N. 62 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 novembre 1991

                                 N. 62
     Ordinanza emessa il 22 novembre 1991 dal tribunale di Firenze
 nel procedimento civile vertente tra Bianchi Corrado e  Assicurazioni
 generali S.p.a.
 Previdenza e assistenza sociale - Assicurazione generale obbligatoria
    -  Facolta'  del  lavoratore di avvalersi del diritto di opzione a
    continuare il rapporto di lavoro fino al  sessantacinquesimo  anno
    (nella  fattispecie  fino  al  sessantatreesimo  anno  di  eta') -
    Ritenuta esclusione della possibilita' dei dirigenti di esercitare
    il suddetto diritto di
    opzione non essendo ad essi applicabile la normativa di cui alle
    leggi nn. 604/1966 e 300/1970 circa la  stabilita'  del  posto  di
    lavoro  -  Ingiustificata  disparita' di trattamento di situazioni
    analoghe  e  incidenza  sul  diritto   all'assicurazionedi   mezzi
    adeguati  alle esigenze di vita in caso di vecchiaia - Riferimento
    alle sentenze della Corte costituzionale nn. 137/1986 e 498/1988.
 (D.-L. 22 dicembre 1981, n. 791, art. 6, primo comma, convertito in
    legge 26 febbraio 1982, n. 54).
 (Cost., artt. 3 e 38).
(GU n.9 del 26-2-1992 )
                             IL TRIBUNALE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza  all'udienza  di  discussione
 del  22  novembre  1991 nella causa n. r.g. 643/91 tra l'avv. Bianchi
 Corrado (avv. G.  Solimeno),  contro  Assicurazioni  generali  S.p.a.
 (avv. P. Fanfani).
    Corrado Bianchi, dirigente della compagnia "Assicurazioni generali
 S.p.a.", riceveva in data 5 gennaio 1989 dal proprio datore di lavoro
 un  "avviso"  di  recesso  per  il 31 gennaio 1990, al compimento del
 sessantesimo anno di eta'.
    Il Bianchi replicava con lettera del 24 gennaio  1989  comunicando
 di  volersi  avvalere del diritto di opzione a continuare il rapporto
 di lavoro fino al sessantatreesimo anno, coincidente con  il  maximum
 contributivo   ai  fini  del  trattamento  di  quiescenza,  ai  sensi
 dell'art. 6 del d.-l. 22 dicembre 1981, n. 791, convertito  in  legge
 26 febbraio 1982, n. 54.
    La  societa'  negava la sussistenza di tale diritto ed offriva, in
 conformita' al disposto dell'art. 40 del  C.C.N.L.  per  i  dirigenti
 delle   imprese   assicuratrici,   la   somma   corrispondente   alla
 contribuzione volontaria mancante per  il  raggiungimento  del  tetto
 contributivo.
    In  data  7  febbraio  1990 il Bianchi impugnava il licenziamento,
 intervenuto alla preannunciata data del 31 gennaio dello stesso anno.
    Con lettera 4 maggio 1990 le Assicurazioni  generali  ponevano  in
 essere  un  nuovo  atto  di  recesso  (ove  il  primo fosse risultato
 invalido o inefficace), motivandolo con il predetto limite di eta'  e
 con  le  esigenze  di  ringiovanimento  e riorganizzazione dei quadri
 aziendali.
    Il lavoratore impugnava anche il secondo licenziamento e adiva  il
 pretore  di  Firenze,  il  quale,  con  sentenza  1-28 febbraio 1991,
 rigettava la domanda sulla considerazione che  la  giurisprudenza  di
 legittimita'  ha piu' volte affermato che "la facolta' di opzione, di
 cui alla legge n. 54/1982, spetta  anche  al  dirigente,  pur  se  il
 rapporto  di  questi  non acquista la stabilita' prevista dalle leggi
 nn. 604/1966 e 300/1970, restando viceversa  governato  dallo  stesso
 regime  giuridico  che  aveva  in  precedenza  sulla base delle norme
 generali ovvero dell'eventuale disciplina piu' favorevole", ne'  tale
 giurisprudenza  puo'  essere  disattesa  sulla  base  della contraria
 decisione n. 11311/1990 della stessa Corte  di  cassazione,  peraltro
 non confermata dalla giurisprudenza successiva.
    Osservava ancora il pretore che la norma in questione ha rilevanza
 sul  solo  rapporto  previdenziale,  e non anche su quello di lavoro,
 autonomo rispetto al  primo,  per  cui  ogni  legittimo  diritto  del
 dipendente  sarebbe  stato soddisfatto con il versamento dell'importo
 pari ai contributi volontari mancanti per raggiungere i quaranta anni
 di anzianita' contributiva.
    Il  soccombente impugnava la decisione davanti a questo tribunale,
 denunciando  la  erroneita'  della  interpretazione  della  legge  n.
 54/1982,  che, a suo giudizio, avrebbe invece sancito il diritto alla
 prosecuzione del rapporto di lavoro, mezzo questo indispensabile  per
 il raggiungimento dello scopo prefissosi dal legislatore.
    La  societa'  assicuratrice  resisteva  richiamando la motivazione
 della sentenza impugnata.
    Il tribunale ritiene di dover sollevare di  ufficio  questione  di
 costituzionalita'  del  primo comma dell'art. 6 del d.-l. 22 dicembre
 1981, n. 791, convertito nella legge 26 febbraio 1982, n. 54, perche'
 confliggente con gli artt. 3 e 38 della Costituzione.
    Per il diritto vivente (cfr. Cass.  nn.  2193  e  5968  del  1987,
 5084/1988,  6197  e  11437  del 1990). Il diritto di opzione previsto
 dall'art. 6, primo comma, della legge 26 febbraio 1982, n.  54,  com-
 pete   anche  ai  dirigenti,  restando  riservata  esclusivamente  ai
 lavoratori  la  valutazione  dell'opportunita'  o  della  convenienza
 (peraltro  non riducibile al mero aspetto economico) dell'esercizio o
 meno del diritto  stesso;  per  altro,  il  rapporto  di  lavoro  dei
 dirigenti,  i  quali abbiano optato per la continuazione del servizio
 ai sensi di detta disposizione,  rimane  assoggettato  alla  medesima
 disciplina   ad  esso  applicabile  fino  all'esercizio  dell'opzione
 stessa, non avendo il quarto comma dello  stesso  articolo  esteso  a
 tali dirigenti la tutela del posto di lavoro stabilita dalla legge n.
 604/1966; consegue che, in presenza di una disciplina contrattuale la
 quale  assicuri  al dirigente la stabilita' fino al sessantesimo anno
 di eta', tale stabilita' non si protrae fino al raggiungimento  della
 massima  anzianita'  contributiva  o  del  sessantacinquesimo anno di
 eta', ma permane entro il limite temporale contrattuale,  scaduto  il
 quale  e'  applicabile  il  regime  di  libera  recedibilita',  salva
 l'operativita'  di  altre  garanzie  eventualmente   previste   dalla
 disciplina collettiva.
    Sembra  pacifico,  in  dottrina  e  in  giurisprudenza, che con la
 normativa in questione il legislatore  abbia  inteso  soddisfare  due
 esigenze:  ad  un lato quella del lavoratore a raggiungere la massima
 contribuzione di anzianita' ed a continuare, a tal fine, il  rapporto
 di  lavoro  (con  il  limite  dei  sessantacinque anni), e dall'altro
 quella dell'ente previdenziale al miglioramento del proprio bilancio,
 da ottenersi con il differimento  della  erogazione  del  trattamento
 pensionistico   e   con   l'acquisizione   di   ulteriori  contributi
 assicuarativi.
    Per quanto riguarda i  dirigenti,  una  tale  finalita'  ne  viene
 preclusa.
    Se   e'   vero,   come  sostiene  la  costante  giurisprudenza  di
 legittimita', che il diritto di opzione di cui  al  ridetto  articolo
 viene  riconosciuto anche a tale categoria di lavoratori, e' pur vero
 che lo stesso "diritto vivente", che  ribadisce  il  principio  della
 libera  recedibilita',  di  fatto  lo  vanifica.  Basti  pensare alla
 situazione paradossale in cui verrebbe a trovarsi  il  prestatore  di
 lavoro (dirigente) che abbia esercitato il diritto di opzione laddove
 nel  contratto collettivo non sia ad esso assicurata la conservazione
 del posto: questi verrebbe a trovarsi,  nell'arco  di  tempo  che  va
 dalla  data  del  recesso  a  quella  del  raggiungimento del massimo
 contributivo,  privato  della  retribuzione  e  del  trattamento   di
 quiescenza.   E   una   tale   conseguenza   lungi   dal   costituire
 quell'incentivo all'esercizio del diritto di opzione che e' nella ra-
 tio legis si risolve in una remora pressoche' insormontabile.
    Di diverso segno, rispetto alla giurisprudenza  dominante,  e'  la
 sentenza  23  novembre  1990,  n.  11311,  della Corte di cassazione,
 sezione lavoro, per la quale "il rapporto della lavoratrice che abbia
 diritto, ai sensi dell'art. 4, n. 903/1977, alla prosecuzione fino al
 compimento del sessantesimo  anno,  e'  assistito  dalla  stabilita',
 prevista  dall'art. 18 dello statuto dei lavoratori, quale che sia la
 dimensione dell'impresa, derivandone in capo al datore  l'obbligo  di
 giustificare   il  recesso  ai  sensi  dell'art.  3  della  legge  n.
 640/1966".
    La  suprema  Corte  sviluppa  la  sua  argomentazione  anche   con
 riferimento  all'art.  6  della  legge  n.  54/1982  osservando:  "La
 validita' della tesi della  ricorrente  si  fonda,  ad  avviso  della
 Corte,  sul  dato normativo e sulle considerazioni che hanno ispirato
 le pronunce della Corte costituzionale n. 137 del 18 giugno 1986 e n.
 498 del 27 aprile 1988. Invero, la normativa  prevista  dall'art.  11
 della  legge  n.  604/1966 - che consente la libera recedibilita' del
 rapporto  di   lavoro   nelle   tre   ipotesi   di   una   dimensione
 imprenditoriale inferiore ai trentacinque dipendenti, di possesso, da
 parte  del  dipendente,  dei  requisiti di legge per il conseguimento
 della pensione di vecchiaia  o  di  raggiungimento,  da  parte  dello
 stesso,  del sessantacinquesimo anno di eta' - deve essere coordinata
 con le successive disposizioni di legge (precisamente l'art. 4  della
 legge  n.  903/1977,  che qui interessa, e l'art. 6 della legge n. 54
 del  26  febbraio  1982).  Tali   disposizioni   nel   prevedere   la
 prosecuzione  del  rapporto  di  lavoro nel primo caso a favore delle
 lavoratrici fino al limite di eta' previsto  per  i  lavoratori,  nel
 secondo  fino  al  conseguimento dell'anzianita' contributiva massima
 utile  prevista  dai  singoli  ordinamenti,  dispongono,  sempre  nei
 confronti di detti lavoratori, l'applicabilita' delle disposizioni di
 cui alla legge n. 604/1966, in deroga all'art. 11 della legge; l'art.
 4 della legge n. 903/1977 precisa che sono applicabili anche le norme
 modificatrici     o     integratici     della     legge     suddetta.
 Dall'interpretazione coordinata  di  tali  disposizioni  emerge  che,
 fermo  restando  per  tutti  il  limite  dell'attivita' lavorativa al
 sessantacinquesimo anno  di  eta',  le  altre  ipotesi  che  limitano
 l'applicazione  delle disposizioni contenente nella legge n. 604/1966
 non valgono nei confronti di detti lavoratori. Cio' non soltanto  con
 riguardo  alla disposizione relativa al possesso dei requisiti per il
 conseguimento della  pensione  di  vecchiaia  (oggetto  di  specifica
 modificazione  da parte delle due normative), ma anche per quella che
 richiama il limite numerico dei dipendenti.
    E cio' sulla base della interpretazione letterale e  logica  delle
 disposizioni  di  legge  in  esame,  e  per  l'implicito  richiamo al
 principio di "coerenza" dell'ordinamento, il  quale,  come  e'  stato
 posto  in  rilievo  da  autorevole  dottrina,  "non puo' concedere un
 particolare beneficio senza approntare gli strumenti che  ne  rendano
 effettivo il conseguimento".
    Con  la  sentenza  in  esame  la Cassazione non ha pero' invertito
 l'indirizzo denominate precedente che e' stato  riconfermato  con  la
 successiva decisione 28 novembre 1990, n. 11437.
   In  un  tale  contesto  i  lavoratori "dirigenti" risultano esclusi
 dalla possibilita' di esercitare il diritto di opzione in parola, che
 pure, come si e' detto, viene loro esplicitamente riconosciuto  dalla
 giurisprudenza  dominante.  Riconoscere  un diritto e contestualmente
 negare la possibilita' del suo esercizio si risolve in una  negazione
 in toto dello stesso diritto, e senza giustificazione, poiche' non si
 tratterebbe  di introdurre surretiziamente nell'ordinamento il regime
 di stabilita' del rapporto di lavoro dei dirigenti, ma  semplicemente
 di  consentire  per  tale  categoria  l'esercizio  del  diritto  alla
 prosecuzione del rapporto, che e' strumentale e necessario, per poter
 aumentare l'anzianita' contributiva.
    Una tale normativa si  pone  in  contrasto  con  il  principio  di
 eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione e dell'art. 38 della
 stessa  carta  fondamentale,  che  prevvede  l'adeguamento  dei mezzi
 necessari, fra le altre ipotesi, anche in caso di vecchiaia.
    La questione  di  costituzionalita',  di  evidente  influenza  nel
 giudizio de quo, non appare manifestamente infondata.
                               P. Q. M.
    Visti  gli  artt. 134 della Costituzione e 23 della legge 11 marzo
 1953, n. 87;
    Solleva d'ufficio questione di  costituzionalita'  in  riferimento
 agli artt. 3 e 38 della Costituzione, del disposto di cui all'art. 6,
 primo  comma,  del  d.-l.  22 dicembre 1981, n. 791, convertito nella
 legge 26 febbraio 1982, n. 54, in quanto esclude  sostanzialmente  il
 diritto  dei  dirigenti  all'esercizio  dell'opzione  prevista  nello
 stesso articolo;
    Sospende il giudizio in corso e ordina la trasmissione degli  atti
 alla Corte costituzionale, previa notificazione ai sensi di legge.
      Firenze, addi' 22 novembre 1991
                        Il presidente: CALVISI

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