N. 170 ORDINANZA (Atto di promovimento) 4 febbraio 1992
N. 170 Ordinanza emessa il 4 febbraio 1992 dal giudice per le indagini preliminari presso la pretura di Genova nel procedimento penale a carico del legale rappresentante della "Fincantieri" S.p.a. Processo penale - Indagini preliminari - Termine scaduto - Richiesta di proroga da parte del p.m. - Impossibilita' per il giudice di deliberare la richiesta - Inutilizzabilita' dei risultati delle indagini eventualmente compiute dopo tale termine - Impossibilita' di chiedere, per lo stato delle indagini, sia l'archiviazione che il rinvio a giudizio - Lamentata violazione del principio di obbligatorieta' dell'azione penale - Lesione del diritto dei cittadini di vedersi tutelati in giudizio (in particolare, la parte offesa) - Irragionevole disparita' di trattamento - Disciplina discriminatoria in caso di indagini particolarmente complesse. (C.P.P. 1988, art. 407, in relazione all'art. 553 stesso codice). (Cost., artt. 3, 24 e 112).(GU n.16 del 15-4-1992 )
IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Sulla richiesta di proroga dei termini per il compimento delle indagini preliminari avanzata dal p.m. nell'ambito del procedimento a carico del legale rappresentante della Fincantieri per il reato di cui all'art. 589 del c.p. in danno di Bruzzo Bernardo richiesta volta a "svolgere accertamenti al fine di verificare quale sia il livello di esposizione a polveri di amianto tra i dipendenti della Fincantieri, quali siano le misure di prevenzione tecnica, personale, sanitaria e informativa adottate dall'azienda; se tali misure possano considerarsi idonee ed adeguate, o se al contrario sia configurabile a carico dei legali rappresentanti della ditta succedutisi nel tempo una responsabilita' colposa nella causazione della morte del Bruzzo e delle lesioni subite dagli altri dipendenti"; Rilevato che la relativa notizia di reato fu iscritta nel registro di cui all'art. 335 del c.p.p. il 6 febbraio 1990 e che, pertanto, tenuto conto della sospensione dei termini processuali di cui all'art. 240- bis del d.-l. n. 271/1989 (sospensione verificatasi dal 1 agosto al 15 settembre 1990 e dal 1 agosto al 15 settembre 1991) il termine per le indagini preliminari e' scaduto improrogabilmente il 5 novembre 1991 (in base al d.-l. 22 giugno 1990 il termine era stato definitivamente portato a diciotto mesi); Rilevato che il p.m. unitamente alla richiesta di proroga ipotizza l'illegittimita' costituzionale degli artt. 407 e 553 del c.p.p. con riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione; O S S E R V A In punto rilevanza. Tempestivamente il p.m. aveva iniziato le indagini che si erano articolate nell'acquisire presso l'I.N.A.I.L. la documentazione medica ed i provvedimenti amministrativi concernenti l'asbestosi, la malattia professionale che il Bruzzo aveva contratto nel corso della propria attivita' lavorativa svolta a bordo di navi per conto della Fincantieri; quindi nel fare accertamenti presso i parenti del lavoratore e presso la ditta datrice di lavoro al fine di individuare l'epoca di insorgenza della malattia, le aziende per cui il Bruzzo (deceduto per mesotelioma) aveva lavorato, i relativi periodi di occupazione e le diverse mansioni svolte; nel disporre una rilevazione statistica dalla quale e' emerso che negli ultimi anni presso la Fincantieri sono stati riscontrati cinquanta casi di asbestosi e/o mesotelioma riconosciuti dall'I.N.A.I.L. quali malattie professionali derivanti dall'esposizione a polveri di amianto. Correttamente il p.m. a seguito di queste risultanze intenderebbe svolgere ulteriori accertamenti al fine di verificare: "quale sia il livello di esposizione a polveri di amianto tra i dipendenti della Fincantieri, quali siano le misure di prevenzione tecnica, personale, sanitaria e informativa adottate dall'azienda; se tali misure possano considerarsi idonee e adeguate, o se al contrario sia configurabile a carico dei legali rappresentanti della ditta succedutisi nel tempo una responsabilita' colposa nella causazione della morte del Bruzzo e delle lesioni subite dagli altri lavoratori dipendenti". Tali accertamenti, peraltro, per la loro necessaria durata sono al p.m. preclusi dal termine posto per il compimento delle indagini preliminari. In punto non manifesta infondatezza si possono richiamare tutte le argomentazioni svolte dal p.m. e pienamente condivise da questo g.i.p. La menomazione che l'art. 407, primo e terzo comma, infligge al potere di indagine e' in questo caso veramente drastica. Com'e' evidente, allo stato degli atti non e' possibile ne' formulare l'imputazione, ne' concludere per l'insussistenza di qualsiasi ipotesi di reato. Per giungere ad una di tali conclusioni infatti sarebbe necessario svolgere le attivita' di indagine di cui si e' detto; ma tali attivita' non possono utilmente essere eseguite giacche' la legge (art. 407, terzo comma) sancisce la radicale inutilizzabilita' di tutti gli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine. La scadenza del termine di durata massima delle indagini produce dunque in questo caso un effetto paralizzante dell'esercizio dell'azione penale, effetto cui non sarebbe possibile porre rimedio ne' chiedendo ulteriori proroghe (giacche' la legge (art. 407, primo comma) non ne consente), e neppure attraverso l'eventuale avocazione del procedimento da parte della procura generale ai sensi dell'art. 412 del c.p.p. (avocazione che, si badi, a norma dell'art. 528 del d.lgs. n. 271/1989 e' in questo caso meramente facoltativa). Il procuratore generale infatti avrebbe a sua disposizione solo trenta giorni per svolgere le indagini indispensabili e formulare le sue richieste: un termine sicuramente sufficiente a compiere rilievi ambientali di cui si e' parlato. L'avocazione produrrebbe il solo risultato di procrastinare il problema per altri trenta giorni, ma sarebbe evidentemente inidonea a trar fuori il procedimento dalle secche in cui lo pone il combinato disposto degli artt. 407 e 553 del c.p.p. Non sembra poi sostituire un valido rimedio allo sbarramento normativo posto dall'art. 407, terzo comma, neppure l'art. 414 del c.p.p. che prevede la riapertura delle indagini su richiesta del p.m. motivata dall'esigenza di nuove investigazioni. La norma infatti presuppone che l'esigenza di investigazioni ulteriori emerga dopo l'archiviazione del procedimento e non che essa esista gia' al momento della richiesta. In caso contrario il combinato disposto degli artt. 414 e 407, terzo comma, si segnalerebbe come un bell'esempio di schizofrenia legislativa, giacche', dopo aver sancito l'inutilizzabilita' delle indagini oltre il termine, si consentirebbe al p.m. di ottenere la riapertura del procedimento e far nuovamente decorrere il termine per compiere proprio quelle indagini che egli gia' voleva compiere, che l'art. 407 rendeva inutilizzabili la cui inutilizzabilita' l'aveva indotto a richiedere l'archiviazione. Un'interpretazione siffatta si tradurrebbe in buona sostanza in un'abrogazione implicita dell'art. 407, terzo comma, del c.p.p., in una facile scappatoia per raddoppiare i termini di indagine. Ma cio' contrasterebbe con la volonta' del legislatore che, nel dettare l'art. 414, aveva in mente un'ipotesi assai diversa: quella in cui, esaurita nei termini tutta l'attivita' d'indagine, il procedimento fosse stato archiviato ai sensi dell'art. 408 del c.p.p., ma successivamente fosse emersa l'esigenza di investigazioni nuove di cui nel corso delle indagini precedenti mancavano i presupposti o non era emersa la necessita'. Il sistema normativo che si e' delineato preclude dunque a questo p.m. il compimento di indagini che pure appaiono necessarie, che anzi sono indispensabili per pervenire ad una decisione in ordine alla necessita' o meno di esercitare l'azione penale. Rendendo inutilizzabili indagini necessarie e doverose il legislatore pone il p.m. di fronte ad una drastica alternativa: o esercitare l'azione penale o richiedere l'archiviazione. E la scelta dovra' cadere sull'archiviazione ogniqualvolta, come nel caso che ci occupa, le indagini da compiere sarebbero necessarie per poter sostenere l'accusa in giudizio o, prima ancora, per formulare un'imputazione. Prima di essere costretto a chiedere un decreto di archiviazione ai sensi dell'art. 125 delle disp. att. del c.p.p. perche' gli elementi raccolti nel corso delle indagini non sono sufficienti a sostenere l'accusa in giudizio e le indagini stesse non possono essere utilmente proseguite, questo p.m. ritiene allora di dover eccepire l'incostituzionalita' degli artt. 407 e 553 del c.p.p. con riferimento agli artt. 3 e 24 e soprattutto all'art. 112 della Costituzione. Sulla rilevanza della questione nel presente procedimento non pare il caso di spendere ancora troppe parole. Il suo accoglimento rimuoverebbe ogni ostacolo normativo alla prosecuzione delle indagini da parte di questo p.m., che peraltro non puo' rimettere direttamente la questione alla Corte costituzionale, ma deve farne richiesta all'organo giurisdizionale a norma dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87. Vale pero' la pena di osservare che nel caso di specie la procedura prevista dall'art. 554, secondo comma, del c.p.p. (come modificato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 445/1990) non puo' essere attivata; in primo luogo perche' questo p.m. non intende allo stato chiedere l'archiviazione del procedimento, e cio' impedisce che sorga in capo al g.i.p. il potere di imporgli ulteriori indagini; in secondo luogo, perche' si tratterebbe di un uso improprio di una norma che ha come scopo quello di reagire all'inerzia del p.m. e non certo quello di proteggere l'ordinamento da se stesso imponendo ad un p.m. che inerte non sia di compiere atti che egli avrebbe voluto compiere, ma non avrebbe potuto utilizzare se li avesse compiuto di propria iniziativa. E' invece doveroso specificare sotto quei profili la normativa impugnata si pone in contrasto con le citate norme costituzionali. In proposito si osserva che gli artt. 407 e 553 del c.p.p. pongono di fatto un limite temporale all'esercizio dell'azione penale pur in presenza di un reato non estinto per prescrizione, in relazione al quale la pretesa punitiva dello Stato e' viva e vitale e sussiste l'obbligo di cui all'art. 12 della Costituzione. Il contrasto con l'art. 112 della Costituzione sarebbe palese se si interpretasse l'art. 407 del c.p.p. nel senso che, decorsi i termini di indagine, il decreto di citazione a giudizio non possa piu' essere validamente emesso. Tale interpretazione che da piu' parti e' stata adombrata, troverebbe un qualche riscontro nell'obbligo di avocazione previsto dall'art. 412 del c.p.p. in capo al procuratore generale, e nella ventilata possibilita' di ritenere il decreto di citazione emesso oltre il termine affetto da nullita' assoluta per inosservanza di disposizioni concernenti l'iniziativa del p.m. nell'esercizio dell'azione penale (artt. 178, lett. b), e 179 del c.p.p.). Ma pur non volendo aderire ad una cosi' rigida interpretazione, pare a questo p.m. che l'art. 407, ultimo comma, del c.p.p., vietando di compiere attivita' di indagine, o comunque rendendo inutilizzabili le attivita' eventualmente compiute, si traduca in un ingiusto ed ingiustificato sbarramento alla concreta possibilita' di esercitare l'azione penale. Ed infatti, il principio di cui all'art. 112 della Costituzione non e' realmente salvaguardato se il p.m. non e' messo in condizioni di rendere effettivo l'esercizio dell'azione penale compiendo quegli atti che, debitamente utilizzati in giudizio, forniranno al giudice gli elementi necessari per la decisione. Cio' e' tanto piu' evidente se si pensa che il termine previsto dalla legge e' inizialmente di sei mesi, che puo' essere prorogato fino a diciotto mesi e, solo nei casi piu' gravi, fino a due anni, e che nel nostro ordinamento nessun reato si prescrive in diciotto mesi mentre per gravi delitti cui fa riferimento l'art. 407, secondo comma, lett. a), (e nei quali le indagini possono protrarsi per due anni) il termine di prescrizione e' lunghissimo o non esiste affatto. L'art. 407 del c.p.p. introduce dunque nel nostro ordinamento una figura paradossale, incompatibile con un sistema costituzionale che sancisce l'obbligarieta' dell'azione penale e il diritto dei cittadini a vedersi tutelati in giudizio. Vi introduce un mostro giuridico: un reato non prescritto ne' improcedibile in relazione al quale l'azione penale che pure e' obbligatoria non puo' essere esercitata perche' la legge preclude al p.m. di svolgere utilmente le indagini necessarie per decidere se esercitarla e per poi validamente sostenere l'accusa in giudizio. La disciplina cosi' delineata si traduce in un diniego di giustizia, incompatibile con l'art. 24 della Costituzione, specialmente nei confronti della persona offesa dal reato, giacche', decorso il termine, l'organo che dovrebbe indagare su quel reato sara' gravemente menomato nell'esercizio del suo potere dovere; ma perfino nei confronti dell'indagato, giacche' al p.m. sara' precluso di compiere utilmente accertamenti in suo favore ai sensi dell'art. 358 del c.p.p. E non basta. La disciplina impugnata si pone in contrasto con l'art. 3 della Costituzione creando un'irragionevole disparita' di trattamento tra persone che vengano coinvolte in un procedimento penale. La probabilita' che le indagini siano utilmente concluse e che l'azione penale sia esercitata con ragionevoli possibilita' di successo, infatti, sara' tanto maggiore quanto piu' semplice sara' l'accertamento dei fatti, mentre si ridurra' via via con l'accrescersi della complessita' delle indagini. L'irragionevolezza di tale normativa e' tanto piu' evidente se si considera che nel medesimo termine di diciotto mesi il p.m. deve portare a compimento le indagini per reati assai diversi: dagli assegni a vuoto all'inquinamento ambientale, dalla guida senza patente agli infortuni sul lavoro, al traffico di stupefacenti, all'omicidio (reati in relazione ai quali, non a caso il diritto sostanziale prevede un diverso termine di prescrizione). Fissando un termine indifferenziato per il compimento di indagini preliminari che sono tra loro assai diverse, e che necessariamente devono avere una diversa natura, il legislatore ha creato una disciplina irrazionale e discriminatoria che mortifica la domanda di giustizia del cittadino proprio quando l'indagine e' piu' complessa e richiede un lungo e paziente lavoro investigativo; cioe' proprio quando il reato non piu' grave, l'accertamento del fatto piu' difficile, e piu' vive sono le attese della collettivita'.
P. Q. M. Dichiara rilevante e non manifestamente infondato in dubbio di legittimita' costituzionale dell'art. 407, come richiamato dall'art. 553 del c.p.p., in relazione agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione; Dispone la sospensione del procedimento e l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri, al p.m. e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Genova, addi' 4 febbraio 1992 Il giudice per le indagini preliminari: LATELLA 92C0402