N. 110 ORDINANZA (Atto di promovimento) 28 ottobre 1991

                                N. 110
 Ordinanza  emessa  il  28  ottobre  1991  dal tribunale di Torino nel
 procedimento penale a carico di Laaffat Hassan
 Processo penale - Dibattimento - Inammissibilita' delle prove del
    p.m.  per  intempestivita' del deposito della lista testimoniale -
    Insanabilita' di tale sanzione - Impossibilita' di  assunzione  di
    mezzi  di  prova  su  disposizione  del giudice, in mancanza della
    preventiva acquisizione delle parti  -  Lamentata  violazione  del
    principio  di  obbligatorieta' dell'azione penale - Violazione dei
    principi della legge delega - Compressione del diritto di difesa -
    Irragionevole disparita' di trattamento  tra  imputati  a  seconda
    della tempestivita' del deposito o meno.
 (C.P.P. 1988, artt. 468, primo comma, e 507).
 (Cost., artt. 3, 76 e 112; legge 16 febbraio 1987, n. 81, art. 2,
    direttive 3 e 73).
(GU n.10 del 4-3-1992 )
                             IL TRIBUNALE
    Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza all'udienza del 28 ottobre
 1991, nel procedimento penale  a  cario  di  Laaffat  Hassan  nato  a
 Marrakech  (Marocco)  il 6 luglio 1961 residente in Torino, via delle
 Orfane n. 19, difeso di fiducia dall'avv.  C.  Palumbo  del  Foro  di
 Torino,  imputato  del  reato  di  cui  all'art. 73, primo comma, del
 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/90 commesso in  Torino
 il 14 marzo 1991.
                               F A T T O
    Il  5 giugno 1991 il giudice per le indagini preliminari presso il
 tribunale di Torino emetteva decreto che dispone il giudizio a carico
 di Laaffat Hassan, indicando l'udienza dell'8 luglio  successivo  per
 la  comparazione  del  predetto avanti alla quinta sezione penale del
 tribunale di Torino.
    Il 1› luglio 1991  il  pubblico  ministero  depositava  presso  la
 cancelleria  del  tribunale,  ai  sensi  dell'art. 468 del c.p.p., la
 lista testimoniale con la richiesta di esame di tre  testimoni  e  il
 giorno  successivo  il  presidente  del collegio, in applicazione del
 combinato disposto degli artt. 468, primo comma, e 172, quinto comma,
 del c.p.p., dichiarava l'inammissibilita' della richiesta per mancata
 osservanza del termine di deposito.
    Il dibattimento veniva preliminarmente rinviato  fino  all'odierna
 udienza ove il pubblico ministero, avuta la parola ai sensi dell'art.
 493del  codice  di procedura penale e preso atto che il fascicolo per
 il dibattimento era unicamente formato dal certificato del casellario
 giudiziale e dal verbale di perquisizione domiciliare eseguita  dalla
 polizia giudiziaria nell'appartamento di Laaffat, con esito negativo,
 non  indicava  alcun'altra  prova  di  cui  chiedere l'ammissione ne'
 dimostrava  di  non  aver  potuto  indicare  tempestivamente   quelle
 dichiarate inammissibili.
                             D I R I T T O
    L'art.  468 del c.p.p. stabilisce la regola della inammissibilita'
 delle  prove  testimoniali,  qualora  delle  stesse  non  sia   stata
 richiesta   l'autorizzazione   alla  citazione,  con  deposito  nella
 cancelleria del giudice precedente, almeno  sette  giorni  prima  del
 processo.  La  stetta  correlazione esistente fra tale disposizione e
 l'art. 493 del c.p.p. (in tema di richiesta  di  ammissione,  fra  le
 altre,  anche  di  tale  tipo  di  prova testimoniale, sempre che, in
 ordine alla stessa, siano stati rispettati gli oneri di cui  all'art.
 468)  e'  espressione  vivente del principio, dettato in via generale
 dal primo comma dell'art. 190 del c.p.p., secondo il quale  il  nuovo
 processo  penale  si informa a criteri di disponibilita' dei mezzi di
 prova affidata alle parti, cosi' capovolgendo il modello inquisitorio
 del previgente codice di rito.
    E'  stata  peraltro  introdotta,  nel  corpo  stesso dell'art. 190
 (secondo comma), un'eccezione a tale regola  essendo  riservato  alla
 previsione  di specifiche norme di legge il potere-dovere del giudice
 di integrare d'ufficio le prove.
    Per evidenziare  meglio  quale  sia  stato,  nell'introdurre  tale
 eccezione,  l'obiettivo  perseguito  dal  legislatore,  occorre tener
 presente la direttiva n.  3/73  della  legge-delega,  la  quale,  nel
 prevedere,   senza  particolari  presupposti  o  collegamenti  con  i
 comportamenti processuali delle parti.  "il  potere  del  giudice  di
 disporre  l'assunzione  dei  mezzi  di  prova", indica comunque nella
 "ricerca della verita'" il fine ultimo del  suo  operare  istruttorio
 d'ufficio.
    Fra  i  vari casi in cui tale potere-dovere puo' essere esercitato
 (artt. 70:  perizia  sulla  capacita'  di  stare  in  giudizio;  195:
 citazione  della  fonte indicata nella testimonianza indiretta; 224 e
 508:   perizia;   237:   acquisizione   di   documenti    provenienti
 dall'imputato;  468.5:  citazione  del perito nominato nell'incidente
 probatorio a norma dell'art. 392 comma 2;  511:  lettura  degli  atti
 contenuti  nel  fascicolo  per  il  dibattimento;  603:  rinnovazione
 indispensabile dell'istruzione dibattimentale nella fase  d'appello),
 spicca,  per  l'indeterminatezza  del  suo  oggetto  e,  quindi,  per
 l'enorme  portata  della  sua  applicabilita'  astratta,  specie   se
 rapportata  alla  fase  processuale  -  centrale - in cui si colloca,
 l'art. 507 del c.p.p.
    Detta norma stabilisce  che  il  giudice,  tramite  l'acquisizione
 delle   prove,  puo',  nei  casi  di  assoluta  necessita',  disporre
 l'assunzione di nuovi mezzi di prova.
    Tralasciata  per  il  momento  la  questione,   non   strettamente
 pertinente,  circa  la  definizione  ed  individuazione  dei casi "di
 assoluta necessita'" che autorizzano un siffatto  potere  istruttorio
 d'ufficio,  appare  importante sottolineare in quali termini, proprio
 in riferimento all'articolo citato,  si  sia  espressa  la  relazione
 ministeriale che ha accompagnato l'entrata in vigore del nuovo codice
 di rito: in tale sede si e' evidenziato come non risulta .. mutata la
 fisionomia  complessiva  del dibattimento poiche' la sua struttura di
 fondo lascia intendere che i poteri ex  officio  rivestono  un  ruolo
 residuale  e  suppletivo  rispetto  alla  carenza  d'iniziativa delle
 parti; e come l'attuale formulazione del testo normativo "concede  al
 giudice  piu' ampi poteri di iniziativa probatoria, rispetto al testo
 della precedente legge-delega del 1974".
    D'altra parte, autorevole dottrina ha  evidenziato  nell'art.  507
 una  componente  inquisitoria che il legislatore a ritenuto opportuno
 mantenere, come correttivo  dell'eventuale  inerzia  o  incompletezza
 nell'iniziativa  delle  parti  e ha sottolineato come l'ampia portata
 dell'art.  507  sia  coerente  al  sistema:  i  giudizi  a  contenuto
 indisponibile  implicano  canali  istruttori  aperti  al  giudice; ed
 ancora come l'onere di cui all'art. 468 sia onere imperfetto, essendo
 acquisibili d'ufficio, alla fine, le prove assolutamente necessarie.
    Quanto sopra esposto permette  di  affrontare  il  nocciolo  della
 questione che oggi occupa il tribunale.
    Il  problema  interpretativo  che  in  questa  sede  si pone nasce
 proprio dall'interferenza fra le due norme processuali citate:  puo',
 cioe',  l'inerzia della parte nel depositare tempestivamente la lista
 testimoniale essere supplita  dal  potere  d'integrazione  probatorio
 d'ufficio  attribuito  al  giudice una volta terminata l'acquisizione
 delle prove?
    Sul  punto  esiste  una  produzione dottrinaria alquanto nutrita e
 gia' si e' dato atto delle opinioni piu' autorevoli a sostegno di una
 interpretazione dell'art. 507  del  c.p.p.  che  consenta  piu'  ampi
 poteri  integratori  del giudice in materia di assunzione di mezzi di
 prova.
    Sull'altro fronte, c'e' chi invece sostiene  che,  se  si  dovesse
 accogliere   la   tesi  della  indipendenza  del  potere  integratore
 d'ufficio  del  giudice  dall'eventuale  inerzia  delle   parti,   si
 stravolgerebbe  inaccettabilmente  il  principio informatore generale
 del   codice,   che   affida   ad   esse   l'iniziativa   e   l'onere
 dell'indicazione  dei mezzi di prova; si lasciasse la possibilita' di
 ampia integrazione istruttoria ex art. 507, si  vanificherebbe  nella
 sostanza la sanzione di inammissibilita' delle prove testimoniali non
 tempestivamente  dedotte  (sotto  quest'ultimo punto di vista sarebbe
 pero' facile replicare che la parte  decaduta  affronta  comunque  il
 grosso  rischio  di  vedersi respingere la richiesta di prova ex art.
 507 per mancanza di requisito della assoluta necessarieta').
   In quest'ultima direzione si e' di recente  espressa  la  Corte  di
 cassazione  (sez.  III, 3 dicembre 1990, in Cass. pen. 1991, p. 495),
 la quale ha stabilito che, in assenza di  deposito  tempestivo  delle
 liste  testimoniali  da  parte  del p.m., correttamente il giudice di
 merito ha assolto perche' il fatto non sussiste, non  accogliendo  la
 richiesta  integrativa  istruttoria avanzata dall'organo di accusa in
 sede di art. 507. Il giudice di legittimita' ha sottolineato,  da  un
 lato, l'insanabilita' della sanzione di inammissibilita' del deposito
 intempestivo  della  lista testimoniale (in ossequio al principio del
 divieto di prova a sorpresa);  dall'altro,  l'assenza  di  un  potere
 d'integrazione   ex   art.   507  qualora  sia  risultata  del  tutto
 inesistente l'istruttoria dibattimentale  per  inerzia  delle  parti.
 Sotto  quest'ultimo profilo, si e' evidenziato come il potere ex art.
 507 (prevedendo l'assunzione di "nuovi" mezzi di  prova)  presupponga
 necessariamente  la  pregressa  assunzione di "altre" prove, che, nel
 caso sottoposto al suo esame, mancavano.
    Non  risultano,  al  momento,  altre  pronunce  della   Corte   di
 cassazione sul punto.
    Il  giudice  di  merito, quindi, deve prendere atto del fatto che,
 nella sua forma vivente, il combinato disposto degli artt. 468 e  507
 del c.p.p. conduce, nelle fattispecie come quella che oggi ci occupa,
 alla  inevitabile  decisione  assolutoria  dell'imputato  per  totale
 insussistenza del fatto, sotto il profilo della carenza  della  prova
 d'accusa.
    Se  tale  e'  l'interpretazione  che  il  giudcie  deve applicare,
 emergono nettissimi i profili di  incostituzionalita'  del  combinato
 disposto citato.
    Innanzi   tutto   si   ha   la   violazione  dell'art.  112  della
 Costituzione.
    L'obbligatorieta'  dell'azione  penale,  nel  nostro   ordinamento
 giuridico,  non  e'  un'affermazione di puro principio. Per ottenere,
 nel concreto, che gli organi di accusa la  esercitino  legittimamente
 sono  stati  previsti,  nel  codice  stesso  in  vigore, correttivi e
 controlli che dispiegano la loro efficacia in  sede  endoprocessuale:
 si  pensi  al  meccanismo  di controllo sui casi di archiviazione; al
 controllo  giurisdizionale  sulla  correttezza  della  qualificazione
 giuridica  data  al  fatto  in sede di applicazione della pena. Si e'
 posto l'accento  sull'efficacia  endoprocessuale  di  tali  controlli
 giurisdizionali,  per  evidenziare  come,  nel  caso  di inerzia o di
 ritardo nel deposito delle liste testimoniali da parte del p.m.  (che
 equivale,  in  concreto,  al mancato esercizio dell'azione penale se,
 come sostiene la Cassazione, e' inibito al giudice  qualunque  potere
 istruttorio  d'ufficio),  nessun  rimedio  processuale sia possibile.
 L'eventuale  responsabilita'   disciplinare   del   p.m.   inerte   o
 ritardatario  non  ha  alcun  rilievo  processuale  senza contare che
 potrebbe facilmente non emergere alcuna sua responsabilita',  qualora
 il   mancato   deposito   sia   derivato   da   semplice  disfunzione
 dell'ufficio.
    In secondo  luogo,  cosi'  interpretata,  la  normativa  viola  il
 principio  di  cui  all'art.  76  della Costituzione sotto il profilo
 dello straripamento dei poteri da parte  del  Governo  delegato,  con
 specifica  violazione  dei  principi e criteri direttivi contenuti al
 punto 3/73 della legge-delega.
    Gia' si e' accennato al fatto  che  il  legislatore  delegante  ha
 attribuito al giudice del dibattimento determinati poteri finalizzati
 alla  ricerca  di  una  verita'  processuale non ancora evidenziabile
 sulla scorta degli elementi di prova richiesti, ammessi ed utilizzati
 ed ha specificamente previsto al riguardo che il presidente, anche su
 richiesta di altro componente il  collegio,  o  il  pretore,  possano
 indicare  alla  parti  temi  nuovi  od  imcompleti purche' utili alla
 realizzazione di quel fine.
    Cio' sta a significare che il  legislatore  delegante  non  si  e'
 accontentato  di  far  discendere la decisione del giudice solo dalla
 valutazione delle prove  richieste  dalle  parti,  ma  si  e'  voluto
 cautelare,  per  il  rispetto  appunto, della verita', consentendo al
 giudice di supplire ad eventuali  carenze  o  insufficienze  che,  se
 colmate,  megio  potrebbero  garantire  e  raggiungere  quel  fine di
 verita' a cui e' idealmente teso il processo penale.
    Orbene, l'art. 507 del c.p.p., se inteso nel senso che il  giudice
 possa  disporre,  su richiesta di parte o di ufficio, l'assunzione di
 mezzi di prova soltanto qualora altri mezzi di prova siano stati gia'
 acquisiti ed assunti, conterebbe un principio che non trova riscontro
 nell'ultima parte della direttiva poc'anzi  menzionata,  dove  si  fa
 unicamente   riferimento   al   "potere   del   giudice  di  disporre
 l'assunzione di mezzi di prova", senza affatto specificare che  detto
 potere  e'  esercitabile  alle  condizioni  indicate nell'art. 507. E
 allora, se si ricollega la dizione appena citata con  il  fine  della
 ricerca   della   verita',   si   arriva   alla  conclusione  che  la
 interpretazione restrittiva della norma in questione non e' in  linea
 con  i principi direttivi posti in materia di assunzione dei mezzi di
 prova.
    Anche se non strettamente rilevante nel caso di specie, e' solo il
 caso di accennare a quale potrebbe essere la violazione dell'art.  24
 della   Costituzione   in   tema   di   diritto   alla   difesa,  se,
 simmetricamente al principio affermato dalla Corte di cassazione,  si
 giungesse  a  dire che l'imputato non ha diritto a vedersi ammessa la
 prova liberatoria decisiva, sol perche' non  dedotta  tempestivamente
 nelle liste testimoniali.
    Infine  e  soprattutto  anche  l'art.  3 della Costituzione appare
 intaccato dalla interpretazione  fissata  dalla  suprema  Corte:  non
 potrebbe  sussistere  alcuna  ragionevole  ed accettabile spiegazione
 alla  diversita'  di  trattamento  processuale  e  sansionatorio  cui
 andrebbero  incontro  imputati,  nei  confronti  dei quali, a seconda
 dell'iniziativa o meno del pubblico ministero nel depositare le liste
 si instaurassero processi sostanzialmente ed inevitabilmente diversi.
    Basti pensare, ad esempio, a due  coimputati  nello  stesso  reato
 raggiunti  dagli  identici  elementi di prova testimoniale ma nei cui
 confronti si proceda separatamente e  si  immagini  che  il  pubblico
 ministero, per il primo di essi, depositi
 tempestivamente  la  lista,  consentendo  cosi'  di addivenire ad una
 sentenza di condanna, mentre per il secondo, non rispetti  i  termini
 imposti   dall'art.   468   del  c.p.p.  per  cui,  a  seguito  della
 declaratoria  di  inammissibilita',  l'imputato  venga  assolto   per
 assoluta   carenza  di  prove  a  carico.  In  tal  caso,  l'evidente
 disparita' di trattamento con riferimento a due situazioni  identiche
 non  trova giustificazione alcuna e si pone in netto contrasto con la
 norma costituzionale citata.
    Se e' nel potere del giudice disporre  l'assunzione  di  mezzi  di
 prova  (direttiva  n.  3/73  legge  delega);  se alle prove ammesse a
 richiesta di parte si affiancano quelle ammesse di ufficio (art. 190,
 primo e secondo comma, del c.p.p.); se in determinate situazioni puo'
 essere assolutamente necessario assumere anche di  ufficio  mezzi  di
 prova  perche',  in caso contrario, il pubblico ministero dovrebbe di
 fatto  rinunciare  all'effettivo  e  concreto  esercizio  dell'azione
 penale e il giudice alla ricerca della verita', il non consentire che
 il giudice (anche su richiesta dello stesso pubblico ministero che ha
 presentato  la  lista  testimoniale il giorno successivo allo spirare
 del  termine  ultimo)  possa   sopperire   al   ritardo,   disponendo
 l'assunzione  di  mezzi  di  prova  finalizzati  alla  ricerca  della
 verita', urta non solo con il principio di uguaglianza ma  anche  con
 quello di ragionevolezza.
    Si   pensi  ancora  alla  situazione  sopra  semplificata  con  la
 differnza che, per embrambi gli imputati, il pubblico  ministero  non
 abbia  tempestivamente depositato la lista testimoniale e che, per il
 primo dei due, a  seguito  di  perquisizione  operata  dalla  polizia
 giudiziaria,  si  sia  proceduto  al  sequestro del corpo del reato e
 quindi  nei  di  lui  confronti,  oltre  alle  (inammissibili)  prove
 testimoniali  a  carico,  comuni  ad  entrambi,  si  aggiunga  questa
 ulteriore prova contenuta nel fascicolo del dibattimento  (in  quanto
 atto  non  ripetibile  della  polizia  giudiziaria) e successivamente
 acquisita su richiesta formulata dal pubblico ministero ex  art.  493
 del c.p.p. Anche in tal caso la disparita' di trattamento continua ad
 operare  perche',  con  riferimento  al primo degli imputati, essendo
 gia' stata nel procedimento  a  suo  carico  assunta  una  prova,  ne
 sarebbe consentita l'acquisizione di altre mentre, con riferimento al
 secondo,  la  fronte di un'identica condotta del titolare dell'azione
 penale, cio' non sarebbe possibile.
    In conclusione, l'accertamento della  verita'  ed  il  conseguente
 esito  del  procedimento possono variare a seconda della negligenza o
 meno del pubblico ministero nel deposito della lista testimoniale o a
 seconda del verficarsi di circostanze del tutto casuali, senza che il
 giudice possa in  qualche  modo  intervenire,  esercitando  i  poteri
 conferitigli  dal  legislatore  delegante di disporre l'assunzione di
 mezzi di prova.
    Per  tutte  le  ragioni  sopra  esposte  la sollevata questione di
 legittimita' costituzionale non appare manifestamente infondata.
    Quanto alla rilevanza, e' indubbio che il  presente  giudizio  non
 possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della detta
 questione in quanto, a seconda dell'interpretazione data al combinato
 disposto  degli  artt.  468,  primo  comma,  e  507 del c.p.p., sara'
 possibile oppure no per questo tribunale assumere mezzi di prova  nel
 procedimento in corso.
                               P. Q. M.
    Lettio   gli   artt.   234   della  Costituzione,  1  della  legge
 costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953,
 n. 87;
    Dichiara di ufficio rilevante e non  manifestamente  infondata  la
 questione di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli
 art.  468,  primo  comma  (nella  parte in cui non prevede ipotesi di
 sanabilita'  della  sanzione   di   inammissibilita'   del   deposito
 intempestivo  della lista testimoniale) e 507 del c.p.p. in relazione
 agli artt. 112, 76 e 3, primo comma, della Costituizione;
    Sospende il giudizio in corso e dispone  l'immediata  trasmissione
 degli atti alla Corte costituzionale;
    Ordina  che  a  cura  della  cancelleria la presente ordinanza sia
 notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia  comunicata
 al  Presidente  del  Senato  della  Repubblica  e  della  Camera  dei
 deputati.
      Torino, addi' 28 ottobre 1991
                         Il presidente: BERNARDI
    I giudici: BORGNA - BERSANO BEGEY
                                               Il cancelliere: PANTANO
 92C0238