N. 181 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 dicembre 1991

                                N. 181
     Ordinanza emessa il 2 dicembre 1991 dal pretore di Parma nei
                      procedimenti civili riuniti
            vertenti tra Morandi Rina ed altre e l'I.N.P.S.
 Previdenza e assistenza sociale - Pensioni I.N.P.S. - Termine di
    decadenza   (10   anni)   per   l'impugnativa   in   giudizio  dei
    provvedimenti dell'I.N.P.S.  -  Prevista  retroattivita'  di  tale
    disposizione  tranne che per i processi gia' in corso alla data di
    entrata in vigore del d.-l. 29 marzo 1991, n. 103 - Ingiustificata
    disparita' di trattamento tra coloro che hanno presentato  domanda
    giudiziale  prima  di  detta  data e coloro che l'hanno presentata
    dopo, attesa la mancanza, prima di detta disposizione  innovativa,
    di  termini  di decadenza o prescrizione - Incidenza sul principio
    dell'assicurazione  di  mezzi  adeguati  alle esigenze di vita del
    lavoratore in caso di vecchiaia  e  sul  principio  dell'efficacia
    retroattiva  delle pronunce di illegittimita' costituzionale della
    Corte costituzionale (in particolare della  sentenza  n.  314/1985
    cui  si  ricollega  il caso di specie, riguardante una domanda per
    "integrazione  al  minimo")  -   Irrazionale   limitazione   della
    retroattivita'  in  conseguenza  di  un  fatto estrinseco quale la
    proposizione del giudizio.
 (D.-L. 29 marzo 1991, n. 103, art. 6, primo e secondo comma,
    convertito in legge 1 giugno 1991, n. 166).
 (Cost., artt. 3, 38 e 136).
(GU n.16 del 15-4-1992 )
                              IL PRETORE
    In funzione  di  giudice  del  lavoro  nelle  cause  previdenziali
 riunite  promosse da Morandi Rina, Pezzali Caterina, Stocchi Tolmina,
 rappresentate  e  difese  tutte  dall'avv.  Luciano  Petronio  contro
 l'Istituto nazionale della previdenza sociale, rappresentato e difeso
 dall'avv.  Domenico  Liveri,  all'udienza  del  2  dicembre  1991  ha
 pronunciato la presente ordinanza.
    Con separati ricorsi depositati il 15 maggio 1991,  Morandi  Rina,
 Pezzali  Caterina e Stocchi Tolmina chiedevano che l'I.N.P.S. venisse
 condannato a riliquidare le pensioni di reversibilita' di  cui  erano
 titolari,  la prima dal 1 dicembre 1966, la seconda dal 1 marzo 1954,
 la terza dal 1 ottobre  1957,  assieme  ad  altre  pensioni  dirette,
 integrandole  al  minimo di tempo in tempo in vigore e, per l'art. 6,
 settimo  comma,  del  d.-l.  n.  638/1983   con   il   "congelamento"
 dell'importo  per  il periodo successivo al 1 ottobre 1983 e quindi a
 pagare la differenza fra  i  ratei  riliquidati  e  quelli  di  fatto
 riscossi  e cio' in esecuzione della sentenza n. 314/1985 della Corte
 costituzionale,  come  gia',  ma  inutilmente,   richiesto   in   via
 amministrativa.
    Si  costituiva  in  giudizio l'I.N.P.S. chiedendo il rigetto delle
 domande. Eccepiva che  era  irrimediabilmente  trascorso  il  termine
 decennale  previsto  dagli  artt.  58,  primo  comma,  della legge n.
 156/1969 e 47 del d.P.R. n. 639/1970 per cui  sulle  pensioni,  ormai
 intangibili, non potevano avere effetto le successive decisioni della
 Corte  costituzionale;  in  ogni  caso sosteneva che dopo la legge n.
 638/1983 non poteva piu' essere richiesta la doppia  integrazione  al
 minimo  neppure  per il periodo precedente e che, comunque, l'art. 6,
 settimo comma, e' norma applicabile solo all'ipotesi di  perdita  del
 diritto  all'integrazione  al  minimo  per  superamento del limite di
 reddito.
    All'odierna udienza i procedimenti sono stati riuniti e,  dopo  la
 discussione orale, il pretore ha pronunciato la presente ordinanza.
    Morandi  Rina  e'  titolare di pensione diretta categoria IO dal 1
 dicembre 1961 e dal 1 dicembre 1966 e' titolare anche della  pensione
 categoria  SO  n. 1097345 di cui richiese l'integrazione al minimo il
 30 gennaio 1986, in via amministrativa e la richiesta venne  respinta
 il 28 marzo 1990.
    Pezzali  Caterina e' titolare di pensione diretta categoria VO dal
 1 febbraio 1970 e dal 1 marzo 1954 di quella indiretta  categoria  SO
 n.  321576 di cui chiese l'integrazione al minimo il 28 gennaio 1986,
 con richiesta respinta il 1 aprile 1988.
    Stocchi  Tolmina  gode  della pensione categoria VO dal 1 dicembre
 1970 e dal 1 ottobre 1957 di quella categoria SO n. 323289; di questa
 chiese l'integrazione al minimo il 29 gennaio 1986 e  la  domanda  fu
 respinta il 21 marzo 1990.
    Le  tre situazioni sono analoghe: per tutte l'I.N.P.S. ha eccepito
 che il termine decennale  per  l'inizio  dell'azione  giudiziaria  e'
 ampiamente trascorso.
    Le  cause sono state iniziate tutte dopo il 2 aprile 1991, data di
 entrata in vigore del d.-l. 29 marzo  1991,  n.  103,  convertito  in
 legge 1 giugno 1991, n. 166.
    E'  opportuno  richiamare, sia pure per sommi capi, lo stato della
 questione.
    Dopo che, per quanto riguarda il periodo precedente  l'entrata  in
 vigore  del  d.-l.  n.  462/1983,  la  Corte  costituzionale,  con la
 sentenza   n.   314/1985   e   numerose   altre,   ebbe    dichiarato
 l'incostituzionalita'  delle  norme che escludevano l'integrazione al
 minimo della seconda pensione per il titolare di  piu'  pensioni,  si
 tento' in vari modi di limitare l'effetto retroattivo delle decisioni
 di  incostituzionalita'  che avrebbe importato per l'I.N.P.S. pesanti
 oneri finanziari.
    Si e' cosi' sostenuto che le decisioni di incostituzionalita'  non
 potevano  avere  effetto sulle situazioni per le quali era decorso il
 termine decennale previsto dalle norme gia' citate che andava  inteso
 come termine di decadenza con effetti di carattere sostanziale.
    Dopo  alcune incertezze giurisprudenziali, con la sentenza n. 6245
 del 21 giugno 1990, le sezioni unite della Corte di cassazione  hanno
 chiarito  che il termine previsto dall'art. 47 del d.P.R. n. 639/1970
 non e' di prescrizione ma e' termine di decadenza ma con effetti solo
 di tipo procedimentale e senza effetti  sostanziali  nel  senso  che,
 decorso   il   decennio   senza   l'inizio  dell'azione  giudiziaria,
 l'interessato ha l'onere di proporre una nuova domanda amministrativa
 che,  avendo  effetto  interruttivo  della  prescrizione   decennale,
 consente  la richiesta delle differenze di importo delle pensioni per
 i dieci anni precedenti. Su questa interpretazione conviene anche  la
 Corte costituzionale (sentenza n. 126 del 26 marzo 1991).
    Con  l'art.  11  della legge 11 marzo 1988, n. 67, fu interpretato
 autenticamente l'art. 129 del r.d-l. n. 1827/1935 nel senso  che  "la
 prescrizione  (quinquennale)  ivi prevista si applica anche alle rate
 di pensione non poste in pagamento". Con la sentenza n. 283 del 17-25
 maggio 1989 della Corte costituzionale, la norma e' stata  dichiarata
 incostituzionale e quindi si e' continuato a richiedere gli arretrati
 non prescritti per prescrizione decennale.
    Anche per quanto riguarda il diritto al c.d. "congelamento" per il
 periodo  successivo  al 30 settembre 1983, la giurisprudenza e' ormai
 pacifica nell'interpretare il settimo comma dell'art. 6 del d.-l.  n.
 463/1983  come  riferito  a  qualunque ipotesi di perdita del diritto
 all'integrazione al minimo e non limitato all'ipotesi di perdita  del
 diritto per superamento del limite di reddito.
    La Corte di cassazione si e' pronunciata con numerose sentenze (19
 dicembre  1989,  n.  5720,  seguita  da  altre)  ed  anche  la  Corte
 costituzionale  ha  accolto  la  stessa  interpretazione  respingendo
 quella  contraria proposta dal tribunale di Firenze (sentenza n. 6-19
 novembre 1991, n. 418).
    Dopo  aver  inutilmente  seguito  la  strada  dell'interpretazione
 autentica del citato art. 47 (con il d.-l. 15 settembre 1990, n. 259,
 poi non convertito in legge  e  seguito  da  quelli  nn.  338/1990  e
 28/1991  anch'essi  non  convertiti in legge) nel senso di attribuire
 alla decadenza effetti sostanziali, l'art. 6 del d.-l.  n.  103/1991,
 convertito  in  legge  n.  166/1991,  sotto  la rubrica "Regime delle
 prescrizioni delle  prestazioni  previdenziali",  cosi'  dispone:  "I
 termini  previsti  dall'art. 47, secondo e terzo comma, del d.P.R. 30
 aprile 1970, n. 639, sono posti a pena di decadenza  per  l'esercizio
 del  diritto  alla  prestazione previdenziale. La decadenza determina
 l'estinzione  del  diritto  ai  ratei  pregressi  delle   prestazioni
 previdenziali e l'inammissibilita' della relativa domanda giudiziale.
 In caso di mancata proposizione del ricorso amministrativo, i termini
 decorrono dall'insorgenza del diritto ai singoli ratei".
    "Le   disposizioni   di   cui   al  primo  comma  hanno  efficacia
 retroattiva, ma non si applicano ai processi che sono in  corso  alla
 data di entrata in vigore del presente decreto".
    La norma e' quanto mai oscura e la sua interpretazione non e' fac-
 ile.
    Innanzi  tutto  va  escluso che si tratti di norma interpretativa.
 Cosi' era stata definita solo quella contenuta nel d.-l. n.  259/1990
 e  la  dimostra  anche  l'espressa  dichiarazione  di  retroattivita'
 peraltro esclusa per i giudizi in corso che per le norme  interpreta-
 tive e' inutile.
    In  secondo  luogo  si  deve  escludere  che  il decorso del tempo
 importi  l'intangibilita'  della  pensione  come  gia'  liquidata   e
 l'impossibilita' di richiederne anche per il futuro la riliquidazione
 con  l'integrazione  al  minimo  sia pure nell'importo cristallizzato
 alla data del 1 ottobre 1983. E' da tempo assolutamente pacifico  che
 il  diritto  a  pensione  (e cioe' il diritto a percepire la pensione
 nell'importo   determinato   secondo    le    leggi    vigenti)    e'
 imprescrittibile  perche'  indisponibile,  in  base alle disposizioni
 dell'art. 2934 del c.c., coordinato con gli artt. 128,  primo  comma,
 del r.d.-l. n. 1827/1935 e 69 della legge n. 153/1969 che escludono o
 limitano  la  cedibilita',  sequestrabilita'  e  pignorabilita' delle
 pensioni e con l'art. 2115, terzo comma, del  codice  civile,  stante
 anche la rilevanza costituzionale ex art. 38 degli interessi protetti
 (Cassazione,  sezioni  unite, n. 6245/1990 citato). E' per questo che
 gli  effetti  della  "decadenza  per  l'esercizio  del  diritto  alla
 prestazione  previdenziale",  di  cui  alla  prima  parte dell'art. 6
 citato, devono intendersi limitati a  quanto  dice  in  prosieguo  lo
 stesso   articolo   e   cioe'  che  "la  decadenza  determina  (solo)
 l'estinzione del diritto  ai  ratei  pregressi";  non  sembra  lecito
 attribuire alla norma portata sostanziale piu' amplia.
    In  base  alle  considerazioni  fatte  fino a questo punto si puo'
 intanto affermare  che  alle  ricorrenti  compete  l'integrazione  al
 minimo  sulla pensione di reversibilita', nell'importo cristallizzato
 alla data del 30 settembre 1983, a partire dalla  proposizione  della
 domanda  amministrativa  di  applicazione  della sentenza della Corte
 costituzionale n. 314/1985,  che  ha  preceduto  la  proposizione  di
 questo  giudizio.  Essendo  trascorso il decennio previsto dal citata
 art. 47, era  indispensabile  riproporre  la  domanda  amministrativa
 essendo  intervenuta  quella decandenza procedimentale individuata da
 Cass. n. 6245/1990 cit. che  non  e'  stata  negata  dalla  norma  in
 oggetto,   che   ad   essa  ha  aggiunto  la  decadenza  con  effetti
 sostanziali.
    Poiche'   tale   domanda  amministrativa  ha  sicuramente  effetto
 interruttivo della prescrizione, le ricorrenti, se  non  fosse  stata
 emanata  la norma di cui all'art. 6 della legge n. 166/1991 avrebbero
 avuto diritto a richiedere le differenze arretrate, a partire  dal  1
 febbraio 1976, avendo chiesto tutte la riliquidazione nel gennaio del
 1986.  Esse  ritengono  che  la  recente  innovazione legislativa non
 impedisce l'accoglimento della loro richiesta.
    L'istanza da esse presentata  per  l'applicazione  della  sentenza
 della   Corte   costituzionale   n.   314/1985,   volta   al  riesame
 dell'originario provvedimento dell'I.N.P.S. con il  quale  era  stata
 liquidata  inizialmente  la pensione, andrebbe definita come "ricorso
 amministrativo", proponibile in ogni tempo  secondo  la  disposizione
 dell'art.  8  della legge n. 533/1973, con la conseguenza che, solo a
 partire da quando esso e' stato respinto, e' iniziato a decorrere  il
 termine  decennale  menzionato  nell'art. 47 citato che non e' ancora
 concluso; i ricorso infatti sono stati  rigettati  dall'I.N.P.S.  nel
 1988 e nel 1990.
    Questa interpretazione non puo' essere seguita.
    Non  sembra  si  possa dubitare che lo scopo principale propostosi
 dal legislatore del 1991 e' stato quello di limitare gli  aggravi  di
 spesa   conseguenti   all'effetto   retroattivo  delle  decisioni  di
 incostituzionalita'; secondo l'interpretazione proposta questo  scopo
 non sarebbe di fatto raggiungibile.
    Va inoltre ricordato che l'art. 6 della legge n. 166/1991 menziona
 i  termini  previsti  dall'art.  47 del d.P.R. n. 639/1970, ma questa
 norma, quando parla di "ricorso", non allude a quello proponibile  in
 ogni  tempo  secondo  l'art.  8  della legge n. 533/1973, ma a quello
 previsto e regolato dalle norme che la precedono. Gli artt. 44, 45  e
 46  del  d.P.R.  n.  639/1970,  sotto  il  titolo  terzo  "Ricorsi  e
 controversie in materia previdenziale", prevedono termini precisi per
 la loro proposizione. Una volta ripudiato il sistema della cosiddetta
 giurisdizione condizionata, il decorso di  questi  termini  non  puo'
 importare  la perdita del diritto a pensione che e' imprescrittibile,
 cio' non toglie che, una volta prevista una procedura  amministrativa
 diretta   a   provocare   un   controllo   interno  per  un'eventuale
 composizione della vertenza in modo rapido ed economico, abbia ancora
 senso la previsione di termini ristretti decorsi i quali la  pubblica
 amministrazione  possa  considerare le pratiche concluse dal punto di
 vista amministrativo. E' anche il caso di considerare il  particolare
 interesse dell'ordinamento a che si svolga questa procedura tanto che
 il  giudizio  eventualmente iniziato prima della sua conclusione deve
 essere sospeso (art. 443 del c.p.c.).
    Chiarito che il ricorso cui fa riferimento l'art. 6 della legge n.
 166/1991 e' quello previsto dagli artt. 44, 45 e  46  del  d.P.R.  n.
 639/1970 va detto che le ricorrenti non ebbero a presentarlo, ne' del
 resto   c'era   motivo   perche'   gli   originari  provvedimenti  di
 liquidazione delle  pensioni  erano  conformi  alle  leggi  all'epoca
 vigenti.  Le  ipotesi oggetto di questo giudizio sono quindi regolate
 dalla seconda parte del primo comma dell'art. 6 citato.
    Le ricorrenti, partendo dalla premessa che il diritto  a  pensione
 sorge  quando  se ne sono verificate le condizioni, mentre il diritto
 alla percezione dei  singoli  ratei  sorge  volta  per  volta  ed  in
 relazione  ad  ogni  rateo,  sostengono  che  il termine decennale di
 decadenza  sostanziale  in  relazione  ai  ratei pregressi, si sposta
 continuamente in avanti mese per mese, con la conseguenza che, avendo
 presentato le domande precedenti il ricorso giudiziario  nel  gennaio
 1986, potrebbero richiedere i ratei maturati dal febbraio 1976.
    Anche  questa  argomentazione  non  sembra  possa  essere accolta.
 Innanzitutto si  verrebbe  a  creare  un'assoluta  ed  ingiustificata
 disparita'  di  trattamento  fra  chi  presento' il ricorso contro il
 provvedimento di liquidazione della pensione e  chi  vi  fece  invece
 acquiescenza.  In  secondo  luogo  l'intento  del legislatore, che, a
 differenza delle espressioni usate che sono quanto mai equivoche,  e'
 invece ben chiaro, sarebbe inspiegabilmente frustrato. In terzo luogo
 sembra  da  seguire l'interpretazione dell'I.N.P.S. (circolare n. 244
 dell'11 ottobre  1991)  che  propone  di  distinguere  il  diritto  a
 pensione  "astrattamente  esistente al verificarsi dei presupposti di
 legge  ed  indipendentemente  dalla  presentazione   della   relativa
 domanda", dal "diritto alla erogazione dei singoli ratei" che nasce a
 seguito  dell'accoglimento  della domanda di pensione. La conseguenza
 e' che, nell'ipotesi in cui non  sia  stato  presentato  ricorso,  il
 termine  decennale  inizia  a  decorrere  dal momento in cui e' stato
 emesso il provvedimento di liquidazione della pensione.
    Interpretata in questo modo la  disposizione  di  cui  all'art.  6
 della  legge  n.  166/1991,  i dubbi sulla sua costituzionalita' sono
 molti e fondati.
    Gia'  il  pretore  di  Sanremo  (ordinanza  14  giugno  1991)   ha
 sospettato  di  incostituzionalita'  la norma in relazione all'art. 3
 della Costituzione in quanto discrimina in relazione ad un fatto  del
 tutto  estrinseco  e  non  significativo,  ai  fini  della necessaria
 salvaguardia dei diritti quesiti, quale quello della proposizione  di
 un giudizio.
    Ulteriore  contrasto con l'art. 3 emerge dal fatto che, seppure e'
 possibile per il legislatore emanare norme retroattive, nel  caso  di
 specie  non  e'  stata  dettata  una  qualche  disciplina transitoria
 diretta   a   salvare   quelle   situazioni   pregresse,   sia   pure
 caratterizzate  da  una  certa inerzia ma per le quali, essendo stata
 interrotta la prescrizione, era  inconcepibile  ed  imprevedibile  la
 perdita  del  diritto  sostanziale,  da  ritenersi  gia'  entrato nel
 patrimonio  del   titolare.   La   scelta   legislativa   oltre   che
 discriminatoria  e'  anche irrazionale perche' ricollega l'effetto di
 una irrimediabile perdita del diritto ad un fatto che quando fu posto
 in essere non poteva produrre tale effetto.
    Per lo stesso motivo la norma sembra contrastare anche con  l'art.
 38  della  Costituzione  perche'  produce gli effetti di cui sopra in
 danno di soggetti deboli e  riconosciuti  meritevoli  di  particolare
 tutela.
    La  stessa  Corte  costituzionale,  con  la sentenza n. 822 del 14
 luglio 1988, ha  precisato  i  limiti  che  il  legislatore  incontra
 nell'intervenire     nei    rapporti    di    durata    modificandoli
 sfavorevolmente, nel  senso  che  le  disposizioni  retroattive  "non
 possono  trasmodare  in un regolamento irrazionale ed arbitrariamente
 incidere sulle  situazioni  sostanziali  poste  in  essere  da  leggi
 precedenti,  frustrando cosi' anche l'affidamento del cittadino nella
 sicurezza  pubblica  che   costituisce   elemento   fondamentale   ed
 indispensabile dello stato di diritto. . .
    Anche  se deve ritenersi ammissibile un intervento legislativo che
 modifichi  l'ordinamento  pubblicistico  delle  pensioni,  non  puo',
 pero',    ammettersi   che   detto   intervento   sia   assolutamente
 discrezionale.  In  particolare  non  puo'   dirsi   consentita   una
 modificazione  legislativa che, intervenendo in una fase avanzata del
 rapporto di lavoro oppure quando gia'  sia  subentrato  lo  stato  di
 quiescenza,  peggiorasse,  senza una inderogabile esigenza, in misura
 notevole ed in maniera definitiva, un  trattamento  pensionistico  in
 precedenza  spettante, con la conseguente irrimediabile vanificazione
 delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il  tempo
 successivo alla cessazione della propria attivita' lavorativa".
    La  norma,  infine, sembra in contrasto anche con l'art. 136 della
 Costituzione giacche' limita ed anzi  di  fatto  esclude  l'efficacia
 retroattiva  delle sentenze della Corte costituzionale. E' il caso di
 richiamare una fattispecie che presenta notevole analogie con  quella
 in  oggetto.  Con  la  sentenza  n.  139  del 7 maggio 1984, la Corte
 costituzionale, nel dichiarare illegittimo  l'art.  1,  terzo  comma,
 della  legge  10  maggio 1978, n. 176, richiamato dall'art. 15, primo
 comma, della legge 3 maggio  1982,  n.  203,  cosi'  testualmente  ha
 motivato: "Le sentenze di accoglimento, in base al disposto dell'art.
 136  della  Costituzione confermato dall'art. 30 della legge 11 marzo
 1953, n. 87, operano ex tunc perche' producono i loro  effetti  anche
 sui  rapporti  sorti  anteriomente  alla  pronuncia di illegittimita'
 sicche', dal giorno successivo  alla  loro  pubblicazione,  le  norme
 dichiarate  incostituzionali  non  possono  piu' trovare applicazione
 (salvo quanto discende dall'art. 25 della Costituzione per la materia
 penale)".
    "Il principio, che suole essere enunciato con il ricorso alla for-
 mula della  c.d.  "retroattivita'"  di  dette  sentenze,  vale  pero'
 soltanto  per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione
 di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata
 invalida. Per rapporti esauriti debbono certamente  intendersi  tutti
 quelli  che  sul piano processuale hanno trovato la loro definitiva e
 irretrattabile conclusione mediante sentenza passata in giudicato,  i
 cui  effetti  non  vengono  intaccati  dalla  successiva pronuncia di
 incostituzionalita' (salvo quanto disposto per la materia penale  dal
 citato   art.  30).  Secondo  l'orientamento  talvolta  emerso  nella
 giurisprudenza di questa  Corte  (cfr.  sentenza  n.  58/1967)  e  il
 prevalente  indirizzo  dottrinale, vanno considerati esauriti anche i
 rapporti rispetto ai quali sia decorso il termine di  prescrizione  o
 di  decadenza previsto dalla legge per l'esercizio di diritti ad essi
 relativi. Ma quando, come nell'ipotesi  considerata  dalla  normativa
 denunciata,  detto termine e' pendente e quindi il creditore, secondo
 i principi generali puo' pretendere quanto ancora gli e' dovuto,  non
 e'  consentito al legislatore ordinario limitare la portata dell'art.
 136 della Costituzione,  sia  pure  ricorrendo,  come  nella  specie,
 all'espediente  di introdurre un nuovo onere, non previsto al momento
 dell'avvenuto pagamento parziale, e di escludere  percio'  l'acquisto
 del   diritto   successivamente   riconosciuto  dalla  legge  che  ha
 sostituito   quella   dichiarata   invalida.   Cosi'   operando,   il
 legislatore,  in  realta',  fa  in  modo  che il rapporto oggetto del
 giudizio principale e non ancora  esaurito  rimanga  illegittimamente
 regolato    dalla    norma    annullata,   riducendo   indebitamente,
 l'operativita' dell'art. 136 della Costituzione".
                               P. Q. M.
    Visti gli artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1
 e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara non manifestamente infondata la questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 6, primo e secondo comma, del d.-l. 29 marzo
 1991,  n.  103,  convertito  in  legge  1  giugno  1991,  n. 166, per
 contrasto con gli artt. 3, 38 e 136 della Costituzione;
    Sospende il presente giudizio e dispone la trasmissione degli atti
 alla Corte costituzionale;
    Ordina che a cura della cancelleria copia della presente ordinanza
 venga notificata al Presidente del Consiglio  dei  Ministri  e  venga
 comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
      Parma, addi' 2 dicembre 1991
                         Il pretore: FEDERICO
    Depositato in cancelleria l'8 dicembre 1991.
         Il collaboratore di cancelleria: (firma illeggibile)

 92C0413