'. E la conclusione si rafforza nella considerazione che l'art. 260 si riferisce a tutti indistintamente i piu' lievi tra i reati militari, ai fatti bagattellari si direbbe con moderna terminologia, rispetto ai quali e' ragionevole pensare che il legislatore, senza eccessive preoccupazioni dogmatiche, abbia avvertito l'esigenza di evitare una penalizzazione incondizionata. Chiarita, dunque, la natura sostanziale del potere del comandante, risulta evidente che con quest'istituto si e' delegata all'autorita' militare una decisione che il principio costituzionale dell'art. 25, secondo comma, riserva in modo assoluto alla legge. La rilevata inadeguatezza nei confronti del principio costituzionale di legalita' non comporta, tuttavia, che debba essere sollevata questione di legittimita' incentrata sulla disposizione che prevede la richiesta di procedimento, dal momento che con la sua caducazione si avrebbe il risultato, ancora in contrasto con il principio costituzionale, che la norma incriminatrice acquisirebbe un'incondizionata applicabilita', che il legislatore non ha mai inteso disporre. La questione di legittimita' deve, invece, appuntarsi sulla norma dell'art. 147 del c.p.m.p., perche', con il suo collegamento all'art. 260, delega al comandante la penalizzazione dell'assenza arbitraria di durata superiore ad un giorno ed inferiore a cinque, e non possiede pertanto i requisiti che il principio costituzionale richiede per una norma incriminatrice. Come ha bene messo in rilievo una dottrina non recente, ma gia' sensibile alle garanzie costituzionali, la discrezionalita' insita nella richiesta di procedimento per il reato di allontanamento illecito costituisce, inoltre, un camouflage di un'altrettanto inammissibile discrezionalita': quella prevista nei codici previgenti e nel vigente codice penale militare di guerra (art. 155), per cui il militare arbitrariamente assente dal servizio puo', sulla base di "particolari circostanze" liberamente valutabili dal comandante, essere dallo stesso "dichiarato" disertore o mancante alla chiamata prima che l'assenza abbia raggiunto la durata, due giorni, occorrente per il perfezionamento del reato (artt. 145, 146, n. 2, e 151). Pertanto, lo stesso allontanamento illecito configurato dall'art. 147 del c.p.m.p. non e' che una diserzione (art. 148) discrezionalmente valutata ed anticipatamente dichiarata dal comandante, in evidente spregio del principio costituzionale di legalita'. Viene con cio' ribadita l'illegittimita' dell'art. 147, che si rivela anche piu' radicale di quanto non lasci supporre l'analisi sin qui svolta sulla disposizione dell'art. 260. La richiesta di procedimento riferita al fatto di assenza arbitraria non solo non e' una mera condizione di procedibilita', ma anche in quanto condizione sostanziale di punibilita' diviene la sommita' dell'iceberg, l'aspetto terminale ed emergente di un'incostituzionalita' che muove dal cuore stesso del reato, l'antigiuridicita' valutata e dichiarata dal comandante, piuttosto che risultante da una norma di legge. Ma, anche prescindendo dall'ambito dei principi costituzionali in materia penale, non e' meno evidente che la stessa norma incriminatrice dell'art. 147, per quel suo collegamento all'istituto dell'art. 260, e per il potere di penalizzazione che ne deriva in capo al comandante militare, concorre a determinare un'illegittima limitazione dei diritti fondamentali della persona (artt. 2 e 13 della Costituzione), che nell'ordinamento militare non hanno meno valore che nell'ordinamento generale (art. 52, terzo comma, della Costituzione). Sotto questo profilo, non si comprende anzi quale senso abbia che con la citata legge n. 382/1978 e poi con il d.P.R. n. 545/1986 si limitino e si disciplinino i poteri che al comandante spettano in vista del perseguimento dei compiti d'istituto delle Forze armate e per l'attuazione della normativa disciplinare, qualora poi si dovesse ammettere come legittimo che in capo allo stesso vi sia un potere, quale quello di penalizzare i fatti lesivi del servizio e della disciplina militare, che la Costituzione riserva in maniera esclusiva al legislatore. Questo tribunale, in definitiva, ritiene di dover sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 147 del c.p.m.p., in riferimento all'art. 260 del c.p.m.p., in relazione agli artt. 2, 13, 25, secondo comma, e 52, terzo comma, della Costituzione.
P. Q. M. Letto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara non manifestamente infondata e rilevante la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 147 del c.p.m.p., in relazione all'art. 260 stesso codice in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 52, ultimo comma, della Costituzione; Dispone la sospensione del procedimento e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Dispone che la presente ordinanza sia notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai presidenti dei due rami del Parlamento. Padova, addi' 5 novembre 1991 Il presidente estensore: ROSIN Il collaboratore di cancelleria: DARIO 92C0088