N. 177 ORDINANZA (Atto di promovimento) 4 - 18 novembre 1991
N. 177 Ordinanza emessa il 4 e 18 novembre 1991 dal tribunale amministrativo regionale del Lazio sul ricorso proposto da Maletti Adelio (recte Gianadelio) contro il Ministero della difesa Forze armate - Stato giuridico degli ufficiali dell'Esercito - Ufficiali condannati per delitti non colposi con sentenza passata in giudicato - Previsione dell'automatica rimozione e perdita del grado - Prospettata disparita' di trattamento rispetto ai pubblici dipendenti per i quali, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 971/1988 e della legge n. 19/1990, non e' piu vigente il corrispondente istituto dell'automatica destituzione di diritto a seguito di condanna penale. (Legge 10 aprile 1954, n. 113, art. 70, n. 5). (Cost., art. 3).(GU n.16 del 15-4-1992 )
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso n. 852/1989 proposto dal generale Adelio Maletti, rappresentato e difeso dagli avv. Alberto Criscuolo e Giuseppe Salemi, ed elettivamente domiciliato nel loro studio in Roma, via del Circo Massimo n. 7, per procura speciale alle liti per atto consolato generale di Italia a Johannesburg del 7 febbraio 1989 a firma del console generale Paolo V. Massa nonche' dall'avv. Paolo Ciuffa per procura speciale per successivo atto del consolato generale d'Italia a Johannesburg, contro il Ministero della difesa, in persona del Ministro pro- tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, per l'annullamento del provvedimento-comunicazione - e di tutti gli atti e provvedimenti connessi e/o presupposti - notificato al ricorrente dal console generale d'Italia in Johannesburg, emesso dal Ministero della difesa, direzione generale per gli ufficiali dell'Esercito, prot. n. 334/2491/27166; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della difesa; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Udito, alla pubblica udienza del 4 novembre 1991, il relatore, pres. Raffaele Juso, ed uditi altresi' Ciuffa e Salemi per il ricorrente, e l'avv. dello Stato Fiumara per l'amministrazione resistente; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue; F A T T O Con atto notificato il 24 marzo 1989 e depositato il 30 marzo 1989 il generale di divisione Adelio Maletti ha proposto ricorso nei confronti della comunicazione notificata il 26 gennaio 1989 dal consolato d'Italia in Johannesburg, con la quale gli e' stato partecipato che la cessazione dal servizio permanente a decorrere dal 1 ottobre 1981, disposta con decreto del Presidente della Repubblica 25 giugno 1981, "deve considerarsi avvenuta, con la medesima decorrenza e ad ogni effetto, per la perdita del grado ai sensi degli articoli 70, n. 5, lettera a), e 71 della legge 10 aprile 1954, n. 113, in relazione all'art. 33, n. 2, del codice penale militare di pace, in applicazione dell'art. 34, secondo comma, della legge 10 aprile 1954, n. 113 (decreto presidenziale 13 ottobre 1987, in corso di registrazione alla Corte dei conti). Premesso di non avere mai ricevuto comunicazioni ulteriori, nei precedenti provvedimenti e/o avvisi giustificativi di tale atto, l'interessato deduce: I) violazione di legge. Eccesso di potere per illogicita': a) nessuna motivazione, riferimento o accenno risulta fatto alle determinazioni che avrebbero indotto l'amministrazione ad assumere un provvedimento estremamente grave; per cui dalla lettura delle norme richiamate nella impugnata comunicazione si arguisce che alla base del provvedimento adottato nei confronti del ricorrente sarebbe una condanna per delitti previsti dalla legge penale comune e piu' precisamente descritti al n. 2 dell'art. 33 del codice penale militare di pace. Sta pero' di fatto che il Maletti non ha mai riportato condanne per i delitti di cui al n. 2 dell'art. 33 citato; onde viene a cadere ogni presupposto del provvedimento, essendo evidente che le norme citate non sono suscettibili di interpretazione; e cio' anche in considerazione della loro natura; b) ancora piu' incomprensibile appare la data di decorrenza del provvedimento, poiche' doveva essere applicato l'art. 34 del c.p.m.p. e non l'art. 34 della legge n. 113/1954; II) violazione di legge (segue). Eccesso di potere. Ne' a diversa considerazione puo' portare l'ipotesi della eventuale esistenza di un giudizio disciplinare a carico del ricorrente. Ma in tale caso l'interessato andava informato circa la esistenza di un giudizio disciplinare nei suoi confronti; e tale inchiesta formale avrebbe dovuto avere durata massima di novanta giorni, prorogabile soltanto una volta per novanta giorni dal Ministero della difesa. Il generale Maletti e' in quiescenza dal 1981; e' pertanto da escludersi l'applicabilita', al caso di specie, di un giudizio disciplinare. D'altro canto un provvedimento basato su un giudizio disciplinare apertosi prima del 1981 sarebbe viziato poiche' emesso fuori dei termini perentori dianzi accennati, e comunque in violazione del principio di legalita' e del contraddittorio. Si e' costituito in giudizio il Ministero della difesa che con memoria depositata il 24 ottobre 1991, ha eccepito infondatezza del ricorso nel merito, controdeducendo diffusamente alle censure cosi' come formulate. Anche il ricorrente ha depositato, in data 24 ottobre 1991 memoria difensiva, per ribadire le cesure cosi' come formulate e per insistere nelle gia' assegnate conclusioni. All'udienza del 4 novembre 1991, uditi i difensori delle parti, la causa e' passata in decisione, poi assunta nella camera di consiglio del 18 novembre 1991. D I R I T T O 1. - Il ricorso ha per oggetto la determinazione con la quale l'amministrazione della difesa ha comunicato al ricorrente, gia' generale di divisione in s.p.e., e cessato dal servizio per raggiunti limiti di eta', che la data di cessazione - disposta a partire dal 1 ottobre 1988 - era avvenuta per perdita del grado a seguito di condanna penale. 2. - Di tale atto il generale Maletti denunzia la illegittimita' e ne chiede l'annullamento, affidando le sue doglianze ad un duplice ordine di motivi: a) non avendo egli riportato alcuna condanna per i delitti previsti dall'art. 33, n. 2, del codice penale militare di pace (norma sulla quale il provvedimento de quo si basa), cadrebbe ogni presupposto giustificativo della rimozione dal grado, e comunque illegittima sarebbe la decorrenza, cosi' come disposta, dovendo viceversa essere applicato l'art. 34 del c.p.m.p.; b) laddove poi la rimozione dal grado fosse stata disposta a seguito di giudizio disciplinare, l'intera procedura sarebbe illegittima, sia perche' egli di cio' non e' stato mai informato; sia perche' la inchiesta formale avrebbe dovuto avere la durata massima di novanta giorni, termine prorogabile soltanto una volta per ulteriori novanta giorni dal Ministero della difesa. 3. - Le censure sub a) son infondate, alla luce della realta' documentale. Ed invero, e come risulta per tabulas, il ricorrente e' stato condannato - per falsita' ideologica commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici (art. 479 del c.p.) - dalla corte d'assise d'appello di Bari, con sentenza del 1 agosto 1985, confermata dalla decisione resa il 27 gennaio 1987 dalla Corte di cassazione che, pronunciandosi sul ricorso proposto dall'interessato, ha rigettato il gravame da lui proposto. Esistevano allora tutti i presupposti per applicare, nei confronti del Maletti, le disposizioni contenute nell'art. 33, n. 2, del c.p.m.p. che espressamente sancisce come "la condanna pronunciata contro militare .. per alcuno dei delitti preveduti dalla legge penale comune, oltre alle pene accessorie importa .. la rimozione se .. trattasi di delitto non colposo contro la personalita' dello Stato, o di taluno dei delitti preveduti dagli articoli 476 a 493 del codice penale ..". 4. - In questo contesto, appare altresi' infondata ulteriore doglianza. Essendo il ricorrente stato condannato per un reato che comportava, a norma dell'art. 33 citato, la rimozione; la norma applicabile non era l'art. 34 del c.p.m.p., che stabilisce come pena della rimozione decorre "dal giorno in cui la sentenza e' divenuta irrevocabile"; ma l'art. 70, lettera a), secondo il quale il grado si perde per ocndanna nei casi in cui, ai sensi della legge penale militare, cio' comporta la pena accessoria della rimozione; in uno all'art. 34 della legge n. 113/1954, che espressamente sancisce come "l'ufficiale, nei cui riguardi si verifichi una delle cause previste dal precedente art. 33 (cessazione dal servizio per eta', infermita', non idoneita' agli uffici del grado, domanda, d'autorita', inosservanza delle disposizioni sul matrimonio, applicazione delle leggi sull'avanzamento, perdita del grado) cessa dal servizio permanente anche se si trovi sottoposto a procedimento penale ..", peraltro precisando che "qualora detto procedimento si concluda con una sentenza .. che importi la perdita del grado, la cessazione dell'ufficiale dal servizio si considera avvenuta, ad ogni effetto, per tale causa e con la medesima decorrenza con la quale era stata disposta". Ora non e' dubbio che la perdita del grado e' cosa ben diversa dalla rimozione: la prima infatti ha natura squisitamente sanzionatoria, e si riferisce al fatto compiuto dall'interessato; la seconda e' vera e propria pena militare accessoria, conseguente alla condanna per i reati di cui si e' detto. Il Maletti e' stato condannato - e con sentenza passata in giudicato - per il reato previsto dall'art. 479 del c.p., che, appunto, comportava la rimozione dal grado; e l'amministrazione, applicando l'art. 33 della legge n. 113/1954, ha disposto la cessazione dal servizio (art. 71 della legge n. 113/1954 cit.). Va pero' precisato che l'interessato era stato collocato in ausiliaria fin dal 1 ottobre 1981 per eta'; onde, da tale data la perdita del grado andava computata: e cio' a norma dell'ultimo comma del ridetto art. 71, che prevede come "qualora ricorra l'applicazione del secondo comma dell'art. 34, la perdita del grado .. decorre dalla data in cui l'ufficiale e' cessato dal servizio permanente". 5. - Ne' peraltro - onde infondata si appalesa anche la censura sub b) - il Maletti avrebbe dovuto essere sottoposto a procedimento disciplinare. La cessazione dal servizio e la perdita del grado infatti sono state dirette (o indirette) conseguenze della sentenza penale - ripetesi, passata in giudicato - con la quale il ricorrente e' stato riconosciuto colpevole - e condannato - per falsita' ideologica in atto pubblico da lui commessa in qualita' di pubblico ufficiale: ed infatti, va qui ribadito, tale riconoscimento di colpevolezza comportava ex se e senza bisogno di alcuna inchiesta formale - ed a norma delle citate disposizioni - la perdita del grado, accoppiata alla cessazione dal servizio che, peraltro, era gia' avvenuta in epoca precedente per essere l'interessato stato raggiunto dai limiti di eta'. 6. - Di cio' si e' resa conto la stessa difesa del ricorrente che, sia nella memoria difensiva, sia soprattutto nel corso della discussione orale, ha introdotto nuove argomentazioni, traendole da quanto disposto dalla ben nota sentenza della Corte costituzionale n. 971/1988 che ha dichiarato illegittime, per violazione dell'art. 3 della Costituzione, le norme che prevedono la destituzione di diritto dei dipendenti civili dello Stato senza l'apertura e lo svolgimento di un procedimento disciplinare. Ora, rileva il ricorrente, avendo egli subito un provvedimento analogo alla destituzione, andava, per cio' stesso, iniziato e concluso nei suoi confronti rituale procedimento disciplinare, solo all'esito del quale si sarebbero potute adottare determinazioni sanzionatorie nei suoi confronti. Ove viceversa si ritenesse tuttora applicabile l'art. 70 della legge 10 aprile 1954, n. 113, nella parte in cui tale norma dispone automaticamente la perdita del grado e la rimozione per effetto di condanna per delitto non colposo, quando detta condanna comporti la interdizione temporanea dai pubblici uffici, la norma medesima sarebbe incostituzionale, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione. 7. - Apparendo infondata nel merito tale ultima censura, attesa - e come si e' visto - la indubbia conformita' del provvedimento impugnato alla norma della quale si dubita la costituzionalita', as- sume allora rilevanza la questione di legittimita' costituzionale: questione che, peraltro, non appare manifestamente infondata. La gia' citata sentenza della Corte costituzionale infatti, modificando radicalmente un suo precedente orientamento (cfr. la sentenza n. 270/1986), ha dichiarato la illegittimita' costituzionale di numerose norme legislative che, per altrettante categorie di pubblici dipendenti, disponevano la destituzione ex lege collegata direttamente alla condanna penale riportata per determinate ipotesi di reato. In particolare, la Corte ha dichiarato la illegittimita' costituzionale: dell'art. 85, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica n. 3/1957; dell'art. 47 del regio decreto n. 383/1934; dell'art. 66, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica n. 1229/1959; dell'art. 1, secondo comma, della legge n. 157/1975; dell'art. 57, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica n. 761/1979; dell'art. 8, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica n. 737/1981. Non e' stata invece formalmente dichiarata - in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 - la illegittimita' costituzionale delle norme che il collegio e' chiamato ad applicare nella fattispecie. Ne' peraltro e' possibile ritenere che, per effetto della declaratoria della illegittimita' costituzionale piu' sopra rammentata, si possa considerare l'art. 70 della legge n. 113/1954 ugualmente colpito dalla dichiarata incostituzionalita': e cio' in quanto, anche a voler ammettere, in via di ipotesi, che, per effetto della sentenza n. 971/1988, tutte le disposizioni "speciali" che prevedano casi di destituzione "automatica" abbiano perduto la loro legittimita', non potra' alcun giudice oltre i limiti statuiti dalla Corte, estenderne gli effetti conseguenziali e disapplicare le disposizioni non espressamente considerate da quest'ultima. E pertanto, e' opportuno che la questione di legittimita' costituzionale del ridetto art. 70, n. 5, vada autonomamente riproposta all'esame del giudice delle leggi. Non ignora peraltro il collegio che la Corte stessa, gia' investita della questione, la ha, con ordinanza n. 532 del 17 dicembre 1987, sostanzialmente disattesa; ma ritiene che, a seguito della recente declaratoria di illegittimita' di cui si e' detto piu' sopra, e della sopravvenuta legge 7 febbraio 1990, n. 19, si e' creata una rilevante modificazione del sistema normativo positivo, del quale non puo' non tenersi comunque conto. Ed infatti, per effetto della sentenza n. 971/1988, non e' piu' consentita la irrogazione della misura espulsiva per il solo fatto della condanna penale riportata da alcune categorie di dipendenti pubblici, essendo in ogni caso necessaria una ulteriore, concreta valutazione, da operarsi in sede disciplinare, dei fatti commessi ai fini di una eventuale graduazione della sanzione da comminare. Cio' avviene - ripetesi - per determinate categorie di dipendenti pubblici; ma tale innovazione non involge direttamente l'art. 70 della legge n. 113/1954 ed i soggetti da essa contemplati: e questo per l'assorbente motivo che e' mancata la sua formale estensione, da parte della Corte, ancorche' esista una stretta analogia tra le disposizioni espunte dal mondo del diritto e quella applicata al presente giudizio. Ritiene allora il collegio che, proprio in virtu' del nuovo quadro normativo concernente le sanzioni esplulsive, cosi' come introdotto dalla Corte e ridisegnato dal legislatore ordinario con la citata legge n. 19/1990 - che, si badi bene, all'art. 9 stabilisce testualmente che "il pubblico dipendente non puo' essere destituito di diritto a seguito di condanna penale"; e che "e' abrogata ogni contraria disposizione di legge" - appare del tutto irragionevole la conservazione di una norma che stabilisce casi di sanzioni espulsive automatiche (nella fattispecie, la perdita del grado con conseguente rimozione) laddove per altre categorie di dipendenti pubblici la Corte stessa ha escluso la legittimita' costituzionale di ipotesi di tal genere. In altri termini, la verifica della non manifesta infondatezza della questione puo' ben essere verificata sia alla luce della eliminazione di norme gia' esistenti; sia per effetto dello ius superveniens, costituito dalla introduzione di nuove norme (nella specie, la legge n. 19/1990); per cui detto profilo, che impinge nel principio costituzionale della uguaglianza, appare certamente nuovo; ed appare meritevole di riesame da parte della Corte costituzionale. D'altro canto, non puo' non osservarsi, tale rinnovato orientamento del giudice della legge muove dalla considerazione che l'ordinamento si evolve verso la esclusione di sanzioni rigide, avulse da un rapporto di adeguatezza con il caso concreto; onde l'indispensabile gradualita' sanzionatoria comporta ex se la irragionevolezza della esistenza di sanzioni disciplinari automaticamente collegate alla condanna di taluni fatti. In tale contesto allora appare necessaria una nuova pronuncia della Corte, idonea, se mai, ad espungere dal sistema una norma che, nella materia disciplinare, appare superata dalla intervenuta realta' normativa. 8. - Alla stregua delle considerazioni che precedono, ritiene il collegio non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 70, n. 5, della legge 10 aprile 1954, n. 113, per violazione dell'art. 3 della Costituzione; e, conseguentemente, dispone la sospensione del giudizio ed il rinvio degli atti alla Corte costituzionale.
P. Q. M. Visti gli articoli 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 70, n. 5, della legge 10 aprile 1954, n. 113, in relazione all'art. 3 della Costituzione; Sospende il giudizio in corso; Ordina alla segreteria immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Dispone altresi' che, a cura della segreteria, la presente ordinanza sia notificata a tutte le parti in causa, al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti del Senato e della Camera dei deputati. Cosi' deciso in Roma, nelle camere di consiglio dei giorni 4 e 18 novembre 1991. Il presidente relatore: JUSO Il consigliere: SCOGNAMIGLIO Il consigliere: RULLI 92C0409