N. 248 SENTENZA 20 maggio - 3 giugno 1992

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo   penale  -  Liberta'  personale  dell'imputato  -  Ingiusta
 detenzione - Risarcimento - Estensione del diritto  alla  riparazione
 in  tutti  i  casi  di  detenzione  "non dovuta" - Presunta difettosa
 regolamentazione legislativa - Intervento interpretativo della  Corte
 di  cassazione  -  Preclusione  di un riesame di merito degli atti da
 parte del giudice non incidente sul principio  di  uguaglianza  e  di
 difesa - Non fondatezza.
 
 (C.P.P., art. 314, terzo comma).
 
 (Cost., artt. 3 e 24, ultimo comma).
(GU n.25 del 10-6-1992 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Giuseppe BORZELLINO;
 Giudici: dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo
    SPAGNOLI,   prof.   Francesco   Paolo   CASAVOLA,   prof.  Antonio
    BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv.  Mauro  FERRI,  prof.
    Luigi  MENGONI,  prof.  Enzo  CHELI,  dott.  Renato GRANATA, prof.
    Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 314, terzo
 comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza  emessa
 il  17  luglio 1991 dalla Corte di appello di Bari nella procedura di
 riparazione per ingiusta  detenzione  promossa  da  Potenza  Aurelio,
 iscritta  al  n.  654  del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella
 Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  44,  prima  serie  speciale,
 dell'anno 1991;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei
 ministri;
    Udito nella camera di consiglio  del  6  maggio  1992  il  Giudice
 relatore Mauro Ferri;
                           Ritenuto in fatto
    1.  -  La Corte d'appello di Bari, adita da Potenza Aurelio per la
 riparazione della  ingiusta  detenzione  sofferta  nel  corso  di  un
 procedimento   penale   conclusosi   con   sentenza   istruttoria  di
 proscioglimento "perche' il fatto non  sussiste",  ha  sollevato,  in
 riferimento  agli  artt.  3  e  24  della  Costituzione, questione di
 legittimita' dell'art. 314, terzo  comma,  del  codice  di  procedura
 penale,  nella  parte  in  cui  equipara,  ai  fini  del diritto alla
 riparazione, le persone  nei  cui  confronti  sia  stata  pronunciata
 sentenza di non luogo a procedere a coloro che siano stati prosciolti
 con  sentenza  irrevocabile  con  le  formule indicate al primo comma
 della stessa norma.
    Il giudice remittente premette di aver rigettato la  domanda,  con
 ordinanza  15  ottobre  1990,  in quanto aveva ritenuto necessario il
 riesame di merito sugli atti (onde stabilire la  rispondenza  o  meno
 della  formula  di  proscioglimento ad una delle quattro previste dal
 primo comma dell'art. 314), e, considerata la non  rispondenza  della
 formula  al  fatto, aveva rilevato che all'accoglimento della domanda
 difettasse la "decisione irrevocabile" da cui risultassero violate le
 disposizioni sull'applicazione o la perduranza della misura detentiva
 (art. 314, secondo comma, del codice di procedura penale).
    Rigettata la domanda, prosegue il remittente, l'istante  ricorreva
 per  Cassazione  e  la  Corte  Suprema,  con  sentenza 3 aprile 1991,
 ritenuta   l'applicabilita'   dell'istituto   anche   nei   casi   di
 archiviazione o di sentenza di non luogo a procedere, per il disposto
 stesso  del comma terzo dell'art. 314 del codice di procedura penale,
 annullava con rinvio l'ordinanza impugnata "non potendo  il  giudice,
 investito  della richiesta risarcitoria, procedere alla rivalutazione
 di un fatto, su cui e' intervenuta una decisione non piu' soggetta ad
 impugnazioni ordinarie".
    Cio' posto, la Corte di  appello  di  Bari,  preso  atto  di  tale
 interpretazione  della  Corte  di cassazione, ovviamente obbligatoria
 per il giudice di rinvio,  non  ritiene  di  potervisi  adeguare,  in
 quanto ne deriverebbe un difetto di legittimita' costituzionale della
 norma in esame.
    In  particolare,  l'art. 314, terzo comma, del codice di procedura
 penale, cosi' come interpretato dalla Corte suprema, da  un  lato  si
 appaleserebbe  foriero di regolamentazioni diverse per casi omogenei,
 ancorato come e' al semplice nominalismo  delle  formule  assolutorie
 usate  nelle sentenze di non luogo a procedere, d'altro lato punitivo
 dell'unico soggetto indifeso (lo Stato)  proprio  verso  il  quale  -
 differentemente  da  qualsiasi  altro  soggetto  - verrebbe ad essere
 ritenuta  una  presunzione  di fatti, con conseguente responsabilita'
 risarcitoria.
    Altra  presunzione,  ad  avviso   del   remittente,   non   appare
 ammissibile   da   provvedimento  che  non  sia  sentenza  giudiziale
 irrevocabile, a meno che il legislatore, intendendo porre delle altre
 eccezioni con il comma 3, non ne  spieghi  anche  implicitamente,  ma
 comprensibilmente,   le   ragioni  e  i  fini.  Altrimenti  lo  Stato
 correrebbe il rischio  di  risarcire  anche  in  casi  di  trascurata
 istruzione   o   di   erronea   pronunzia  (risarcimento  per  errore
 giudiziario favorevole all'imputato).
    Da queste considerazioni la Corte d'appello di Bari vede  altresi'
 emergere  una  conflittualita'  di  norme  incomponibile: l'art. 314,
 terzo comma, contro l'autorita' del giudicato  penale,  di  cui  agli
 artt.  da  648  a  654 del codice di procedura penale; lo stesso art.
 314, terzo comma, che, per essere applicato alla lettera,  renderebbe
 vane le condizioni dettate dallo stesso comma primo.
    Mentre non si vedrebbe perche', ai fini esclusivamente civilistici
 del  risarcimento,  la  Corte  di appello, unico ed ultimo giudice di
 merito, non potrebbe rivedere la rispondenza alla realta' della  for-
 mula  assolutoria pronunziata fuori giudizio, al fine di ascrivere il
 caso alla regola di cui al comma primo o secondo dell'art. 314.
    In conclusione, l'art. 314, comma terzo, del codice  di  procedura
 penale, "sia come regolamentazione differente di situazioni omogenee,
 sia  come  privativo di garanzie giudiziali solo a danno dello Stato,
 sia come conflittualita' incomponibile di norme", contrasterebbe  con
 l'art.  3  della  Costituzione, ed anche con l'art. 24, ultimo comma,
 per la difettosa regolamentazione legislativa della riparazione degli
 errori giudiziari, nel senso di fare ascrivere alle distinte  ipotesi
 risarcitorie di cui al primo e al secondo comma dell'art. 314, i casi
 dei soggetti nei cui confronti si e' dichiarato non luogo a procedere
 senza  alcuna  verifica, da parte del giudice del risarcimento, della
 effettiva rispondenza della formula pronunziata ai fatti emersi, e  i
 casi  di  mera  archiviazione,  di  cui pure le ipotesi sono previste
 (artt. 408 e 411 del codice di procedura penale)  e  su  cui  nessuna
 verifica si dispone.
    2.  -  E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
 ministri,  rappresentato  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
 concludendo per l'infondatezza della questione.
    In  particolare  l'Avvocatura  rileva  come non siano ben chiari i
 motivi in base ai quali si dubita della  legittimita'  costituzionale
 della  norma  impugnata.  Ove  la critica sia rivolta alla "illogica"
 equiparazione, ai fini della riparazione, del provvedimento di cui al
 comma 1 (sentenza irrevocabile) ai provvedimenti di cui  al  comma  3
 (archiviazione,   sentenza  di  non  luogo  a  procedere),  la  Corte
 remittente non terrebbe conto che l'istituto  della  riparazione  per
 l'ingiusta  detenzione  impone  in  concreto di estendere l'ambito di
 riparabilita' alla detenzione che, anche senza derivare  da  sentenza
 passata  in  giudicato,  dovesse risultare "non dovuta". Se cosi' non
 fosse si determinerebbe, al contrario di quel che  ritiene  la  Corte
 d'appello di Bari, una disparita' di trattamento in danno di chi, pur
 avendo subito una ingiusta detenzione, non sia rinviato a giudizio.
                        Considerato in diritto
    1. - La Corte di appello di Bari, nel corso di un procedimento per
 la  riparazione  per  ingiusta  detenzione,  ha sollevato, in sede di
 giudizio  di  rinvio,  questione   di   legittimita'   costituzionale
 dell'art.  314,  terzo  comma,  del  codice  di  procedura penale, in
 riferimento agli artt. 3 e 24, ultimo comma, della Costituzione.
    La norma impugnata estende, "alle medesime condizioni" di  cui  ai
 commi  precedenti,  il  diritto  alla  riparazione  per  la  custodia
 cautelare subita alle  persone  nei  cui  confronti  sia  pronunciato
 provvedimento  di  archiviazione  ovvero  sentenza  di  non  luogo  a
 procedere.   Ad   avviso   del   remittente,   detta   norma,   nella
 interpretazione  data  dalla  Corte di cassazione - cui il giudice di
 rinvio e' tenuto ad uniformarsi -, secondo la quale essa preclude  al
 giudice  investito  della richiesta risarcitoria il riesame di merito
 sugli atti al fine di valutare la rispondenza ai fatti della  formula
 adoperata nella sentenza di non luogo a procedere, viola, da un lato,
 l'art. 3 della Costituzione, "sia come regolamentazione differente di
 situazioni omogenee, sia come privativa di garanzie giudiziali solo a
 danno dello Stato, sia come conflittualita' incomponibile di norme" -
 afferma  testualmente  il  giudice a quo -, e, dall'altro, l'art. 24,
 ultimo comma, della  Costituzione  "come  difettosa  regolamentazione
 legislativa per la riparazione degli errori giudiziari".
    2. - La questione non e' fondata.
    L'istituto  della  riparazione dell'ingiusta detenzione - istituto
 di  assoluta  novita'  per  la  nostra  legislazione   -   e'   stato
 disciplinato  negli artt. 314 e 315 del codice di procedura penale in
 attuazione della direttiva n. 100 della legge di  delega  n.  81  del
 1987:  come  si  legge  nella  relazione  al progetto preliminare del
 codice, la  citata  direttiva  imponeva  in  concreto  di  "estendere
 l'ambito   della  riparabilita'  alla  detenzione  che,  anche  senza
 derivare da una sentenza passata in giudicato, dovesse risultare 'non
 dovuta'. L'estensione del diritto alla riparazione alle ipotesi della
 sentenza  di  non  luogo  a  procedere   e   del   provvedimento   di
 archiviazione  e'  stata  disposta, con l'inserimento del terzo comma
 dell'art. 314, in  sede  di  progetto  definitivo  "per  esigenze  di
 coordinamento  sistematico  e  per  colmare  una lacuna del testo del
 Progetto preliminare", "trattandosi in entrambi i casi di  situazioni
 in  cui  puo'  verificarsi  una  ingiusta  sottoposizione  a custodia
 cautelare" (cfr. relazione al testo definitivo). Come esattamente  ha
 osservato  l'Avvocatura  dello  Stato,  in  caso contrario si sarebbe
 evidentemente determinata una irragionevole disparita' di trattamento
 in danno di chi, pur avendo subito una detenzione ingiusta,  non  sia
 stato poi rinviato a giudizio.
    Cio'  posto,  deve  escludersi  che la norma impugnata, cosi' come
 interpretata dalla Corte di cassazione, violi gli invocati  parametri
 costituzionali. In particolare, il fatto che essa precluda al giudice
 competente  sulla  domanda  di riparazione il riesame di merito degli
 atti, al fine di verificare la rispondenza  della  formula  adoperata
 nella  sentenza  di non luogo a procedere ai fatti emersi, certamente
 non lede il principio  di  eguaglianza,  sotto  nessuno  dei  profili
 prospettati dal remittente (con motivazione, peraltro, non sempre del
 tutto chiara ed esauriente).
    Invero,   va   innanzitutto   osservato   che  (a  differenza  del
 provvedimento di archiviazione, per il  quale  in  effetti  e'  stato
 sollevato   qualche   dubbio   interpretativo,  ma  non  comunque  di
 legittimita' costituzionale) nella ipotesi di sentenza di non luogo a
 procedere - l'unica  rilevante  nell'attuale  giudizio  -  si  e'  in
 presenza  di  formule terminative tipicizzate (art. 425 del codice di
 procedura  penale),  in  gran  parte  coincidenti  con  quelle  della
 sentenza  di proscioglimento, per cui la riconducibilita' di ciascuna
 ipotesi alla disciplina di cui  al  primo  ovvero  al  secondo  comma
 dell'art.  314  non da' luogo ad alcun problema applicativo. Inoltre,
 affinche' sorga il diritto alla riparazione, la sentenza di non luogo
 a procedere deve essere  ovviamente  divenuta  "inoppugnabile"  (art.
 315,  primo  comma),  cioe'  non piu' soggetta agli ordinari mezzi di
 impugnazione di cui all'art. 428 del codice di procedura penale.
    L'ordinanza di rimessione sembra essenzialmente fondare le proprie
 censure sulla circostanza che la sentenza di non luogo a procedere, a
 differenza di quella di proscioglimento, pur  divenuta  inoppugnabile
 e'  sempre soggetta alla possibilita' di revoca, ai sensi degli artt.
 434 e seguenti del codice.
    Senonche', da un lato va osservato che la revoca  non  costituisce
 un   ordinario   mezzo  di  impugnazione,  in  quanto  presuppone  il
 sopravvenire o la scoperta di nuove fonti  di  prova;  dall'altro,  e
 soprattutto,  deve  rilevarsi  che  la  Corte  di  cassazione,  nella
 sentenza che ha dato adito  al  giudizio  a  quo,  ha  affermato  che
 l'evento  della  revoca  trova  adeguata  soluzione  nell'ordinamento
 (proprio ai fini cui sembra particolarmente riferirsi il remittente),
 in quanto, come si legge in detta sentenza, se il procedimento per la
 riparazione e' ancora in corso, lo stesso deve  essere  sospeso  fino
 alla  definizione  del  procedimento penale, mentre, qualora la somma
 sia stata  gia'  erogata,  ben  potra'  procedersi  alla  ripetizione
 dell'indebito,   una   volta   intervenuta  una  sentenza  definitiva
 incompatibile con l'istituto in esame.
    Le considerazioni sin  qui  svolte  valgono,  in  conclusione,  ad
 escludere  la  violazione,  da  parte della norma impugnata, non solo
 dell'art. 3 della Costituzione, sotto i vari profili prospettati,  ma
 anche  dell'art.  24,  ultimo comma, in quanto il richiamo effettuato
 dal remittente a quest'ultima norma (la quale, del resto, si limita a
 prescrivere che "la legge determina le condizioni e  i  modi  per  la
 riparazione  degli  errori  giudiziari")  e' sorretto sostanzialmente
 dagli stessi  motivi  addotti  a  sostegno  della  censura  posta  in
 riferimento al principio di eguaglianza.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondata  la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  314,  terzo  comma,  del  codice  di   procedura   penale,
 sollevata,  in  riferimento  agli  artt.  3 e 24, ultimo comma, della
 Costituzione, dalla Corte di  appello  di  Bari  con  l'ordinanza  in
 epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 20 maggio 1992.
                       Il Presidente: BORZELLINO
                          Il redattore: FERRI
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 3 giugno 1992.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
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