N. 181 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 dicembre 1991
N. 181 Ordinanza emessa il 2 dicembre 1991 dal pretore di Parma nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Morandi Rina ed altre e l'I.N.P.S. Previdenza e assistenza sociale - Pensioni I.N.P.S. - Termine di decadenza (10 anni) per l'impugnativa in giudizio dei provvedimenti dell'I.N.P.S. - Prevista retroattivita' di tale disposizione tranne che per i processi gia' in corso alla data di entrata in vigore del d.-l. 29 marzo 1991, n. 103 - Ingiustificata disparita' di trattamento tra coloro che hanno presentato domanda giudiziale prima di detta data e coloro che l'hanno presentata dopo, attesa la mancanza, prima di detta disposizione innovativa, di termini di decadenza o prescrizione - Incidenza sul principio dell'assicurazione di mezzi adeguati alle esigenze di vita del lavoratore in caso di vecchiaia e sul principio dell'efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimita' costituzionale della Corte costituzionale (in particolare della sentenza n. 314/1985 cui si ricollega il caso di specie, riguardante una domanda per "integrazione al minimo") - Irrazionale limitazione della retroattivita' in conseguenza di un fatto estrinseco quale la proposizione del giudizio. (D.-L. 29 marzo 1991, n. 103, art. 6, primo e secondo comma, convertito in legge 1 giugno 1991, n. 166). (Cost., artt. 3, 38 e 136).(GU n.16 del 15-4-1992 )
IL PRETORE In funzione di giudice del lavoro nelle cause previdenziali riunite promosse da Morandi Rina, Pezzali Caterina, Stocchi Tolmina, rappresentate e difese tutte dall'avv. Luciano Petronio contro l'Istituto nazionale della previdenza sociale, rappresentato e difeso dall'avv. Domenico Liveri, all'udienza del 2 dicembre 1991 ha pronunciato la presente ordinanza. Con separati ricorsi depositati il 15 maggio 1991, Morandi Rina, Pezzali Caterina e Stocchi Tolmina chiedevano che l'I.N.P.S. venisse condannato a riliquidare le pensioni di reversibilita' di cui erano titolari, la prima dal 1 dicembre 1966, la seconda dal 1 marzo 1954, la terza dal 1 ottobre 1957, assieme ad altre pensioni dirette, integrandole al minimo di tempo in tempo in vigore e, per l'art. 6, settimo comma, del d.-l. n. 638/1983 con il "congelamento" dell'importo per il periodo successivo al 1 ottobre 1983 e quindi a pagare la differenza fra i ratei riliquidati e quelli di fatto riscossi e cio' in esecuzione della sentenza n. 314/1985 della Corte costituzionale, come gia', ma inutilmente, richiesto in via amministrativa. Si costituiva in giudizio l'I.N.P.S. chiedendo il rigetto delle domande. Eccepiva che era irrimediabilmente trascorso il termine decennale previsto dagli artt. 58, primo comma, della legge n. 156/1969 e 47 del d.P.R. n. 639/1970 per cui sulle pensioni, ormai intangibili, non potevano avere effetto le successive decisioni della Corte costituzionale; in ogni caso sosteneva che dopo la legge n. 638/1983 non poteva piu' essere richiesta la doppia integrazione al minimo neppure per il periodo precedente e che, comunque, l'art. 6, settimo comma, e' norma applicabile solo all'ipotesi di perdita del diritto all'integrazione al minimo per superamento del limite di reddito. All'odierna udienza i procedimenti sono stati riuniti e, dopo la discussione orale, il pretore ha pronunciato la presente ordinanza. Morandi Rina e' titolare di pensione diretta categoria IO dal 1 dicembre 1961 e dal 1 dicembre 1966 e' titolare anche della pensione categoria SO n. 1097345 di cui richiese l'integrazione al minimo il 30 gennaio 1986, in via amministrativa e la richiesta venne respinta il 28 marzo 1990. Pezzali Caterina e' titolare di pensione diretta categoria VO dal 1 febbraio 1970 e dal 1 marzo 1954 di quella indiretta categoria SO n. 321576 di cui chiese l'integrazione al minimo il 28 gennaio 1986, con richiesta respinta il 1 aprile 1988. Stocchi Tolmina gode della pensione categoria VO dal 1 dicembre 1970 e dal 1 ottobre 1957 di quella categoria SO n. 323289; di questa chiese l'integrazione al minimo il 29 gennaio 1986 e la domanda fu respinta il 21 marzo 1990. Le tre situazioni sono analoghe: per tutte l'I.N.P.S. ha eccepito che il termine decennale per l'inizio dell'azione giudiziaria e' ampiamente trascorso. Le cause sono state iniziate tutte dopo il 2 aprile 1991, data di entrata in vigore del d.-l. 29 marzo 1991, n. 103, convertito in legge 1 giugno 1991, n. 166. E' opportuno richiamare, sia pure per sommi capi, lo stato della questione. Dopo che, per quanto riguarda il periodo precedente l'entrata in vigore del d.-l. n. 462/1983, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 314/1985 e numerose altre, ebbe dichiarato l'incostituzionalita' delle norme che escludevano l'integrazione al minimo della seconda pensione per il titolare di piu' pensioni, si tento' in vari modi di limitare l'effetto retroattivo delle decisioni di incostituzionalita' che avrebbe importato per l'I.N.P.S. pesanti oneri finanziari. Si e' cosi' sostenuto che le decisioni di incostituzionalita' non potevano avere effetto sulle situazioni per le quali era decorso il termine decennale previsto dalle norme gia' citate che andava inteso come termine di decadenza con effetti di carattere sostanziale. Dopo alcune incertezze giurisprudenziali, con la sentenza n. 6245 del 21 giugno 1990, le sezioni unite della Corte di cassazione hanno chiarito che il termine previsto dall'art. 47 del d.P.R. n. 639/1970 non e' di prescrizione ma e' termine di decadenza ma con effetti solo di tipo procedimentale e senza effetti sostanziali nel senso che, decorso il decennio senza l'inizio dell'azione giudiziaria, l'interessato ha l'onere di proporre una nuova domanda amministrativa che, avendo effetto interruttivo della prescrizione decennale, consente la richiesta delle differenze di importo delle pensioni per i dieci anni precedenti. Su questa interpretazione conviene anche la Corte costituzionale (sentenza n. 126 del 26 marzo 1991). Con l'art. 11 della legge 11 marzo 1988, n. 67, fu interpretato autenticamente l'art. 129 del r.d-l. n. 1827/1935 nel senso che "la prescrizione (quinquennale) ivi prevista si applica anche alle rate di pensione non poste in pagamento". Con la sentenza n. 283 del 17-25 maggio 1989 della Corte costituzionale, la norma e' stata dichiarata incostituzionale e quindi si e' continuato a richiedere gli arretrati non prescritti per prescrizione decennale. Anche per quanto riguarda il diritto al c.d. "congelamento" per il periodo successivo al 30 settembre 1983, la giurisprudenza e' ormai pacifica nell'interpretare il settimo comma dell'art. 6 del d.-l. n. 463/1983 come riferito a qualunque ipotesi di perdita del diritto all'integrazione al minimo e non limitato all'ipotesi di perdita del diritto per superamento del limite di reddito. La Corte di cassazione si e' pronunciata con numerose sentenze (19 dicembre 1989, n. 5720, seguita da altre) ed anche la Corte costituzionale ha accolto la stessa interpretazione respingendo quella contraria proposta dal tribunale di Firenze (sentenza n. 6-19 novembre 1991, n. 418). Dopo aver inutilmente seguito la strada dell'interpretazione autentica del citato art. 47 (con il d.-l. 15 settembre 1990, n. 259, poi non convertito in legge e seguito da quelli nn. 338/1990 e 28/1991 anch'essi non convertiti in legge) nel senso di attribuire alla decadenza effetti sostanziali, l'art. 6 del d.-l. n. 103/1991, convertito in legge n. 166/1991, sotto la rubrica "Regime delle prescrizioni delle prestazioni previdenziali", cosi' dispone: "I termini previsti dall'art. 47, secondo e terzo comma, del d.P.R. 30 aprile 1970, n. 639, sono posti a pena di decadenza per l'esercizio del diritto alla prestazione previdenziale. La decadenza determina l'estinzione del diritto ai ratei pregressi delle prestazioni previdenziali e l'inammissibilita' della relativa domanda giudiziale. In caso di mancata proposizione del ricorso amministrativo, i termini decorrono dall'insorgenza del diritto ai singoli ratei". "Le disposizioni di cui al primo comma hanno efficacia retroattiva, ma non si applicano ai processi che sono in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto". La norma e' quanto mai oscura e la sua interpretazione non e' fac- ile. Innanzi tutto va escluso che si tratti di norma interpretativa. Cosi' era stata definita solo quella contenuta nel d.-l. n. 259/1990 e la dimostra anche l'espressa dichiarazione di retroattivita' peraltro esclusa per i giudizi in corso che per le norme interpreta- tive e' inutile. In secondo luogo si deve escludere che il decorso del tempo importi l'intangibilita' della pensione come gia' liquidata e l'impossibilita' di richiederne anche per il futuro la riliquidazione con l'integrazione al minimo sia pure nell'importo cristallizzato alla data del 1 ottobre 1983. E' da tempo assolutamente pacifico che il diritto a pensione (e cioe' il diritto a percepire la pensione nell'importo determinato secondo le leggi vigenti) e' imprescrittibile perche' indisponibile, in base alle disposizioni dell'art. 2934 del c.c., coordinato con gli artt. 128, primo comma, del r.d.-l. n. 1827/1935 e 69 della legge n. 153/1969 che escludono o limitano la cedibilita', sequestrabilita' e pignorabilita' delle pensioni e con l'art. 2115, terzo comma, del codice civile, stante anche la rilevanza costituzionale ex art. 38 degli interessi protetti (Cassazione, sezioni unite, n. 6245/1990 citato). E' per questo che gli effetti della "decadenza per l'esercizio del diritto alla prestazione previdenziale", di cui alla prima parte dell'art. 6 citato, devono intendersi limitati a quanto dice in prosieguo lo stesso articolo e cioe' che "la decadenza determina (solo) l'estinzione del diritto ai ratei pregressi"; non sembra lecito attribuire alla norma portata sostanziale piu' amplia. In base alle considerazioni fatte fino a questo punto si puo' intanto affermare che alle ricorrenti compete l'integrazione al minimo sulla pensione di reversibilita', nell'importo cristallizzato alla data del 30 settembre 1983, a partire dalla proposizione della domanda amministrativa di applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 314/1985, che ha preceduto la proposizione di questo giudizio. Essendo trascorso il decennio previsto dal citata art. 47, era indispensabile riproporre la domanda amministrativa essendo intervenuta quella decandenza procedimentale individuata da Cass. n. 6245/1990 cit. che non e' stata negata dalla norma in oggetto, che ad essa ha aggiunto la decadenza con effetti sostanziali. Poiche' tale domanda amministrativa ha sicuramente effetto interruttivo della prescrizione, le ricorrenti, se non fosse stata emanata la norma di cui all'art. 6 della legge n. 166/1991 avrebbero avuto diritto a richiedere le differenze arretrate, a partire dal 1 febbraio 1976, avendo chiesto tutte la riliquidazione nel gennaio del 1986. Esse ritengono che la recente innovazione legislativa non impedisce l'accoglimento della loro richiesta. L'istanza da esse presentata per l'applicazione della sentenza della Corte costituzionale n. 314/1985, volta al riesame dell'originario provvedimento dell'I.N.P.S. con il quale era stata liquidata inizialmente la pensione, andrebbe definita come "ricorso amministrativo", proponibile in ogni tempo secondo la disposizione dell'art. 8 della legge n. 533/1973, con la conseguenza che, solo a partire da quando esso e' stato respinto, e' iniziato a decorrere il termine decennale menzionato nell'art. 47 citato che non e' ancora concluso; i ricorso infatti sono stati rigettati dall'I.N.P.S. nel 1988 e nel 1990. Questa interpretazione non puo' essere seguita. Non sembra si possa dubitare che lo scopo principale propostosi dal legislatore del 1991 e' stato quello di limitare gli aggravi di spesa conseguenti all'effetto retroattivo delle decisioni di incostituzionalita'; secondo l'interpretazione proposta questo scopo non sarebbe di fatto raggiungibile. Va inoltre ricordato che l'art. 6 della legge n. 166/1991 menziona i termini previsti dall'art. 47 del d.P.R. n. 639/1970, ma questa norma, quando parla di "ricorso", non allude a quello proponibile in ogni tempo secondo l'art. 8 della legge n. 533/1973, ma a quello previsto e regolato dalle norme che la precedono. Gli artt. 44, 45 e 46 del d.P.R. n. 639/1970, sotto il titolo terzo "Ricorsi e controversie in materia previdenziale", prevedono termini precisi per la loro proposizione. Una volta ripudiato il sistema della cosiddetta giurisdizione condizionata, il decorso di questi termini non puo' importare la perdita del diritto a pensione che e' imprescrittibile, cio' non toglie che, una volta prevista una procedura amministrativa diretta a provocare un controllo interno per un'eventuale composizione della vertenza in modo rapido ed economico, abbia ancora senso la previsione di termini ristretti decorsi i quali la pubblica amministrazione possa considerare le pratiche concluse dal punto di vista amministrativo. E' anche il caso di considerare il particolare interesse dell'ordinamento a che si svolga questa procedura tanto che il giudizio eventualmente iniziato prima della sua conclusione deve essere sospeso (art. 443 del c.p.c.). Chiarito che il ricorso cui fa riferimento l'art. 6 della legge n. 166/1991 e' quello previsto dagli artt. 44, 45 e 46 del d.P.R. n. 639/1970 va detto che le ricorrenti non ebbero a presentarlo, ne' del resto c'era motivo perche' gli originari provvedimenti di liquidazione delle pensioni erano conformi alle leggi all'epoca vigenti. Le ipotesi oggetto di questo giudizio sono quindi regolate dalla seconda parte del primo comma dell'art. 6 citato. Le ricorrenti, partendo dalla premessa che il diritto a pensione sorge quando se ne sono verificate le condizioni, mentre il diritto alla percezione dei singoli ratei sorge volta per volta ed in relazione ad ogni rateo, sostengono che il termine decennale di decadenza sostanziale in relazione ai ratei pregressi, si sposta continuamente in avanti mese per mese, con la conseguenza che, avendo presentato le domande precedenti il ricorso giudiziario nel gennaio 1986, potrebbero richiedere i ratei maturati dal febbraio 1976. Anche questa argomentazione non sembra possa essere accolta. Innanzitutto si verrebbe a creare un'assoluta ed ingiustificata disparita' di trattamento fra chi presento' il ricorso contro il provvedimento di liquidazione della pensione e chi vi fece invece acquiescenza. In secondo luogo l'intento del legislatore, che, a differenza delle espressioni usate che sono quanto mai equivoche, e' invece ben chiaro, sarebbe inspiegabilmente frustrato. In terzo luogo sembra da seguire l'interpretazione dell'I.N.P.S. (circolare n. 244 dell'11 ottobre 1991) che propone di distinguere il diritto a pensione "astrattamente esistente al verificarsi dei presupposti di legge ed indipendentemente dalla presentazione della relativa domanda", dal "diritto alla erogazione dei singoli ratei" che nasce a seguito dell'accoglimento della domanda di pensione. La conseguenza e' che, nell'ipotesi in cui non sia stato presentato ricorso, il termine decennale inizia a decorrere dal momento in cui e' stato emesso il provvedimento di liquidazione della pensione. Interpretata in questo modo la disposizione di cui all'art. 6 della legge n. 166/1991, i dubbi sulla sua costituzionalita' sono molti e fondati. Gia' il pretore di Sanremo (ordinanza 14 giugno 1991) ha sospettato di incostituzionalita' la norma in relazione all'art. 3 della Costituzione in quanto discrimina in relazione ad un fatto del tutto estrinseco e non significativo, ai fini della necessaria salvaguardia dei diritti quesiti, quale quello della proposizione di un giudizio. Ulteriore contrasto con l'art. 3 emerge dal fatto che, seppure e' possibile per il legislatore emanare norme retroattive, nel caso di specie non e' stata dettata una qualche disciplina transitoria diretta a salvare quelle situazioni pregresse, sia pure caratterizzate da una certa inerzia ma per le quali, essendo stata interrotta la prescrizione, era inconcepibile ed imprevedibile la perdita del diritto sostanziale, da ritenersi gia' entrato nel patrimonio del titolare. La scelta legislativa oltre che discriminatoria e' anche irrazionale perche' ricollega l'effetto di una irrimediabile perdita del diritto ad un fatto che quando fu posto in essere non poteva produrre tale effetto. Per lo stesso motivo la norma sembra contrastare anche con l'art. 38 della Costituzione perche' produce gli effetti di cui sopra in danno di soggetti deboli e riconosciuti meritevoli di particolare tutela. La stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 822 del 14 luglio 1988, ha precisato i limiti che il legislatore incontra nell'intervenire nei rapporti di durata modificandoli sfavorevolmente, nel senso che le disposizioni retroattive "non possono trasmodare in un regolamento irrazionale ed arbitrariamente incidere sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti, frustrando cosi' anche l'affidamento del cittadino nella sicurezza pubblica che costituisce elemento fondamentale ed indispensabile dello stato di diritto. . . Anche se deve ritenersi ammissibile un intervento legislativo che modifichi l'ordinamento pubblicistico delle pensioni, non puo', pero', ammettersi che detto intervento sia assolutamente discrezionale. In particolare non puo' dirsi consentita una modificazione legislativa che, intervenendo in una fase avanzata del rapporto di lavoro oppure quando gia' sia subentrato lo stato di quiescenza, peggiorasse, senza una inderogabile esigenza, in misura notevole ed in maniera definitiva, un trattamento pensionistico in precedenza spettante, con la conseguente irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attivita' lavorativa". La norma, infine, sembra in contrasto anche con l'art. 136 della Costituzione giacche' limita ed anzi di fatto esclude l'efficacia retroattiva delle sentenze della Corte costituzionale. E' il caso di richiamare una fattispecie che presenta notevole analogie con quella in oggetto. Con la sentenza n. 139 del 7 maggio 1984, la Corte costituzionale, nel dichiarare illegittimo l'art. 1, terzo comma, della legge 10 maggio 1978, n. 176, richiamato dall'art. 15, primo comma, della legge 3 maggio 1982, n. 203, cosi' testualmente ha motivato: "Le sentenze di accoglimento, in base al disposto dell'art. 136 della Costituzione confermato dall'art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, operano ex tunc perche' producono i loro effetti anche sui rapporti sorti anteriomente alla pronuncia di illegittimita' sicche', dal giorno successivo alla loro pubblicazione, le norme dichiarate incostituzionali non possono piu' trovare applicazione (salvo quanto discende dall'art. 25 della Costituzione per la materia penale)". "Il principio, che suole essere enunciato con il ricorso alla for- mula della c.d. "retroattivita'" di dette sentenze, vale pero' soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida. Per rapporti esauriti debbono certamente intendersi tutti quelli che sul piano processuale hanno trovato la loro definitiva e irretrattabile conclusione mediante sentenza passata in giudicato, i cui effetti non vengono intaccati dalla successiva pronuncia di incostituzionalita' (salvo quanto disposto per la materia penale dal citato art. 30). Secondo l'orientamento talvolta emerso nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. sentenza n. 58/1967) e il prevalente indirizzo dottrinale, vanno considerati esauriti anche i rapporti rispetto ai quali sia decorso il termine di prescrizione o di decadenza previsto dalla legge per l'esercizio di diritti ad essi relativi. Ma quando, come nell'ipotesi considerata dalla normativa denunciata, detto termine e' pendente e quindi il creditore, secondo i principi generali puo' pretendere quanto ancora gli e' dovuto, non e' consentito al legislatore ordinario limitare la portata dell'art. 136 della Costituzione, sia pure ricorrendo, come nella specie, all'espediente di introdurre un nuovo onere, non previsto al momento dell'avvenuto pagamento parziale, e di escludere percio' l'acquisto del diritto successivamente riconosciuto dalla legge che ha sostituito quella dichiarata invalida. Cosi' operando, il legislatore, in realta', fa in modo che il rapporto oggetto del giudizio principale e non ancora esaurito rimanga illegittimamente regolato dalla norma annullata, riducendo indebitamente, l'operativita' dell'art. 136 della Costituzione".
P. Q. M. Visti gli artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 6, primo e secondo comma, del d.-l. 29 marzo 1991, n. 103, convertito in legge 1 giugno 1991, n. 166, per contrasto con gli artt. 3, 38 e 136 della Costituzione; Sospende il presente giudizio e dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che a cura della cancelleria copia della presente ordinanza venga notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e venga comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Parma, addi' 2 dicembre 1991 Il pretore: FEDERICO Depositato in cancelleria l'8 dicembre 1991. Il collaboratore di cancelleria: (firma illeggibile) 92C0413