N. 62 SENTENZA 5 - 24 febbraio 1992

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Giurisdizione civile - Friuli-Venezia Giulia - Pretore - Prescrizione
 dell'uso esclusivo della  lingua  italiana  Soggetti  appartenenti  a
 minoranza  linguistica  riconosciuta  -  Uso  della  propria lingua -
 Mancata previsione - Trattato di Osimo - Interferenza con il  diritto
 di  difesa  -  Impegno  internazionale  della  tutela della minoranza
 Jugoslava  -  Illegittimita'  costituzionale  -  Parificazione  dello
 sloveno   all'italiano   come   lingua   ufficiale   del  processo  -
 Inammissibilita'.
 
 (Legge 24 novembre 1981, n. 689, artt. 22 e 23 in comb. disposto  con
 l'art. 122 del c.p.c.).
 
 (Cost, artt. 3 e 6; statuto spec. del F.-V.G., art. 3).
(GU n.10 del 4-3-1992 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Aldo CORASANITI;
 Giudici: prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof.
    Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio  BALDASSARRE,
    avv.  Mauro  FERRI,  prof.  Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott.
    Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof.  Francesco  GUIZZI,
    prof. Cesare MIRABELLI;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita'  costitituzionale  dell'art.  122 del
 codice di procedura civile e degli artt.  22  e  23  della  legge  24
 novembre  1981,  n.  689  (Modifiche  al sistema penale) promosso con
 ordinanza emessa il 30 novembre  1990  dal  Pretore  di  Trieste  nel
 procedimento  civile vertente tra Pahor Samo ed il Sindaco di Trieste
 ed altro, iscritta al n. 443 del registro ordinanze 1991 e pubblicata
 nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27 prima Serie  Speciale
 dell'anno 1991;
    Visti  gli  atti  di costituzione di Pahor Samo, nonche' l'atto di
 intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  3  dicembre  1991  il  Giudice
 relatore Antonio Baldassarre;
    Uditi  l'avvocato  Bogdan Berdon per Pahor Samo e l'Avvocato dello
 Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri;
                           Ritenuto in fatto
    1. - Un cittadino italiano  di  lingua  slovena,  Samo  Pahor,  ha
 proposto  opposizione  nei  confronti  di un'ordinanza-ingiunzione di
 pagamento, emessa dal Prefetto di Trieste per un'infrazione  stradale
 di divieto di sosta, presentando un ricorso ai sensi degli artt. 22 e
 23  della  legge  24  novembre  1981,  n.  689  (Modifiche al sistema
 penale), ma redigendolo in lingua slovena.  Nel  ricorso  l'opponente
 lamentava,    fra   l'altro,   che   il   verbale   di   accertamento
 dell'infrazione gli era  stato  recapitato  in  lingua  italiana,  in
 contrasto,  a  suo  dire,  con  i  trattati internazionali vigenti in
 materia e, in  particolare,  con  quello  di  Osimo.  Il  Pretore  di
 Trieste,  riservata  ogni  decisione in ordine all'ammissibilita' del
 ricorso, ha disposto la traduzione di quest'ultimo in lingua italiana
 e, dopo che la parte opponente, inizialmente comparsa di persona,  ha
 ulteriormente  contestato l'uso esclusivo della lingua italiana nelle
 fasi processuali successive, ha sollevato questione  di  legittimita'
 costituzionale - in riferimento agli artt. 3 e 6 della Costituzione e
 all'art.  3  dello  Statuto  speciale  per il Friuli-Venezia Giulia -
 avverso gli artt. 22 e 23 della ricordata  legge  n.  689  del  1981,
 nonche'  avverso l'art. 122 c.p.c., "nella parte in cui non prevedono
 la facolta', per i soggetti appartenenti a una minoranza  linguistica
 riconosciuta,  di  usare  la  propria  lingua  negli atti processuali
 civili e ricevere da controparte la traduzione nella  propria  lingua
 degli atti processuali di questa".
   Il giudice a quo premette, in punto di rilevanza, che egli dovrebbe
 dichiarare  irricevibile  il  ricorso introduttivo, redatto in lingua
 slovena, dal momento che l'art. 122 c.p.c., la  cui  applicazione  si
 estende  al processo a quo, prescrive per i procedimenti civili l'uso
 della lingua  italiana  (primo  comma)  e  impone  la  nomina  di  un
 interprete soltanto se deve esser sentita una persona che non conosce
 la  lingua  italiana  (secondo  comma).  Ma, poiche' il giudice a quo
 dubita della costituzionalita' di tali norme  e  poiche'  l'eventuale
 pronuncia di accoglimento di questa Corte farebbe superare l'ostacolo
 dell'obbligo  di  rivolgersi all'autorita' giudiziaria soltanto nella
 lingua italiana, il Pretore di Trieste osserva che solo sollevando la
 questione di costituzionalita' potrebbe affrontare  il  merito  della
 causa sottopostagli.
    In  ordine  alla  non  manifesta  infondatezza della questione, il
 giudice a quo rileva, innanzitutto, che la sentenza n. 28 del 1982 di
 questa Corte, dopo aver ricordato che in Italia non e' mai stata data
 esecuzione al Memorandum di Londra del 1954 (il quale conferiva  agli
 sloveni  estese  facolta' di uso della lingua madre nei loro rapporti
 con  le  autorita'  amministrative  e  con  quelle  giudiziarie),  ha
 affermato  che  quella  slovena  e'  una "minoranza riconosciuta", la
 quale, tuttavia, non puo' giovarsi dell'uso della propria lingua  nel
 processo,  sia  perche' fra le misure di attuazione del Memorandum di
 Londra mantenute ferme dal Trattato di Osimo (reso esecutivo  con  la
 legge  14  marzo  1977,  n.  73)  non v'e' alcuna norma abrogatrice o
 derogatrice dell'art. 122  c.p.c.,  sia  perche'  dall'art.  6  della
 Costituzione e dall'art. 3 dello Statuto per il Friuli-Venezia Giulia
 deriva  una  tutela  il  cui  oggetto  diretto  e'  la  cultura della
 minoranza  slovena,  non  il  diritto   alla   difesa   del   singolo
 appartenente  a  quella  minoranza. Ma, continua il giudice a quo, la
 stessa sentenza n. 28 del 1982, che e' una  pronunzia  interpretativa
 di  rigetto,  afferma che c'e' una "tutela minima" che consente "gia'
 ora" agli appartenenti alla minoranza  slovena  di  usare  la  lingua
 materna  anche  con le locali autorita' giurisdizionali e di ricevere
 risposte da tali autorita' nella stessa lingua. Non  di  meno  questa
 "tutela minima", conclude il giudice a quo, e' rimasta lettera morta,
 oltreche'   per   il   legislatore,   anche   per  i  giudici  e  gli
 amministratori, sicche'  si  renderebbe  necessario  passare  da  una
 sentenza  interpretativa  di  rigetto  a una di accoglimento onde far
 adattare la realta' giuridica ai dettami costituzionali.
    Il Pretore di Trieste ritiene che le norme impugnate violino anche
 l'art. 3 della Costituzione. A suo avviso,  infatti,  l'adozione  del
 nuovo  art.  109 c.p.p., che permette al cittadino appartenente a una
 minoranza linguistica di esprimersi nella propria lingua nel processo
 penale, crea una disparita' rispetto all'impugnato art.  122  c.p.c.,
 che  quella  possibilita' non prevede per il processo civile, sicche'
 si produrrebbe  un'irragionevole  rottura  del  parallelismo  che  la
 dottrina  individua  tra  i due processi e si conferirebbe una tutela
 diseguale allo sviluppo della persona umana nei due tipi di giudizio.
 Tutto cio', conclude il giudice a quo, vale in modo particolare per i
 giudizi   nascenti   dall'opposizione   alle    ordinanze-ingiunzioni
 amministrative,  nel  cui  procedimento,  pur  disciplinato da alcune
 norme del codice di procedura  civile  (fra  le  quali,  sicuramente,
 l'art. 122), il cittadino puo' stare in giudizio di persona (art. 23,
 quarto comma, della legge n. 689 del 1981), come avviene nel processo
 penale.
    2.  -  E'  intervenuta  nel processo di costituzionalita' la parte
 privata  ricorrente  nel  giudizio  a  quo,  svolgendo  per  lo  piu'
 argomentazioni   adesive   rispetto  all'ordinanza  di  rimessione  e
 sottolineando l'ulteriore incongruenza  per  la  quale  il  cittadino
 italiano  appartenente  alla minoranza linguistica slovena puo' usare
 la propria madrelingua nell'esercizio dell'azione civile nel processo
 penale. Su tali basi, la parte privata chiede che  la  questione  sia
 accolta.
    3.  -  Si  e'  costituito  in  giudizio  anche  il  Presidente del
 Consiglio dei ministri per chiedere che la questione  sia  dichiarata
 inammissibile e, comunque, non fondata.
    Secondo  l'Avvocatura  dello  Stato, l'ordinanza di rimessione non
 motiva adeguatamente su alcuni punti decisivi ai fini della rilevanza
 della questione. Innanzitutto, essa non precisa se il ricorrente  del
 giudizio  a quo fosse cittadino italiano alla data del 10 giugno 1940
 (come esige l'art. 3 del Trattato di Osimo) e se,  quando  e  perche'
 abbia   acquistato   la   cittadinanza   italiana   e   sia,  quindi,
 classificabile  come  "cittadino   appartenente   a   una   minoranza
 linguistica riconosciuta" (cosa probabile, peraltro, essendo stato lo
 stesso Pahor parte nel processo penale in relazione al quale e' stata
 resa  la  sentenza  n.  28  del  1982  di  questa  Corte).  La stessa
 ordinanza, poi, non motiva anche sul punto  se  le  norme  in  favore
 delle   minoranze   possano  operare  anche  per  gli  immigrati  che
 acquistano la cittadinanza italiana, oltreche' per  coloro  da  tempo
 insediati nel territorio nazionale.
    In secondo luogo, un ulteriore profilo di inammissibilita', legato
 alla  non  necessaria  influenza  del  giudizio  di costituzionalita'
 rispetto al processo a quo, e' ravvisato dall'Avvocatura dello  Stato
 nel  fatto  che,  mentre  nel ricorso per opposizione alla ordinanza-
 ingiunzione prefettizia si lamentava l'illegittimita' della  predetta
 ordinanza   soltanto   perche'   redatta  "esclusivamente  in  lingua
 italiana" senza "traduzione  in  lingua  slovena",  nel  corso  della
 successiva  udienza  del  25  ottobre  1989  lo  stesso  opponente ha
 dichiarato  di  "aver  ricevuto  in   lingua   slovena   l'ordinanza-
 ingiunzione  ma non anche la contestazione dell'illecito", ammettendo
 cosi'  la  non  sussistenza   in   fatto   dell'asserito   vizio   e,
 conseguentemente,  la mancanza della materia del contendere di fronte
 al giudice a quo.  E'  percio'  che,  probabilmente,  il  Pretore  di
 Trieste non ha esteso la questione di costituzionalita' all'uso della
 lingua  slovena nei rapporti con la pubblica amministrazione, ma l'ha
 limitata all'uso della stessa  lingua  nel  rivolgersi  all'autorita'
 giudiziaria  (e, quindi, in relazione al solo atto introduttivo della
 controversia civile).
   Un  terzo   motivo   di   inammissibilita'   e'   poi   individuato
 dall'Avvocatura  dello  Stato  nel fatto che il giudice a quo sarebbe
 stato  vittima  di  una  aberratio  ictus,  nel  senso  che   avrebbe
 identificato    come    suscettibili    di   manipolazione   additiva
 disposizioni, come quelle contenute negli artt. 22 e 23  della  legge
 n.  689  del  1981,  le  quali  non  concernono affatto la lingua dei
 processi, neppure per  quella  parte  (art.  23,  quarto  comma)  che
 permette   al  ricorrente  e  al  resistente  di  stare  in  giudizio
 personalmente.
    Infine,   un   ultimo   motivo   di    inammissibilita'    addotto
 dall'Avvocatura  dello  Stato  e' costituito dal rilievo che, come si
 puo' desumere dalla disciplina vigente nel Trentino-Alto Adige per le
 minoranze  etniche  di  quella  Regione,  la  garanzia  dell'uso  nel
 processo  di  una  lingua  diversa  da  quella  ufficiale dello Stato
 comporta l'adozione di una disciplina normativa complessa e  onerosa,
 con  molteplici  gradazioni  di  soluzioni,  sicche'  mancherebbe  il
 presupposto logico-giuridico per una pronuncia additiva, vale a  dire
 la  possibilita'  di  individuare  una  sola  soluzione  in  grado di
 assicurare  la  conformita'   a   Costituzione   della   disposizione
 contenente l'omissione di cui si lamenta l'illegittimita'.
    Sotto  il  profilo  del  merito costituzionale, l'Avvocatura dello
 Stato ritiene, comunque, che la questione sia  palesemente  infondata
 per svariate ragioni.
    In primo luogo, non sembrerebbero risolutivi i parametri invocati,
 poiche',  anziche'  richiamare  la  X  Disposizione transitoria della
 Costituzione, il giudice a quo fa appello agli  artt.  3  e  6  della
 Costituzione e all'art. 3 dello Statuto per il Friuli-Venezia Giulia.
 Ma,  in  contrario  si  deve osservare che, innanzitutto, il primo di
 tali articoli non impone un obbligo positivo di creare istituzioni  a
 favore  di  cittadini  di  lingua  diversa  da  quella  italiana e fa
 riferimento  all'eguaglianza  fra  cittadini,  e  non  fra  processi.
 Inoltre,  l'art. 6 e' gia' stato definito da questa Corte come "norma
 direttiva  ad  efficacia  differita",   richiedente   la   necessaria
 interposizione  di  disposizioni  attuative.  Infine,  l'art. 3 dello
 Statuto, per la parte che non ripete il principio  costituzionale  di
 eguaglianza,  impone  la salvaguardia delle caratteristiche etniche e
 culturali, salvaguardia che non si concreta nell'obbligo di porre  in
 essere una complessa disciplina derogatoria all'art. 122 c.p.c..
    In  secondo  luogo,  non  risolutivo  sembra  anche il riferimento
 all'art.  109  c.p.p.  Quest'ultimo,  infatti,  pone  una  deroga  al
 principio  dell'uso della lingua italiana che e' circoscritta al caso
 di un cittadino italiano che  deve  essere  interrogato  o  esaminato
 oralmente,  al quale viene riconosciuta la facolta', previa richiesta
 espressa, di parlare nella madrelingua (e non gia' di poter  scrivere
 gli  atti  ufficiali  del  processo  nella propria lingua) e di avere
 tanto il verbale anche nella propria  lingua,  quanto  la  traduzione
 nella  stessa  lingua  degli atti a lui indirizzati. In breve, l'art.
 109 non comporta che la richiesta dell'alloglotto determini la lingua
 nel processo, sicche' per tale profilo la  questione  potrebbe  esser
 ritenuta anche inammissibile, oltreche' infondata. Ne' va trascurato,
 continua  l'Avvocatura  dello  Stato,  che  l'art.  109  concerne  il
 processo penale, vale a dire un processo che, a differenza di  quello
 civile,  coinvolge  problemi  di  liberta' personale, e non gia' solo
 interessi patrimoniali. Per di piu', aggiunge  l'Avvocatura,  non  si
 puo'  fare  confusione  tra  gli atti del processo e le dichiarazioni
 probatorie che si raccolgono nel processo, poiche' le seconde,  anche
 se  poi  vengono  raccolte  e  documentate  in  atti processuali, non
 partecipano della natura di questi ultimi e, percio', possono  essere
 espresse in altre lingue o anche in nessuna lingua, come nel caso del
 sordomuto.
    Da  ultimo,  l'Avvocatura  dello  Stato  osserva  che  la clausola
 contenuta nell'art. 8 del Trattato di Osimo, relativa  alla  salvezza
 delle  misure  interne  adottate  in  applicazione  del Memorandum di
 Londra del 5 ottobre 1954, non rileva riguardo all'uso  della  lingua
 slovena negli atti amministrativi e in quelli giurisdizionali, per la
 semplice  ragione  che in materia non sussistono "misure interne gia'
 adottate".
                        Considerato in diritto
    1. - Nel corso di  un  giudizio  di  opposizione  a  un'ordinanza-
 ingiunzioneprefettizia,  instaurato  ai  sensi  degli artt.   22 e 23
 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al  sistema  penale),
 il  cui  ricorso  introduttivo e' stato redatto in lingua slovena, il
 Pretore  di  Trieste,   dopo   essersi   riservata   ogni   decisione
 sull'ammissibilita'  del  ricorso  stesso  e dopo aver fatto tradurre
 quest'ultimo in lingua italiana, di fronte alle  contestazioni  della
 parte  opponente,  comparsa  personalmente in giudizio, riguardo alla
 prescrizione dell'uso esclusivo della lingua  italiana  in  tutto  il
 processo   pendente,   ha   sollevato   questione   di   legittimita'
 costituzionale dei predetti artt. 22  e  23,  nonche'  dell'art.  122
 c.p.c.  (ritenuto  applicabile nel processo a quo per il rinvio delle
 disposizioni regolatrici di quest'ultimo alle  norme  del  codice  di
 procedura civile), "nella parte in cui non prevedono la facolta', per
 i  soggetti appartenenti a una minoranza linguistica riconosciuta, di
 usare la propria lingua negli atti processuali civili e  ricevere  da
 controparte la traduzione nella propria lingua degli atti processuali
 di questa".
   Secondo   il  giudice  a  quo,  le  norme  impugnate  violerebbero,
 innanzitutto, l'art. 6 della Costituzione e l'art.  3  dello  Statuto
 speciale   per   il   Friuli-Venezia   Giulia,   i   quali   esigono,
 rispettivamente,  la  tutela  con  apposite  norme  delle   minoranze
 linguistiche  e  la  parita'  di  diritti  e  di  trattamento  fra  i
 cittadini, qualunque sia il gruppo linguistico  di  appartenenza.  Lo
 stesso   giudice  ritiene  che  sia  violato  anche  l'art.  3  della
 Costituzione, a causa dell'irragionevole disparita'  che  si  sarebbe
 creata  tra  il processo civile, nel quale ogni cittadino e' tenuto a
 usare soltanto la lingua italiana,  e  il  processo  penale,  laddove
 l'art.  109 c.p.p. permette al cittadino appartenente a una minoranza
 linguistica riconosciuta  di  esprimersi  nella  lingua  materna,  di
 ricevere gli atti processuali tradotti nella stessa lingua e di avere
 la redazione dei verbali anche nella propria lingua.
    L'Avvocatura   dello   Stato   ha  sollevato  varie  eccezioni  di
 inammissibilita', che occorre esaminare preliminarmente.
    2. - Non  puo'  essere  accolta  l'eccezione  di  inammissibilita'
 sollevata  sul  presupposto  che  l'ordinanza  di  rimessione non sia
 adeguatamente  motivata  in  relazione  al  possesso,  da  parte  del
 ricorrente nel giudizio a quo, della cittadinanza italiana.
    Per  quanto  la  suddetta  ordinanza  non contenga alcuna espressa
 affermazione sul punto, essa suppone chiaramente  la  sussistenza  di
 quel requisito nella persona del ricorrente nel momento stesso in cui
 solleva  la  questione  di  costituzionalita'  sull'uso  della lingua
 slovena in relazione a "un appartenente a una minoranza  linguistica"
 riconosciuta.  Del  resto,  che  il  dubbio sollevato dall'Avvocatura
 dello Stato sia privo di fondamento ha ulteriore conferma nel  fatto,
 ricordato  dalla  stessa  Avvocatura, che la medesima persona e' gia'
 stata parte di un processo penale che ha dato luogo a una  precedente
 pronunzia  interpretativa  di  rigetto  di  questa  Corte in merito a
 questione analoga.
    3.  -  Parimenti  da  respingere  e'  l'ulteriore   eccezione   di
 inammissibilita'  sollevata  dall'Avvocatura dello Stato in relazione
 al fatto che,  essendo  stata  successivamente  tradotta  in  sloveno
 l'ordinanza-ingiunzione  dalla cui opposizione e' sorto il giudizio a
 quo ed essendo quello della contestazione  dell'uso  esclusivo  della
 lingua  italiana  l'unico  motivo  di  ricorso  avverso  la  predetta
 ordinanza-ingiunzione,  il  processo  a  quo  dovrebbe   considerarsi
 cessato per il venir meno della materia del contendere.
    Ove  l'eccezione  proposta non sia, in realta', una prefigurazione
 della soluzione di merito da dare al giudizio a quo  e  ove,  quindi,
 sia  una  vera  e propria pregiudiziale d'inammissibilita', diretta a
 ipotizzare che il processo a  quo  sia  illegittimamente  considerato
 tuttora  pendente,  occorre ricordare che non rientra tra i poteri di
 questa Corte quello di  sindacare,  in  sede  di  ammissibilita',  la
 validita' dei presupposti di esistenza del giudizio a quo, a meno che
 questi  non risultino manifestamente e incontrovertibilmente carenti.
 Poiche' nel momento  in  cui  e'  stata  sollevata  la  questione  di
 legittimita' costituzionale era pendente un giudizio di opposizione a
 un'ordinanza-ingiunzione  e  poiche'  in  quel momento non sussisteva
 alcuna incontrovertibile ragione che potesse indurre a  ritenere  che
 il   giudizio   a   quo   fosse  instaurato  in  modo  manifestamente
 illegittimo,    si    deve    escludere    che    ricorrano    motivi
 d'inammissibilita' sotto l'accennato profilo.
    4.  - Cosi' come e' formulata dall'Avvocatura dello Stato, va pure
 respinta l'ulteriore eccezione d'inammissibilita', secondo  la  quale
 il giudice a quo avrebbe erroneamente individuato negli artt. 22 e 23
 della legge n. 689 del 1981 le disposizioni di legge da sottoporre al
 giudizio  di legittimita' costituzionale, considerato che nessuno dei
 due citati articoli concerne il problema della lingua  da  usare  nel
 relativo processo.
    In  realta',  il  giudice a quo, dovendo identificare la questione
 dell'uso della lingua riguardo al particolare processo di  cognizione
 nascente  dall'opposizione a un'ordinanza- ingiunzione applicativa di
 sanzioni amministrative, non aveva altra  scelta  che  impugnare  gli
 articoli  di  legge  disciplinanti  quel processo in congiunzione con
 l'art. 122 c.p.c., relativo all'uso della lingua nel processo civile,
 cui gli artt. 22 e 23 della legge n. 689  del  1981  fanno  implicito
 rinvio  in  ordine al procedimento da essi regolato. E', infatti, dal
 complesso  delle  disposizioni  impugnate,   assunto   in   combinato
 disposto,  che deriva la prescrizione di usare la lingua italiana nel
 procedimento speciale costituente il giudizio a quo, sia con riguardo
 al ricorso (regolato  dall'art.  22),  sia  con  riguardo  agli  atti
 processuali successivi (regolati dall'art. 23).
    5.  - Inammissibile per irrilevanza dev'essere, invece, dichiarata
 l'estensione della questione sollevata al processo civile come tale.
    Come e' stato precisato nel punto precedente della motivazione, il
 giudice a quo ha impugnato il combinato disposto formato dagli  artt.
 22 e 23 della legge n. 689 del 1981 e dall'art. 122 c.p.c. al fine di
 prospettare  il  dubbio  di legittimita' costituzionale riguardo alla
 prescrizione dell'uso esclusivo  della  lingua  italiana  negli  atti
 processuali  riguardanti  il giudizio di opposizione regolato dai due
 articoli citati per primi. Tuttavia, numerosi passi dell'ordinanza di
 rimessione e, in  modo  specifico,  quelli  relativi  al  profilo  di
 costituzionalita'   sollevato   in   riferimento   all'art.  3  della
 Costituzione, propongono alla  Corte  un  oggetto  di  giudizio  piu'
 ampio, esteso al processo civile come tale.
   Per  quest'ultima  parte,  che  esorbita  dall'obbligo  di usare la
 lingua italiana nel particolare processo regolato dai ricordati artt.
 22 e 23, la questione e' inammissibile, poiche'  il  procedimento  da
 ultimo  menzionato,  nel  quale  consiste  il  giudizio  a quo, e' un
 processo speciale di  cognizione,  nel  senso  che,  pur  essendo  un
 giudizio  ordinario  a  cognizione  piena ed esauriente, consta di un
 rito  avente  ampi  tratti  di  specialita',   dovuti   alla   natura
 particolare   della   controversia   (opposizione   a   provvedimenti
 applicativi  di  sanzioni  amministrative  a   carattere   punitivo).
 Sicche',   essendo   logicamente  assurdo  ritenere  che  la  species
 ricomprenda  il  genus,  un  vincolo   formale   riferentesi   a   un
 procedimento  "speciale",  se  pure  a seguito di un rinvio implicito
 alla  disciplina  generale,   non   puo'   essere   esteso   in   via
 interpretativa  al  modello  generale  costituito dal processo civile
 come tale, a meno di non eccedere dai limiti  della  rilevanza  posti
 dal giudizio a quo.
    6. - La questione e' fondata soltanto in parte.
    Questa  Corte,  nella sentenza n. 28 del 1982, ha affermato che la
 popolazione slovena residente in parte del territorio  della  Regione
 Friuli-Venezia  Giulia va qualificata, in base a varie norme vigenti,
 come "minoranza linguistica riconosciuta"  ai  sensi  dell'art.  6  e
 della   X   Disposizione   transitoria  della  Costituzione,  nonche'
 dell'art. 3 dello  Statuto  speciale  per  il  Friuli-Venezia  Giulia
 (legge  costituzionale  31 gennaio 1963, n. 1). Tale qualificazione -
 un tempo parzialmente legata al Memorandum  d'intesa  fra  i  Governi
 d'Italia,  del  Regno  Unito,  degli  Stati Uniti e della Jugoslavia,
 concernente il territorio libero di Trieste (siglato a  Londra  il  5
 ottobre 1954), ormai decaduto e, peraltro, attuato in passato solo in
 modo  parziale  e  prevalentemente  in  via  amministrativa - deriva,
 innanzitutto, dal Trattato di Osimo  (stipulato  fra  l'Italia  e  la
 Jugoslavia  il  10  novembre 1975 e reso esecutivo con legge 14 marzo
 1977, n. 73), il quale fa  esplicito  riferimento  all'impegno  dello
 Stato  italiano  di  tutelare  la "minoranza jugoslava" residente nel
 proprio territorio parallelamente all'impegno dello  Stato  jugoslavo
 verso la minoranza italiana residente nel territorio di quest'ultimo.
 La  stessa  qualificazione  deriva, inoltre, da vari atti legislativi
 nazionali e regionali, in  qualche  modo  connessi  con  gli  impegni
 assunti  dallo  Stato  italiano  sul  piano internazionale, che hanno
 riconosciuto alla minoranza slovena insediata in parte del territorio
 della Regione Friuli-Venezia Giulia appositi "diritti" in relazione a
 vari ambiti della vita civile, sociale e politica (v., ad esempio, le
 leggi 14 aprile 1956, n. 308; 19 luglio 1961, n.  1012;  22  dicembre
 1973,  n.  932;  14  gennaio  1975,  n. 1; 24 gennaio 1979, n. 18; il
 d.P.R. 31 maggio 1974, n. 416; 9 gennaio 1991,  n.  19;  nonche',  in
 ambito  regionale,  le  recenti  leggi 24 luglio 1986, n. 30; 1 marzo
 1988, n. 7; 9 marzo 1988, n. 10; 5 settembre 1991, n. 46).
    Sulla  base  delle  norme   costituzionali   prima   ricordate   -
 segnatamente   l'art.   6  e  la  X  Disposizione  transitoria  della
 Costituzione, nonche' l'art. 3 dello Statuto speciale per il  Friuli-
 Venezia   Giulia  -  la  lingua  propria  di  ciascun  gruppo  etnico
 rappresenta un connotato essenziale della nozione  costituzionale  di
 minoranza  etnica,  al  punto  da  indurre  il Costituente a definire
 quest'ultima   quale   "minoranza   linguistica".    Come    elemento
 fondamentale   di  identita'  culturale  e  come  mezzo  primario  di
 trasmissione   dei   relativi   valori   e,   quindi,   di   garanzia
 dell'esistenza  e della continuita' del patrimonio spirituale proprio
 di ciascuna minoranza etnica, il diritto all'uso della lingua materna
 nell'ambito della comunita' di appartenenza e' un aspetto  essenziale
 della  tutela  costituzionale delle minoranze etniche, che si collega
 ai principi supremi della Costituzione (v. sentt. nn. 312  del  1983,
 289  del 1987 e 768 del 1988): al principio pluralistico riconosciuto
 dall'art.  2  ("La  Repubblica  riconosce  e  garantisce  i   diritti
 inviolabili  dell'uomo (...) nelle formazioni sociali"), al principio
 di  eguaglianza  di  fronte  alla legge, garantito dall'art. 3, primo
 comma ("Tutti i cittadini hanno pari dignita' sociale e  sono  eguali
 di fronte alla legge, senza distinzioni (...) di lingua (...)"), e al
 principio di giustizia sociale e di pieno sviluppo della personalita'
 umana  nella  vita comunitaria, assicurato dall'art. 3, secondo comma
 ("E' compito  della  Repubblica  rimuovere  gli  ostacoli  di  ordine
 economico   e   sociale,  che,  limitando  di  fatto  la  liberta'  e
 l'eguaglianza dei cittadini,  impediscono  il  pieno  sviluppo  della
 personalita' umana (...)").
    La  garanzia  del  diritto all'uso della lingua materna come parte
 essenziale  della  tutela  delle  minoranze  etniche   e',   inoltre,
 riconosciuta   da   atti   di   diritto  internazionale.  Fra  questi
 particolare rilievo ha l'art.  27  del  patto  internazionale  per  i
 diritti civili e politici adottato il 16 dicembre 1966 dall'Assemblea
 generale   dell'Organizzazione   delle   Nazioni   Unite  (O.N.U.)  e
 ratificato con legge 25 ottobre 1977, n. 881, secondo il  quale  ogni
 persona  appartenente  a  una  minoranza  linguistica non puo' essere
 privata del diritto di usare la lingua materna nell'ambito  dell'area
 d'insediamento della propria comunita' etnica. Sebbene tale patto non
 sia  ancora ratificato da un numero sufficiente di Stati per renderlo
 operante  come  trattato  multilaterale,  tuttavia,  consistendo  pur
 sempre  in  una  deliberazione  dell'Assemblea generale delle Nazioni
 Unite, ad esso deve, quantomeno, riconoscersi il valore  di  criterio
 d'interpretazione delle norme vigenti nell'ordinamento internazionale
 e  delle  norme  di  diritto interno proprie degli Stati appartenenti
 all'O.N.U., considerato che pone obiettivi ritenuti da questi  ultimi
 Stati meritevoli di essere perseguiti e realizzati.
    7.   -  Sulla  base  dei  principi  costituzionali  e  di  diritto
 internazionale ora descritti, non vi puo' esser dubbio che la  tutela
 di  una  minoranza  linguistica  riconosciuta si realizza pienamente,
 sotto il profilo dell'uso della lingua materna da  parte  di  ciascun
 appartenente  a  tale minoranza, quando si consenta a queste persone,
 nell'ambito  del  territorio  di  insediamento  della  minoranza  cui
 appartengono, di non essere costrette ad adoperare una lingua diversa
 da quella materna nei rapporti con le autorita' pubbliche.
    Questa  affermazione  assume  un valore particolare in riferimento
 all'uso della lingua materna  di  fronte  all'autorita'  giudiziaria,
 poiche'   in   tali   rapporti   ricorre  in  ogni  caso  un'indubbia
 interferenza di questa tutela  con  la  garanzia  costituzionale  dei
 diritti inviolabili della difesa e, piu' precisamente, con il diritto
 a  un  regolare  processo (art. 24 della Costituzione). Interferenza,
 occorre sottolineare, e non  coincidenza  o  sovrapposizione  con  la
 tutela  comportata  dal  riconoscimento  dei  diritti  della  difesa,
 poiche', mentre quest'ultima  e'  finalizzata,  per  il  profilo  ora
 rilevante,  alla  adeguata  comprensione  degli aspetti processuali e
 suppone che questa possa mancare quando l'interessato  non  abbia  in
 concreto  una perfetta conoscenza della lingua ufficiale del processo
 (come, ad  esempio,  nel  caso  dello  straniero),  al  contrario  la
 garanzia  dell'uso  della lingua materna a favore dell'appartenente a
 una  minoranza  linguistica  riconosciuta  e',  in  ogni   caso,   la
 conseguenza  di  una  speciale protezione costituzionale accordata al
 patrimonio culturale di un particolare  gruppo  etnico  e,  pertanto,
 prescinde   dalla   circostanza   concreta  che  l'appartenente  alla
 minoranza stessa conosca o meno la lingua ufficiale (v. sent.  n.  28
 del 1982).
    E' per le ragioni sopra indicate che questa Corte, con la sentenza
 n.  28 del 1982 (i cui principi sono stati ribaditi anche dalla sent.
 n.  312  del  1983  in  relazione  alle  minoranze  riconosciute  dal
 Trentino-Alto  Adige),  ha  direttamente  ricondotto all'art. 6 della
 Costituzione e all'art. 3  dello  Statuto  speciale  per  il  Friuli-
 Venezia  Giulia  il "diritto" di ciascun appartenente a una minoranza
 linguistica riconosciuta all'uso della lingua  materna  nei  rapporti
 con gli uffici giudiziari situati nei territori dove quella minoranza
 e'  insediata.  Piu' in particolare, nella sentenza ora citata questa
 Corte ha  espressamente  affermato  che  dalle  norme  costituzionali
 precedentemente  ricordate  discende un nucleo minimale di tutela per
 gli  appartenenti  alla  minoranza   riconosciuta   comprendente   il
 "diritto"  di  usare  la  lingua  materna  nei rapporti con le locali
 autorita' giurisdizionali e di ricevere risposte da quelle  autorita'
 nella stessa lingua.
    Ed  e'  per  le  stesse  ragioni  sopra menzionate che la medesima
 garanzia sull'uso della madrelingua e' divenuta oggetto di un impegno
 di diritto internazionale, assunto dallo Stato italiano nei confronti
 di quello jugoslavo. Infatti, nel sancire la cessazione di  efficacia
 del Memorandum di Londra del 1954, il cui allegato "statuto speciale"
 prevedeva,  all'art.  5, il diritto degli appartenenti alla minoranza
 slovena di usare  la  loro  lingua  nei  rapporti  con  le  autorita'
 giudiziarie  e  di  ricevere da queste, direttamente o in traduzione,
 risposte nella loro stessa lingua, il Trattato  di  Osimo  del  1975,
 oltre  a confermare le misure interne gia' adottate in attuazione del
 predetto "statuto", impegna le parti contraenti  ad  assicurare,  nel
 quadro  del  loro  diritto  interno, "la conservazione del livello di
 protezione a favore dei membri dei gruppi  etnici  rispettivi  (delle
 minoranze  rispettive),  previsto  dalle norme dello Statuto Speciale
 decaduto" ("chaque Partie de'clare ( ..)  qu'elle  assurera  dans  le
 cadre  de  son  droit interne le maintien de niveau de protection des
 membres des groupes  ethniques  respectifs  (des  minorite's  respec-
 tives),  pre'vu  par les normes du Statut Special e'chu"). E, poiche'
 tra le misure di protezione garantite rientra anche il ricordato art.
 5,  il  contenuto  di  quest'ultimo  diviene,  in  conseguenza  della
 disposizione  appena  citata  del  Trattato  di Osimo, oggetto di uno
 specifico impegno assunto dallo Stato italiano.
    In altri termini, tanto la Costituzione (e lo Statuto speciale per
 il Friuli-Venezia Giulia) quanto il Trattato  di  Osimo,  nell'ambito
 dei   fini   connessi   alla   tutela   "positiva"   delle  minoranze
 linguistiche, impongono al legislatore e alle altre  autorita'  della
 Repubblica  l'impegno  di  perseguire  l'obiettivo di assicurare agli
 appartenenti alla  minoranza  slovena  residente  nel  Friuli-Venezia
 Giulia il diritto di usare la propria lingua materna nei rapporti con
 gli  uffici  pubblici  e, in particolare, nei rapporti con gli uffici
 giudiziari. Nell'uno e nell'altro caso si tratta, comunque, di "norme
 direttive ad efficacia differita" - per usare la terminologia ripresa
 dalla  sentenza  n.  28  del  1982  con  riguardo  all'art.  6  della
 Costituzione  -, nel senso che si e' di fronte a norme finalistiche o
 di scopo la cui realizzazione e' innanzitutto rimessa al legislatore,
 il quale, usando della propria discrezionalita', e' tenuto a graduare
 i modi, le forme di tutela e i tempi  connessi  all'attuazione  delle
 predette finalita' in riferimento alle condizioni sociali esistenti e
 alla   disponibilita',   da   parte   dello   Stato,   delle  risorse
 organizzative e finanziarie necessarie alla relativa implementazione.
    8. - Il diritto  all'uso  della  lingua  materna  da  parte  degli
 appartenenti  a  minoranze  linguistiche  nei  loro  rapporti  con le
 (locali)  autorita'  giudiziarie,  il  quale  trova   riconoscimento,
 peraltro,  anche  in  norme  costituzionali  e legislative vigenti in
 altri Stati europei e nordamericani dove sussistono  etni'e  diverse,
 ha,  dunque,  una generale copertura costituzionale nell'art. 6 della
 Costituzione e, per quanto riguarda la minoranza slovena, anche nella
 X  Disposizione  transitoria  della  stessa  Carta  costituzionale  e
 nell'art. 3 dello Statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia. Esso
 e',  in  altri  termini, un valore che - secondo il paradigma proprio
 dei      diritti      condizionati,      quanto       all'attuazione,
 dall'interposizionedel  legislatore  ordinario  -  puo'  fondare, nei
 singoli cittadini appartenenti a minoranze linguistiche riconosciute,
 pretese soggettive effettive e azionabili soltanto  nella  misura  in
 cui  siano  state adottate adeguate norme di attuazione e siano state
 predisposte le necessarie strutture  organizzative  o  istituzionali.
 Sotto quest'ultimo profilo, tuttavia, non e' indispensabile che siano
 state  emanate  norme di attuazione specifiche, ma e' sufficiente che
 sussistano   istituti   o   strutture   organizzative   di   generale
 applicazione  che  possono essere utilizzati anche al fine di rendere
 effettivo e concretamente fruibile il diritto  garantito  in  via  di
 principio dalla Costituzione.
    E'  proprio  sulla  base di questi ultimi presupposti che la Corte
 costituzionale ha potuto affermare nella sentenza n. 28 del 1982  che
 l'art.  6 della Costituzione e l'art. 3 dello Statuto speciale per il
 Friuli-Venezia Giulia contengono una tutela "minima", la quale "anche
 nei rapporti con le locali autorita' giurisdizionali,  consente  gia'
 ora  agli  appartenenti  alla  minoranza  slovena  di usare la lingua
 materna e di ricever risposte dalle autorita' in tale  lingua:  nelle
 comunicazioni   verbali,   direttamente   o  per  il  tramite  di  un
 interprete, nella corrispondenza, con il testo italiano  accompagnato
 da  traduzione  in  lingua slovena". Infatti, prosegue subito dopo la
 stessa sentenza, l'entrata in vigore della legge 19 luglio  1967,  n.
 568,  contenente norme sul conferimento dell'incarico di traduttore e
 di interprete presso gli uffici giudiziari situati nei  distretti  di
 Corte  d'appello  dove  le  esigenze di servizio lo richiedano, rende
 effettivo e azionabile, per la parte considerata, il diritto  all'uso
 della  lingua  materna  da  parte  degli  appartenenti alla minoranza
 slovena nei loro rapporti con l'autorita' giudiziaria.
    Sicche', in applicazione di tali principi, come  non  puo'  essere
 tollerata  qualsiasi  sanzione  che  colpisca l'uso in giudizio della
 lingua materna da parte degli appartenenti  alla  minoranza  slovena,
 cosi'  deve  essere  ammessa,  in  conseguenza della legge n. 568 del
 1967, la facolta' di questi  stessi  soggetti,  nei  giudizi  davanti
 all'autorita'  giudiziaria  avente competenza su un territorio dov'e'
 insediata la minoranza slovena, di usare, a loro richiesta, la lingua
 materna nei propri atti, usufruendo per questi della traduzione nella
 lingua ufficiale, oltreche' di ricevere in traduzione  nella  propria
 lingua  gli  atti  dell'autorita'  giudiziaria  e  le  risposte della
 controparte.
    Entro questi limiti la questione di costituzionalita' proposta dal
 Pretore  di  Trieste  sull'uso  della  lingua slovena nel processo di
 opposizione  alle  ordinanze-ingiunzioni  applicative   di   sanzioni
 amministrative,  disciplinato  dagli artt. 22 e 23 della legge n. 689
 del 1981, deve essere accolta.
    9. - La questione sollevata  dal  Pretore  di  Trieste,  formulata
 negli  ampi  termini  di  permettere  ai  cittadini appartenenti alla
 minoranza slovena di usare in tutti gli atti del  processo  (regolato
 dagli  artt.  22  e  23  della  legge  n.  689  del  1981) la propria
 madrelingua,   ricomprende   ulteriori   profili.    Complessivamente
 considerati,  questi  comportano  che  sia  riconosciuto il principio
 della parificazione dello sloveno all'italiano come lingua  ufficiale
 del  processo  di  cui trattasi in relazione ai giudizi di competenza
 degli uffici  giudiziari  siti  nei  territori  d'insediamento  della
 minoranza slovena. Per questo aspetto, la questione e' inammissibile.
    La  parificazione  della  lingua  slovena  a  quella italiana come
 lingua  ufficiale  del  processo  di  opposizione   alle   ordinanze-
 ingiunzioni applicative di sanzioni amministrative comporta, infatti,
 una  pluralita'  di  soluzioni  in ordine alle varianti da introdurre
 nella organizzazione del processo, nei poteri spettanti alle parti  e
 al  giudice,  oltreche'  nei  termini entro cui esercitare i suddetti
 poteri, la quale e' tale da precludere la possibilita'  di  qualsiasi
 legittimo  intervento  additivo da parte di questa Corte e da esigere
 il necessario e auspicabile intervento del legislatore, cosi' come e'
 avvenuto, per la minoranza di lingua tedesca residente nel  Trentino-
 Alto Adige, con il d.P.R. 15 luglio 1988, n. 574.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  l'illegittimita' costituzionale degli artt. 22 e 23 della
 legge 24 novembre 1981, n. 689  (Modifiche  al  sistema  penale),  in
 combinato  disposto  con  l'art.  122  c.p.c., nella parte in cui non
 consentono  ai  cittadini  italiani   appartenenti   alla   minoranza
 linguistica   slovena  nel  processo  di  opposizione  ad  ordinanze-
 ingiunzioni applicative di sanzioni amministrative davanti al pretore
 avente competenza su un territorio dove  sia  insediata  la  predetta
 minoranza,  di usare, su loro richiesta, la lingua materna nei propri
 atti, usufruendo per questi della traduzione nella  lingua  italiana,
 nonche'   di   ricevere   tradotti  nella  propria  lingua  gli  atti
 dell'autorita' giudiziaria e le risposte della controparte;
    Dichiara inammissibile la questione di legittimita' costituzionale
 sollevata, con l'ordinanza  indicata  in  epigrafe,  dal  Pretore  di
 Trieste,  in  riferimento  agli  artt. 6 della Costituzione e 3 dello
 Statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia  (legge  costituzionale
 31 gennaio 1963, n. 1), nei confronti degli artt. 22 e 23 della legge
 24  novembre  1981,  n.  689,  in  combinato  disposto con l'art. 122
 c.p.c., nella parte in  cui  non  consentono  ai  cittadini  italiani
 appartenenti  alla  minoranza  linguistica  slovena,  nel processo di
 opposizione  ad  ordinanze-  ingiunzioni  applicative   di   sanzioni
 amministrative  davanti al pretore avente competenza su un territorio
 dove sia  insediata  la  predetta  minoranza,  di  usare  la  propria
 madrelingua  come  lingua  parificata a quella ufficiale del suddetto
 processo;
    Dichiara inammissibile la questione di legittimita' costituzionale
 sollevata, con l'ordinanza  indicata  in  epigrafe,  dal  Pretore  di
 Trieste,  in riferimento all'art. 3 della Costituzione, nei confronti
 degli artt. 22 e  23  della  legge  24  novembre  1981,  n.  689,  in
 combinato  disposto  con  l'art.  122  c.p.c.,  nella  parte  in  cui
 prescrivono l'uso della lingua italiana come lingua del
  processo civile, con  esclusione  della  possibilita'  di  usare  la
 lingua  slovena  da  parte  di  cittadini  italiani appartenenti alla
 minoranza linguistica slovena  quando  siano  parti  di  un  processo
 civile  instaurato davanti ad autorita' giudiziaria avente competenza
 di primo grado o di appello su un territorio dove  sia  insediata  la
 predetta minoranza.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 5 febbraio 1992.
                       Il Presidente: CORASANITI
                       Il redattore: BALDASSARRE
                       Il cancelliere: FRUSCELLA
    Depositata in cancelleria il 24 febbraio 1992.
                       Il cancelliere: FRUSCELLA
 92C0239