N. 23 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 settembre 1991

                                 N. 23
 Ordinanza  emessa  il  17  settembre  1991  dal tribunale militare di
 Padova nel procedimento penale a carico di Gianotti Gregorio
 Reati militari - Allontanamento illecito - Reato punibile su
    richiesta del comandante di Corpo - Ritenuta natura sostanziale  e
    non processuale della richiesta - Conseguente antigiuridicita' del
    fatto  in  dipendenza  di  valutazione  rimesse  al  comandante  -
    Contrasto con il principio  della  riserva  di  legge  in  materia
    penale  -  Prospettata  violazione  dei diritti fondamentali della
    persona con incidenza sullo spirito democratico cui  e'  informato
    l'ordinamento delle Forze armate.
 (C.P.M.P., art. 147 in relazione all'art. 260 stesso codice).
 (Cost., artt. 2, 13, 25 e 52).
(GU n.6 del 5-2-1992 )
                         IL TRIBUNALE MILITARE
    Ha  pronunciato  la seguente ordinanza nella causa contro Gianotti
 Gregorio, nato il 25 agosto 1970 a Pavia, atto di nascita n. 1771 r.6
 i a, residente a La Spezia in  via  Marco  Federici  n.  51,  celibe,
 incensurato, sold. effett. all'ottavo gr. art. cam. smv. "Pasubio" in
 Banne  (Trieste),  libero,  imputato di allontanamento illecito (art.
 147, secondo comma, del c.p.m.p.) perche',  soldato  nell'ottavo  gr.
 art.  cam.  smv.  "Pasubio" in Banne (Trieste), il giorno 17 dicembre
 1990 allo scadere di una licenza, non faceva rientro al  corpo  senza
 giusto   motivo,  rimanendo  arbitrariamente  assente  per  tutta  la
 giornata successiva e fino  al  20  dicembre  1990  data  in  cui  si
 ripresentava al corpo.
                            FATTO E DIRITTO
    Questo  tribunale  ritiene provato l'allontanamento illecito (art.
 147, secondo comma, del  c.p.m.p.)  attribuito  al  soldato  Gianotti
 Gregorio per la sua assenza arbitraria dal 17 al 20 dicembre 1990.
    Si  tratta di reato che, come ogni altro per il quale sia prevista
 la pena della reclusione militare non superiore  nel  massimo  a  sei
 mesi,  non  puo'  essere  punito  se  non  a seguito di richiesta del
 comandante (art. 260, secondo comma, c.p.m.p.); ma  nella  specie  la
 richiesta e' stata presentata.
    La  norma  dell'art.  260,  secondo  comma,  e'  stata  piu' volte
 sottoposta  al  vaglio  della  Corte   costituzionale,   manifestando
 tuttavia   un'inusitata  capacita'  di  resistenza.  Con  ben  cinque
 sentenze (nn. 42/1985, 189/1976, 60/1978, 114/1982, 397/1987)  si  e'
 stabilito  che  essa  non  viola  il  principio di uguaglianza, ne' i
 diritti della persona, ne' i principi della  diretta  responsabilita'
 penale   del   funzionario,   della  democraticita'  dell'ordinamento
 militare,   dell'imparzialita'   della   pubblica    amministrazione,
 dell'obbligatorieta' dell'azione penale.
    Trovandosi  di  fronte  ad  un  reato punibile a richiesta, questo
 giudice non intende sollevare  ancora  questioni  gia'  decise  dalla
 Corte;   ma   non  puo'  esimersi  dal  manifestare  nuovi  dubbi  di
 legittimita' che investono non tanto la richiesta di procedimento  in
 se'  considerata,  quanto piuttosto la norma incriminatrice dell'art.
 147 del c.p.m.p., dal momento che punisce  l'assenza  arbitraria,  di
 durata superiore ad un giorno ed inferiore a cinque, a condizione che
 questa  sia  la  volonta'  del  comandante di corpo, o di altro "ente
 superiore" da cui dipende il colpevole. La richiesta di procedimento,
 in altri termini, ha una prevalente natura  non  processuale,  bensi'
 sostanziale,  e  percio'  rende  dubbia,  sotto i profili che saranno
 esaminati, la legittimita' della norma incriminatrice.
    E' noto che da tempo in  dottrina  e  giurisprudenza  si  pone  il
 problema  se  la  querela,  la  richiesta e l'istanza di procedimento
 siano  condizioni   di   punibilita',   oppure   di   punibilita'   e
 procedibilita',  o  infine  solamente  di procedibilita', e che negli
 ultimi  tempi  si  propende  per  quest'ultima  soluzione.  E  questo
 tribunale  non  puo'  certo  aggiungere  nuovi argomenti di carattere
 generale a quelli, copiosissimi,  gia'  tradizionalmente  proposti  a
 favore  delle  varie  concezioni. Si deve, tuttavia, rilevare come il
 prevalere  della  tesi  della  condizione  di  procedibilita'   lasci
 piuttosto  insoddisfatti,  dal  momento che nella scolorita categoria
 processuale i tre cennati isitituti vengono ad assimilarsi con quello
 dell'autorizzazione a procedere, e si  dissolvono  le  differenze  di
 origine  e di funzione di querela istanza e richiesta, e la richiesta
 del comandante di corpo, quando non sia addirittura accomunata ad una
 querela, viene a confondersi con la richiesta del  Ministro,  con  la
 quale probabilmente nulla ha in comune se non il nome.
    Limitando  ogni  considerazione  alla  richiesta  del  comandante,
 l'aspetto sostanziale che non puo' essere sottaciuto, e  che  vale  a
 comprendere  l'istituto nel novero delle condizioni di punibilita', e
 la circostanza che  il  titolare  del  potere  di  richiesta  e'  nel
 contempo  titolare  del  potere  disciplinare, di modo che (come gia'
 avveniva per  i  c.d.  sostitutivi  disciplinari  anteriormente  alla
 vigente  codificazione penalmilitare) la presentazione, o meno, della
 richiesta al competente magistrato e' espressione di una  scelta  del
 comandante  in  ordine  alla  sanzione,  se disciplinare o penale, da
 irrogare per il fatto previsto dalla legge penale militare.
    Questa   concezione  e'  stata  a  volte  messa  in  dubbio  nella
 considerazione che non vi sia affatto, per i reati  punibili  con  la
 reclusione  militare  non  superiore  a sei mesi, l'asserita scelta e
 alternativita' tra la sanzione  penale  e  quella  disciplinare,  dal
 momento che per fatti del genere il comandante da un lato non sarebbe
 tenuto  ad esercitare l'azione disciplinare nel caso in cui non abbia
 inoltrato la richiesta di procedimento,  e  dall'altro  ben  potrebbe
 promuovere  il  procedimento  disciplinare  (che  verrebbe sospeso in
 attesa  del  giudizio  penale)  anche  nel  caso  di  sua  precedente
 presentazione della richiesta di procedimento penale.
    In  realta', l'alternativita' tra sanzione disciplinare e sanzione
 penale trae fondamento da una consolidata prassi gia' esistente sotto
 la vigenza della normativa anteriore alla codificazione del 1941;  ma
 attualmente  sembra  trovare  riscontro  anche nelle disposizioni del
 d.P.R. 18 luglio 1986, n. 545 (regolamento di  disciplina  militare),
 che dettano norme per l'esercizio dei poteri attribuiti al comandante
 dagli  artt.  13  e  15  della legge 11 luglio 1978, n. 382 (norme di
 principio  sulla  disciplina  militare).  Innanzitutto,  l'art.   58,
 settimo   comma,   del   testo   regolamentare  stabilisce  l'obbligo
 dell'esercizio  dell'azione  disciplinare  nel  caso  di   infrazioni
 punibili  con  la  consegna  di  rigore,  categoria  che comprende in
 genere, inclusi  quelli  punibili  con  la  reclusione  militare  non
 superiore  nel massimo a sei mesi (art. 65, settimo comma e preambolo
 dell'allegato C al citato d.P.R.). Inoltre,  come  pure  stabiliscono
 l'art. 65, settimo comma, ed il preabolo dell'allegato C, la sanzione
 disciplinare  per  i  reati  punibili  con la reclusione militare non
 superiore a sei mesi e' irrogabile solo  quando  il  comandante  "non
 ritenga  di chiedere il procedimento", e percio' esclusivamente quale
 alternativa alla sanzione penale.
    Di modo che,  volendo  abbozzare  talune  linee  fondamentali  del
 potere disciplinare del comandante, risulta che l'azione disciplinare
 puo', o in certi casi deve, essere esercitata per ogni fatto che, non
 rientrando   nella   previsione  di  alcuna  norma  penale  militare,
 costituisca tuttavia violazione  dei  doveri  del  servizio  o  della
 disciplina  militare;  che  l'azione disciplinare e' invece sempre da
 esercitare per le violazioni dei  doveri  medesimi  che  siano  anche
 previste  come reato perseguibile d'ufficio; che tra le due categorie
 estreme v'e' una fascia intermedia  costituita  dalle  infrazioni  ai
 detti  doveri  che nel contempo integrino la materialita' di un reato
 punibile con la reclusione militare non superiore nel massimo  a  sei
 mesi,  e  che  in  quest'ultimo caso, in cui l'azione disciplinare e'
 esperibile solamente quando non sia stata inoltrata al magistrato  la
 richiesta  di  procedimento,  al  comandante  e' conferito proprio il
 potere di stabilire se per l'infrazione posta in essere dal  militare
 sia adeguata la sanzione penale oppure quella disciplinare.
    Del  resto, che la richiesta di procedimento operi innanzitutto in
 un ambito di diritto sostanziale e' concezione pacificamente  accolta
 nella  dottrina  meno  recente anteriore ed immediatamente successiva
 all'ultimo conflitto mondiale, nella quale si  afferma  che  (proprio
 perche'  in  difetto  della  richiesta  il  fatto  e' privo di penale
 rilevanza) per il reato punibile a  richiesta  non  v'e'  obbligo  di
 rapporto  giudiziario da parte del comandante, sin quando egli non si
 sia  eventualmente  indotto  a  chiedere  il   procedimento   penale,
 Quest'idea e' senza difficolta' accolta nella giurisprudenza, nel cui
 ambito,  sempre  in  linea  con  la  concezione  sostanzialistica, si
 rinviene,  quale particolare applicazione del principio, la decisione
 secondo cui non e' punibile come ricettazione l'acquisto  di  oggetti
 provenienti  da  reato  militare  per  il  quale  non puo' procedersi
 poiche' manca la richiesta del comandante del corpo  (Cass.,  sezione
 terza, 25 ottobre 1954, foro pen. 1955, 516).
    Rispetto   a   quest'originario   ordine  di  idee  la  successiva
 relegazione della richiesta di procedimento nel novero nelle norme di
 diritto processuale non e'  un'astratta  operazione  dottrinaria,  un
 tentativo  di esorcizzazione dell'istituto, che di certo non fa venir
 meno ad anzi rimuove il dato essenziale: che il comandante sceglie il
 tipo di sanzione, penale ovvero  disciplinare,  da  irrogare  per  il
 fatto previsto quale reato.
    Altri  elementi  confermano  che la richiesta di procedimento deve
 considerarsi una condizione di punibilita':  innanzittutto  il  fatto
 che l'art. 260 sia collocato nell'ambito del libro secondo "dei reati
 militari"  e  rimanga estraneo al libro terzo "Della procedura penale
 militare".
    Ma ancor piu' significativo  e'  che  la  disposizione  stessa  (a
 differenza di quanto avviene per autorizzazione a procedere, querela,
 istanza  e  richiesta  del  Ministro)  non  riguardi  reati  indicati
 singolarmente o per l'appartenenza ad una determinata categoria,  ne'
 i  reati  in genere commessi in determinate circostanze o da determi-
 nate persone, bensi' indistintamente tutti i reati militari,  nessuno
 escluso, punibili con la reclusione militare nella misura suindicata,
 a   nulla   rilevando  il  bene  giuridico  tutelato,  o  particolari
 qualifiche del  colpevole,  o  le  circostanze  della  realizzazione:
 quest'individuazione  dei  reati  punibili a richiesta esclusivamente
 per il tramite della quantita' della pena comminata  per  i  medesimi
 dalla  legge  sta  a  segnalare  che  ci  si trova nel contesto della
 punibilita'. E la conclusione si rafforza  nella  considerazione  che
 l'art.  260  si  riferisce a tutti indistintamente i piu' lievi tra i
 reati  militari,  ai  fatti  bagattellari  si  direbbe  con   moderna
 terminologia,  rispetto  ai  quali  e'  ragionevole  pensare  che  il
 legislatore,  senza  eccessive   preoccupazioni   dogmatiche,   abbia
 avvertito l'esigenza di evitare una penalizzazione incondizionata.
    Chiarita, dunque, la natura sostanziale del potere del comandante,
 risulta  evidente che con quest'istituto si e' delegato all'autorita'
 militare una decisione che il principio costituzionale dell'art.  25,
 secondo comma, riserva in modo assoluto alla legge.
    La    rilevata   inadeguatezza   nei   confronti   del   principio
 costituzionale di legalita' non comporta, tuttavia, che debba  essere
 sollevata questione di legittimita' sulla disposizione che prevede la
 richiesta  di procedimento, dal momento che con la sua caducazione si
 avrebbe  il  risultato,  ancora  in  contrasto   con   il   principio
 costituzionale,    che    la    norma   incriminatrice   acquisirebbe
 un'incondizionata applicabilita',  che  il  legislatore  non  ha  mai
 intesto   disporre.   La  questione  di  legittimita'  deve,  invece,
 appuntarsi sulla norma dell'art. 147 del c.p.m.p.,  perche',  con  il
 suo collegamento all'art. 260, delega al comandante la penalizzazione
 dell'assenza arbitraria di durata superiore ad un giorno ed inferiore
 a  cinque,  e  non  possiede  pertanto  i  requisiti che il principio
 costituzionale richiede per una norma incriminatrice.
    Come  ha  bene  messo in rilievo una dottrina non recente, ma gia'
 sensibile alle garanzie costituzionali,  la  discrezionalita'  insita
 nella  richiesta  di  procedimento  per  il  reato  di allontanamento
 illecito  costituisce,  inoltre,  un  camouflage  di   un'altrettanto
 inammissibile discrezionalita'; quella prevista nei codici previgenti
 e nel vigente codice penale militare di guerra (art. 155), per cui il
 militare  arbitrariamente  assente  dal  servizio puo', sulla base di
 "particolari  circostanze"  liberamente  valutabili  dal  comandante,
 essere  dallo  stesso "dichiarato" disertore o mancante alla chiamata
 prima che l'assenza abbia raggiunto la durata, due giorni, occorrente
 per il perfezionamento del reato (artt. 145, 146, n. 2, e 151).
    Pertanto, lo stesso allontanamento illecito configurato  dall'art.
 147   del   c.p.m.p.   non   e'   che   una   diserzione  (art.  148)
 discrezionalmente  valutata   ed   anticipatamente   dichiarata   dal
 comandante,  in  evidente  spregio  del  principio  costituzionale di
 legalita'. Viene con cio' ribadita  l'illegittimita'  dell'art.  147,
 che  si  rivela  anche  piu'  radicale  di  quanto non lasci supporre
 l'analisi  sin  qui  svolta  sulla  disposizione  dell'art.  260.  La
 richiesta di procedimento riferita al fatto di assenza arbitraria non
 solo non e' una mera condizione di procedibilita', ma anche in quanto
 condizione   sostanziale   di   punibilita'   diviene   la   sommita'
 dell'iceberg,     l'aspetto     terminale     ed     emergente     di
 un'incostituzionalita'   che   muove  dal  cuore  stesso  del  reato,
 l'antigiuridicita' valutata e dichiarata  dal  comandante,  piuttosto
 che risultante da una norma di legge.
    Ma,  anche prescindendo dall'ambito dei principi costituzionali in
 materia  penale,  non  e'  meno  evidente   che   la   stessa   norma
 incriminatrice  dell'art. 147, per quel suo collegamento all'istituto
 dell'art. 260, e per il potere di penalizzazione  che  ne  deriva  in
 capo  al  comandante  militare, concorre a determinare un'illegittima
 limitazione dei diritti fondamentali della  persona  (artt.  2  e  13
 della  Costituzione),  che  nell'ordinamento  militare non hanno meno
 valore che nell'ordinamento generale (art.  52,  terzo  comma,  della
 Costituzione).
    Sotto  questo profilo, non si comprende anzi quale senso abbia che
 con la citata legge n. 382/1978 e poi con il d.P.R.  n.  545/1986  si
 limitino  e  si  disciplinino  i poteri che al comandante spettano in
 vista del perseguimento dei compiti d'istituto delle forze  armate  e
 per l'attuazione della normativa disciplinare, qualora poi si dovesse
 ammettere  come  legittimo  che in capo allo stesso vi sia un potere,
 quale quello di penalizzare i  fatti  lesivi  del  servizio  e  della
 disciplina militare, che la Costituzione riserva in maniera esclusiva
 al legislatore.
    Questo  tribunale,  in  definitiva,  ritiene  di  dover  sollevare
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 147 del  c.p.m.p.,
 in  riferimento all'art. 260 del c.p.m.p., in relazione agli artt. 2,
 13, 25, secondo comma, e 52, terzo comma, della Costituzione.
                               P. Q. M.
    Letto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara non manifestamente infondata e rilevante la questione  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art. 147 del c.p.m.p. in relazione
 all'art. 260 del c.p.m.p., in riferimento agli artt. 2, 13, 25  e  52
 della Costituzione;
    Ordina  la  sospensione  del  procedimento e la trasmissione degli
 atti alla Corte costituzionale;
    Dispone che la presente ordinanza sia notificata alle parti  e  al
 Presidente  del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti dei
 due rami del Parlamento.
      Padova, addi' 17 settembre 1991
                    Il presidente estensore: ROSIN
                                Il collaboratore di cancelleria: DARIO
 92C0089