N. 92 SENTENZA 21 febbraio - 9 marzo 1992
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Processo penale - Tribunale - G.I.P. - Giudizio abbreviato - Dissenso del p.m. - Motivazione con l'impossibilita' di definizione del processo allo stato degli atti - Limiti al giudice dell'udienza preliminare - Richiamo alle sentenze della Corte nn. 81/1991, 66 e 183 del 1990 e 23/1992 - Previsione della integrazione probatoria di cui all'art. 422 del c.p.p. - Richiesta di sentenza additiva - Discrezionalita' legislativa - Inammissibilita'. (c.d. artt. 438, 439 e 440 del c.p.p.). (Cost., artt. 3 e 25).(GU n.12 del 18-3-1992 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: dott. Aldo CORASANITI; Giudici: prof. Giuseppe BORZELLINO, dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI;
ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439 e 440 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 15 aprile 1991 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Scattaretica Salvatore ed altri, iscritta al n. 447 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 1991; Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 22 gennaio 1992 il Giudice relatore Ugo Spagnoli; Ritenuto in fatto 1. - Nel corso di un'udienza preliminare nella quale l'instaurazione del giudizio abbreviato chiesta dagli imputati era stata preclusa dal dissenso del pubblico ministero, motivato con l'indecidibilita' allo stato degli atti (per l'esigenza di acquisire al dibattimento le deposizioni testimoniali del personale di polizia giudiziaria che aveva proceduto all'arresto ed al sequestro del corpo di reato), il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino, con ordinanza del 15 aprile 1991, ha sollevato, su eccezione della difesa, in riferimento agli artt. 3 e 25, secondo comma, Cost., una questione di legittimita' costituzionale del "combinato disposto degli artt. 438, 439 e 440 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che, in caso di dissenso del pubblico ministero, motivato con l'impossibilita' che il processo sia definito allo stato degli atti, il giudice dell'udienza preliminare che ritiene che l'impossibilita' addotta dipende da fatto rimediabile dello stesso pubblico ministero, non possa indicare alle parti i temi incompleti sui quali si rende necessario acquisire ulteriori informazioni ai fini della decisione in ordine alla possibilita' di definire il processo allo stato degli atti". Il giudice rimettente osserva innanzitutto, in punto di rilevanza, che il dissenso del pubblico ministero motivato dall'insufficienza delle indagini preliminari non potrebbe, ove questa fosse reale, ritenersi ingiustificato, sicche' in tal caso non potrebbe farsi luogo all'applicazione, in esito al dibattimento, della riduzione di pena di cui all'art. 442, secondo comma, cod. proc. pen., prevista nella sentenza di questa Corte n. 81 del 1991. Rileva, poi, che le indagini preliminari sono finalizzate solo ad una delibazione della notitia criminis onde configurarla entro una precisa imputazione a scegliere il tipo di domanda da proporre al giudice competente (art. 326 cod. proc. pen. e direttiva n. 37 della legge delega); con la conseguenza che dall'obbligo di imparziale applicazione della legge e dai principi di cui agli artt. 104 e 107 Cost. non puo' farsi discendere il potere-dovere del pubblico ministero di svolgere tutte le ulteriori indagini utili a consentire la definizione anticipata del processo mediante il rito abbreviato. Tuttavia, poiche' il compimento di indagini non sufficienti a tale fine puo' - come nella specie - dipendere da una scelta volontaria del pubblico ministero e ricollegarsi ad una strategia processuale non sindacabile dai giudici dell'udienza preliminare o del dibattimento, e' in tal caso ravvisabile, secondo il giudice a quo, una violazione del principio di uguaglianza: sia per la disparita' di trattamento che - in termini di privazione della riduzione di pena di cui all'art. 442 cod. proc. pen. - consegue alla scelta del pubblico ministero di svolgere o non svolgere, in casi sostanzialmente identici, indagini sufficienti al predetto fine; sia per la correlativa lesione del principio di parita' tra accusa e difesa, non sanabile con le investigazioni difensive di cui all'art. 38 disp. att. cod. proc. pen., in quanto i poteri del difensore al riguardo sono piu' limitati di quelli del pubblico ministero. Nella medesima ipotesi, sarebbe violato, inoltre, il principio di legalita' della pena (art. 25, secondo comma, Cost.), in quanto la scelta del pubblico ministero di non svolgere indagini sufficienti alla definizione del processo allo stato degli atti vincola il giudice a non concedere, in caso di condanna, la predetta riduzione di pena. Ne' tale soggezione alle scelte del pubblico ministero potrebbe dirsi esclusa dalla facolta' del giudice dell'udienza preliminare di dare ingresso all'integrazione probatoria prevista dall'art. 422 cod. proc. pen., dato che questa facolta' e' rigorosamente limitata a quanto sia manifestamente decisivo ai fini del rinvio a giudizio o del non luogo a procedere e non puo' quindi estendersi alle attivita' di integrazione dello stato degli atti che appaiano necessarie per definire il processo. Donde l'esigenza di introdurre, sulla falsariga del citato art. 422 - in caso di insufficienza rimediabile delle indagini preliminari - un potere- dovere del giudice di indicare alle parti, ed in particolare al pubblico ministero, i temi da questi lasciati incompleti sui quali e' necessario acquisire ulteriori informazioni al fine di poter definire il processo allo stato degli atti. 2. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata. L'Avvocatura ricorda che, nella sentenza n. 81 del 1991, questa Corte ha espressamente affermato che il controllo sul dissenso del pubblico ministero al giudizio abbreviato "non puo' trovar posto all'interno dell'udienza preliminare e, quindi, non puo' venir affidato al giudice preposto ad essa, perche' cio' significherebbe adottare un rito speciale contro le determinazioni del pubblico ministero"; ed ha, inoltre, precisato i limiti entro i quali deve esercitarsi il controllo suddetto, individuandone la funzione "nel dare al giudice del dibattimento la possibilita' di far luogo alla riduzione della pena allorquando il dissenso del pubblico ministero gli risulti ingiustificato" e indicando il parametro per il suo concreto esercizio nella valutazione della "effettiva utilita' del passaggio al dibattimento" secondo il criterio della decidibilita' allo stato degli atti. La tesi del giudice rimettente e', secondo l'Avvocatura, in contrasto con tali enunciazioni, perche' comporterebbe l'attribuzione ad un giudice non investito di plena iurisdictio del sindacato sulle scelte investigative del pubblico ministero ai fini della decisione di merito anziche' del rinvio a giudizio e si risolverebbe percio' in un'ingiustificata ingerenza nella sfera di autonomia dell'organo dell'accusa inerente la scelta del rito e della strategia processuale. Considerato in diritto 1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino dubita, in riferimento agli artt. 3 e 25 Cost., della legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439 e 440 cod. proc. pen. Tali disposizioni sono impugnate nella parte in cui non prevedono che - qualora il dissenso del pubblico ministero all'introduzione del giudizio abbreviato chiesto dall'imputato sia motivato con l'impossibilita' che il processo sia definito allo stato degli atti - il giudice dell'udienza preliminare, che ritenga l'impossibilita' addotta dipendente da fatto rimediabile dello stesso pubblico ministero, possa indicare alle parti i temi lasciati incompleti, sui quali si rende necessario acquisire ulteriori informazioni ai fini della decisione in ordine alla possibilita' di definire il processo allo stato degli atti; e cio', sulla falsariga del meccanismo di integrazione probatoria previsto dall'art. 422 cod. proc. pen. Il pubblico ministero - osserva il giudice a quo - non e' istituzionalmente tenuto a compiere indagini sufficienti al suddetto fine (cfr. art. 326 cod. proc. pen.), ed il compierle o meno puo' dipendere da una sua scelta volontaria e ricollegarsi alla strategia processuale da lui perseguita. Questa, d'altra parte, non e' sindacabile dai giudici del dibattimento o dell'udienza preliminare; ne' questi puo' porre rimedio all'insufficienza disponendo l'integrazione probatoria di cui all'art. 422 cod. proc. pen., dato che essa e' rigorosamente limitata a quanto sia manifestamente decisivo ai fini del rinvio a giudizio o del proscioglimento. Percio', sotto il profilo della riduzione di pena che consegue all'esperimento del giudizio abbreviato (art. 442 cod. proc. pen.), ne deriverebbe una violazione, sia del principio d'uguaglianza, per la disparita' di trattamento di situazioni identiche dipendente dalle scelte del pubblico ministero e per la correlativa lesione del principio di parita' tra accusa e difesa; sia del principio di legalita' della pena (art. 25 Cost.), perche' da tali scelte dipenderebbe la possibilita' per il giudice di concedere la predetta riduzione di pena. 2. - L'Avvocatura dello Stato sostiene che la prospettiva indicata dal giudice a quo non dovrebbe trovare accoglimento perche' - comportando un'ingerenza del giudice dell'udienza preliminare nelle determinazioni del pubblico ministero concernenti la scelta del rito e la strategia processuale - si porrebbe in contrasto con le enunciazioni della sentenza di questa Corte n. 81 del 1991; in particolare, con quella secondo cui il controllo sul dissenso del pubblico ministero non puo' essere affidato a tale giudice "perche' cio' significherebbe adottare un rito speciale contro le determinazioni del pubblico ministero" e va, invece, effettuato dal giudice del dibattimento - secondo il criterio della decidibilita' allo stato degli atti - in quanto e' funzionale solo a consentire la riduzione di pena ove il dissenso risulti ingiustificato. Tali rilievi non persuadono, perche' sono insufficienti a dare soluzione al quesito centrale posto dall'ordinanza di rimessione. Nella citata sentenza n. 81 del 1991, cosi' come nelle altre precedenti sentenze sull'argomento (nn. 66 e 183 del 1990), occorre, invero, distinguere la ragione fondante della dichiarata incostituzionalita' delle norme sull'introduzione del giudizio abbreviato, da quelle statuizioni additive che - essendo fondate su valutazioni condotte alla stregua del principio di uguaglianza - non potevano che ispirarsi a criteri di armonizzazione con la disciplina assunta a parametro ed essere, quindi, inevitabilmente condizionate dai dati emergenti dal sistema positivo. Donde il valore relativo di tali statuizioni, che non possono definirsi vincolanti in un contesto normativo diverso ne', tanto meno, precludere il raffronto coi principi costituzionali di disposizioni cui esse risultino inapplicabili. Il nucleo essenziale di tali decisioni sta nel riconoscimento dell'incompatibilita' con un ordinamento costituzionale fondato sui principi di uguaglianza e di legalita' della pena, di una disciplina che affida(va) a scelte discrezionali - immotivate e, quindi, insindacabili - del pubblico ministero l'accesso dell'imputato ad un rito dal quale scaturiscono automaticamente rilevanti effetti sulla determinazione della pena. Piu' di recente, poi, l'interesse dell'imputato ed, insieme, dell'ordinamento a che le determinazioni incidenti sulla misura della pena siano soggette a controllo giurisdizionale e' stato riconosciuto - a garanzia anche del diritto di difesa - pure rispetto a quelle adottate dallo stesso giudice dell'udienza preliminare in punto di decidibilita' "allo stato degli atti" (sentenza n. 23 del 1992). Analogamente, la necessita' che non sia rimessa a scelte delle parti, ma riservata al giudice la decisione sulla congruita' della pena e' stata sancita - ai fini del rispetto dell'art. 27, secondo comma, Cost. - anche nei confronti del consimile rito dell'applicazione di pena su richiesta (sentenza n. 313 del 1990). Dall'incostituzionalita' di una disciplina fondata su determinazioni insindacabili del pubblico ministero e' scaturita la necessita' di introdurre su di esse un controllo giurisdizionale e, conseguentemente, di individuare i criteri oggettivi su cui esse potevano fondarsi e la sede del controllo: cio' che e' avvenuto non in diretta applicazione degli specifici principi costituzionali attinenti alla materia considerata, ma secondo criteri di adeguamento desunti dall'interpretazione del sistema positivo. Cosi' e' a dire, innanzitutto, per il criterio (decidibilita' allo stato degli atti) cui si e' ancorato il dissenso del pubblico ministero: che e' stato individuato - "al momento", e senza escludere che da parte del legislatore "siano enucleabili criteri ulteriori" - attraverso il "confronto con i poteri conferiti al giudice dall'art. 440, primo comma" (sentenza n. 81 del 1991, par. 6). Altrettanto vale per l'individuazione nel giudice del dibattimento del soggetto abilitato a controllare il dissenso. Nella sentenza n. 66 del 1990 (par. 8), cio' e' avvenuto per uniformare la disciplina transitoria del rito abbreviato a quella dell'analogo rito - dedotto a termine di raffronto - dell'applicazione di pena su richiesta, ove detto potere e' appunto attribuito al giudice dibattimentale (art. 448, primo comma). Nella sentenza n. 81 del 1991, poi, l'identica soluzione e' stata fondata sulla considerazione che, affidando tale potere al giudice dell'udienza preliminare, si sarebbe pervenuti ad "adottare un rito speciale contro le determinazioni del pubblico ministero", mentre e' "in armonia con le normali prerogative del pubblico ministero" disegnate dal nuovo codice che la "scelta del rito processuale" sia a lui riservata (parr. 5 e 6). Anche in tal caso, quindi, si e' operata non una ricognizione astratta dei poteri costituzionalmente riservati al pubblico ministero, ma una doverosa armonizzazione ai principi del concreto sistema processuale vigente. 3. - Tanto premesso, si deve osservare che, rispetto ai quesiti risolti con le precedenti decisioni in materia, quello su cui va qui condotta l'indagine presenta un decisivo carattere differenziale: di non potere, cioe', trovare risposta attraverso le soluzioni adeguatrici in esse precisate. Resta evidentemente fermo, e va anzi ribadito, che l'introduzione, o meno, di un rito avente automatici effetti sulla determinazione della pena non puo' farsi dipendere da scelte discrezionali del pubblico ministero. Tali sono, indubbiamente, quelle con le quali costui decide quali, e quante, indagini esperire per porle a base della richiesta di rinvio a giudizio e, piu' in generale, quelle connesse alla sua strategia processuale: la quale puo' fargli preferire - in quanto li ritenga non necessari a tal fine - di rinviare al dibattimento l'esperimento di certi mezzi o l'acquisizione di determinate prove. Rispetto al giudizio abbreviato, cio' comporta l'inaccettabile paradosso per cui il pubblico ministero puo' legittimamente precluderne l'instaurazione allegando lacune probatorie da lui stesso discrezionalmente determinate. Sicche', una volta affermato che un mero atto di volonta' del pubblico ministero non puo' condizionare l'interesse dell'ordinamento alla semplificazione del rito e quello dell'imputato alla riduzione della pena, deve trarsi il corollario che tale condizionamento non puo' farsi derivare neanche da un atto di volonta' (implicita) concretatisi nello svolgimento di indagini insufficienti alla decidibilita' con giudizio abbreviato. Rispetto alle suddette scelte del pubblico ministero, d'altra parte, un sindacato giurisdizionale del tipo di quello introdotto con le precedenti decisioni non e' concretamente possibile. Innanzitutto, la natura eminentemente soggettiva e discrezionale di tali scelte comporta che analoghe caratteristiche finirebbe fatalmente per avere il sindacato del giudice. Inoltre, questo sarebbe privo di fondamento normativo nel sistema vigente, dato che le indagini preliminari sono finalizzate, non ad un accertamento pieno, ma all'acquisizione di quanto e' necessario all'esercizio dell'azione penale (art. 326) e che la loro (relativa) "completezza" (cfr. sentenza n. 88 del 1991) va misurata su quest'ultimo metro e non sul primo. Per altro verso, l'insufficienza dell'investigazione del pubblico ministero rispetto al fine in discorso non e' colmabile attraverso il potere di integrazione attribuito al giudice dell'udienza preliminare dall'art. 422 cod. proc. pen., dato che il suo esercizio - pur se puo' indirettamente contribuire all'acquisizione di un quadro probatorio sufficiente alla decisione "allo stato degli atti" - e' rigorosamente delimitato dal ben diverso ed esclusivo scopo della raccolta, con un numero circoscritto di mezzi, di quelle sole prove che siano "manifestamente decisive" ai fini del rinvio a giudizio o del proscioglimento e che percio' possono non coincidere con quelle necessarie per una decisione allo stato degli atti. 4. - Escluso, quindi, che si possano ricavare dall'ordinamento vigente correttivi idonei a sanare la situazione qui evidenziata, e' percio' necessario, al fine di ricondurre l'istituto a piena sintonia con i principi costituzionali, che il vincolo derivante dalle scelte del pubblico ministero sia reso superabile con l'introduzione di un meccanismo di integrazione probatoria. Al riguardo, e' innanzitutto da osservare che, nel quadro della generale finalita' di semplificare il processo ed evitare dibattimenti non necessari, un'integrazione probatoria e' gia' prevista, dall'art. 422, al piu' limitato fine di consentire la decisione circa il rinvio a giudizio o il proscioglimento; sicche' non appare coerente che essa sia esclusa quando le medesime finalita' sono perseguite introducendo un procedimento che si conclude con una decisione di merito. In secondo luogo, si deve rilevare che la configurazione del giudizio abbreviato come giudizio "a prova contratta", - basato, cioe', su uno scambio in cui la riduzione di pena non ha come contropartita il solo interesse dell'ordinamento alla semplificazione attraverso la rinuncia dell'imputato al dibattimento ed il riconoscimento del valore di prova agli elementi acquisiti dal pubblico ministero, ma richiede, in piu', la rinuncia al diritto ad eventuali allegazioni difensive - non e' affatto un connotato ineliminabile di tale giudizio. Si deve, infatti, sottolineare che un modello di giudizio abbreviato che consente un'integrazione probatoria e' positivamente previsto, nello stesso codice, per il caso di trasformazione del giudizio direttissimo in giudizio abbreviato (art. 452, secondo comma): integrazione che per di piu', in tale ipotesi non soggiace - almeno secondo l'interpretazione prevalente - a particolari limitazioni, dato che tale disposizione richiama l'art. 422 solo quanto alle forme, e non anche ai limiti concernenti la tipologia degli atti esperibili. Puo' aggiungersi che, secondo autorevole dottrina, la prospettiva dell'integrazione probatoria consentirebbe, sia di salvaguardare quel nesso di inscindibilita' tra riduzione della pena ed effettiva celebrazione del giudizio abbreviato, che questa Corte ha riconosciuto essere nota caratterizzante il nuovo istituto (sentenze nn. 277 del 1990 e 176 del 1991); sia di superare le problematiche che la configurazione data dal legislatore al consenso del pubblico ministero ha evidenziato sul piano costituzionale. 5. - Dalle considerazioni sinora svolte emerge chiaramente, pero', che la problematica sottesa alla questione in esame non puo' risolversi con una pronunzia additiva di questa Corte, ma richiede un intervento legislativo. Innanzi tutto la soluzione indicata dal giudice a quo, di consentire cioe' - in caso di insufficienza dovuta a fatto rimediabile del pubblico ministero - un'integrazione probatoria nell'ambito dell'udienza preliminare, richiede l'effettuazione di una pluralita' di scelte sulle modalita' di prospettazione delle prove, sui poteri da conferire al giudice, sull'eventuale delimitazione dei mezzi di prova esperibili; e per di piu', se contenuta - come il medesimo giudice prospetta - nei limiti fissati dall'art. 422, richiederebbe una regolamentazione del regime di utilizzazione degli atti compiuti in caso di mancato esperimento del giudizio abbreviato. Si tratta, quindi, anche indipendentemente da una piu' ampia revisione dell'istituto, che collochi tale integrazione all'interno del giudizio abbreviato, di scelte che rientrano nella discrezionalita' del legislatore, la cui urgenza e' resa evidente dall'esigenza di ricondurre la normativa impugnata a piena coerenza con i principi costituzionali.
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara l'inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale del combinato disposto degli artt. 438, 439 e 440 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torino con ordinanza del 15 aprile 1991. Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 1992. Il Presidente: CORASANITI Il redattore: SPAGNOLI Il cancelliere: FRUSCELLA Depositata in cancelleria il 9 marzo 1992. Il cancelliere: FRUSCELLA 92C0290