N. 368 SENTENZA 9 - 27 luglio 1992

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Atti  e  oggetti  osceni e contrari alla pubblica decenza - Materiale
 pornografico - Commercio - Repressione penale - Buon costume - Comune
 senso del pudore - Richiamo alle sentenze della
 Corte nn. 9/1965, 191/1970 e 487/1989 - Non fondatezza nei sensi  di
 cui in motivazione.
 
 (C.P., art. 528).
 
 (Cost.,  artt.  21,  27,  terzo  comma,  e  c.d. artt. 2, 3, 13 e 25,
 secondo comma).
(GU n.33 del 5-8-1992 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: prof. Giuseppe BORZELLINO;
 Giudici: dott. Francesco GRECO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo
    SPAGNOLI,   prof.   Francesco   Paolo   CASAVOLA,   prof.  Antonio
    BALDASSARRE, avv. Mauro FERRI, prof.  Luigi  MENGONI,  prof.  Enzo
    CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Cesare
    GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI;
 ha pronunciato la seguente
                               SENTENZA
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 528 del codice
 penale, promosso con ordinanza emessa il 5 novembre 1991 dal  Pretore
 di   Macerata,   Sezione   distaccata   di   Civitanova  Marche,  nel
 procedimento penale a carico di Angeletti Ubaldo, iscritta al  n.  14
 del  registro  ordinanze  1992  e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1992;
    Visto l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del  6 maggio 1992 il Giudice
 relatore Antonio Baldassarre.
                           Ritenuto in fatto
    1. - Nel corso di un giudizio penale avverso un imputato del reato
 previsto dall'art. 528 del codice penale per aver  detenuto,  con  il
 fine di farne commercio, videocassette contenenti immagini oscene, il
 Pretore  di  Macerata  -  Sezione  distaccata di Civitanova Marche ha
 sollevato,  con  ordinanza  del  5  novembre   1991,   questione   di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  528  del  codice  penale per
 violazione degli artt. 2, 3, 13, 21, 25,  secondo  comma,  27,  terzo
 comma, della Costituzione.
    Premesso  che  durante  l'udienza  dibattimentale  e'  emerso  che
 l'imputato deteneva videocassette di contenuto osceno,  collocate  in
 un  locale  diverso  e  separato  da  quello di vendita delle normali
 videocassette allo scopo di consegnarle solo a quei  clienti  che  ne
 avessero  fatto  esplicita richiesta, e che, quindi, risulta evidente
 la rilevanza  della  questione  di  costituzionalita'  sollevata,  il
 giudice  a  quo osserva che piu' complesso si rivela il profilo circa
 la "non manifesta infondatezza" della questione stessa.
    Posto che, per costante orientamento della giurisprudenza e  della
 dottrina, il concetto di "buon costume", contenuto nell'art. 21 della
 Costituzione  come limite alla liberta' di manifestazione del proprio
 pensiero, si riferisce soltanto alla sfera sessuale, il giudice a quo
 sostiene che il relativismo  assiologico  espressivo  del  pluralismo
 delle  idee,  tipico  della  democrazia consacrata dalla Costituzione
 italiana, impone una comprensione storico-relativistica del  predetto
 concetto,  per  la quale la repressione penale in tal campo, anziche'
 essere diretta all'affermazione di modelli etici  di  condotta  o  al
 promovimento  di  un miglioramento complessivo del costume sulla base
 di valori assoluti radicati in un'etica precostituita, fatta  propria
 dallo Stato, ha una funzione "conservativa" dei modelli etico-sociali
 esistenti,  fondata  sulla  tolleranza  ideologica e sul rispetto dei
 valori  diffusi  nelle  minoranze.  L'idea  che,  in  relazione  alle
 funzioni  del  bene giuridico, la liberta' personale non possa subire
 limitazioni,  attraverso  l'irrogazione  delle  pene,  in presenza di
 violazioni di beni dotati di minor valore, trova conferma, secondo il
 giudice a quo, nella giurisprudenza della  Corte  Costituzionale,  la
 quale  ha  recentemente affermato che "la Costituzione, nel riservare
 al  legislatore   le   scelte   criminalizzatrici,   impone   criteri
 sostanziali  di  scelta  e  precise direttive di politica criminale",
 facendo proprio "il principio illuministico per il quale il  di  piu'
 di  liberta' soppressa costituisce un abuso", e vincolando, pertanto,
 la discrezionalita'  del  legislatore  penale  all'unico  fine  della
 "assicurazione delle condizioni minime del vivere democratico" (sent.
 n.   487  del  1989).  Sicche',  posto  che  il  potere  punitivo  e'
 giustificato, nella predetta cornice, solo se  tende  a  impedire  la
 commissione  di  fatti  produttivi di danni sociali, il giudice a quo
 osserva  che,  in  coerenza  con  i  ricordati  principi,  sembra  da
 condividersi  l'orientamento secondo il quale il parametro valutativo
 di un  concetto,  quale  il  "buon  costume",  rinviante  a  elementi
 normativi  extragiuridici  dotati  di precaria efficacia descrittiva,
 possa  essere  definito  attraverso  la  configurazione  del  "comune
 sentimento  del pudore", come tutela della liberta' della persona nei
 confronti delle molestie provocate dal  dover  assistere,  contro  la
 propria   volonta',   ad  atti  o  a  rappresentazioni  di  contenuto
 pornografico.
    Se cio' e' vero, continua il giudice a quo, non appare conforme  a
 tali  principi l'art. 528 del codice penale, la' dove punisce la mera
 detenzione di materiale osceno, poiche' questa,  a  differenza  della
 messa in circolazione o della esposizione dello stesso materiale, non
 possiede  una  capacita' offensiva del bene giuridico, costituito, in
 ipotesi, dall'altrui liberta'  sessuale.  E'  ben  vero,  precisa  il
 medesimo pretore, che buona parte della giurisprudenza di merito e la
 Corte di cassazione hanno evidenziato come la detenzione riservata di
 prodotti  pornografici, pur se diretta allo scopo di farne commercio,
 non concreta un'offesa nei confronti dei terzi  contrari  a  fruirne.
 Tuttavia,   osserva  il  giudice  a  quo,  sebbene  il  fine  risulti
 ampiamente  condivisibile,  la   suddetta   interpretazione   propone
 un'operazione  ortopedica,  comportante l'amputazione di elementi del
 contenuto tipico della fattispecie e la  conseguente  violazione  del
 principio    costituzionale   di   tassativita'.   Anziche'   seguire
 l'orientamento "creativo" ora riferito, implicante un vistoso strappo
 sul terreno della tipicita', il giudice a quo, di fronte a una  norma
 (art.  528 c.p.) che punisce la condotta della detenzione, illuminata
 dal dolo specifico, senza fornire alcuna ulteriore indicazione  circa
 le  modalita'  della  stessa, ritiene metodologicamente piu' corretto
 denunciare l'eccesso di  tutela  contenuto  nella  incriminazione  di
 simili  attivita'  preparatorie,  le  quali,  come  tali, non possono
 essere considerate come  dotate  di  effettiva  dannosita'.  Infatti,
 letta per quel che letteralmente dice, la norma impugnata, secondo il
 giudice  a  quo,  si  fonda  su un giudizio di generale pericolosita'
 dell'osceno e, pertanto, punisce il  pericolo  in  astratto  o,  piu'
 precisamente,  il pericolo del pericolo dello scadimento della morale
 a causa della pornografia.
    Cosi' strutturata, la norma incriminatrice, ad avviso del pretore,
 si pone in contrasto con alcuni principi costituzionali:  a)  con  il
 combinato  disposto formato dagli artt. 2, 3, 13 e 25, secondo comma,
 della Costituzione,  in  base  al  quale  il  valore  della  liberta'
 individuale  e  della dignita' umana puo' essere sacrificato mediante
 l'inflizione di una pena soltanto in presenza  della  lesione  di  un
 bene  di  pari valore o comunque ad esso proporzionato; b) con l'art.
 21 della Costituzione, per il fatto che la  concezione  "generica"  o
 "totalizzante"  del buon costume, implicata dalla norma impugnata (la
 quale, peraltro, e' collocata  tra  i  "delitti  contro  la  liberta'
 individuale")  incide  irragionevolmente  sul  diritto di liberta' di
 pensiero e sul diritto alla liberta' morale,  anticipando  la  tutela
 del  buon  costume  stesso a un momento in cui manca qualsiasi offesa
 alla liberta' e manifestando, quindi, una astratta preoccupazione  di
 scadimento morale; c) con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione,
 poiche'  la  funzione  rieducativa  della  pena puo' essere utilmente
 conseguita soltanto in presenza di fattispecie incriminatrici  lesive
 di  beni  giuridici  materialmente  percepibili  dal  trasgressore e,
 pertanto, ben definiti, e non gia' quando il bene tutelato  e'  vago,
 come  nel  caso,  o, peggio ancora, riconducibile a una indeterminata
 morale di Stato.
    2. - Si e' costituito in giudizio il Presidente del Consiglio  dei
 ministri per chiedere che la questione di legittimita' costituzionale
 sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata.
    Ad  avviso dell'Avvocatura dello Stato, inammissibili sarebbero le
 censure  sollevate  in  riferimento  agli  artt.   3   e   21   della
 Costituzione, essendo state gia' oggetto di pronunzie di infondatezza
 di  codesta  Corte  (v. sentt. nn. 93 del 1972, 1063 del 1988), pur a
 voler tacere dell'assoluta genericita' della denunzia prospettata  in
 riferimento all'art. 3 della Costituzione.
    In  ogni  caso, la questione appare manifestamente infondata sotto
 tutti  i  profili,  poiche'  rientra   nella   discrezionalita'   del
 legislatore la valutazione della pericolosita' della condotta (con le
 conseguenti    scelte   incriminatrici)   e,   in   particolare,   la
 determinazione del momento in cui  la  condotta  dell'agente  diventi
 pericolosa  e, percio', incriminabile. Inoltre, le considerazioni del
 pretore  sull'incapacita'  offensiva  del  bene  tutelato,  oltre   a
 rinviare ad acquisizioni concettuali
 tutt'altro   che  maggioritariamente  condivise,  sembrano  incidere,
 piuttosto, sul piano  meramente  interpretativo,  in  relazione  alla
 sfera   di   applicazione   dell'art.  528  del  codice  penale  alla
 particolare ipotesi in questione, ma non conducono a far desumere  un
 contrasto   tra  la  norma  impugnata  e  i  principi  costituzionali
 invocati.
                        Considerato in diritto
    1. - Chiamato a giudicare del titolare di un esercizio di noleggio
 e  vendita  di   materiale   videografico,   accusato   di   detenere
 videocassette  di  contenuto pornografico in violazione dell'art. 528
 del codice penale, nella parte in cui punisce "chiunque,  allo  scopo
 di  farne  commercio  o  distribuzione  ( ..), detiene ( ..) scritti,
 disegni, immagini od altri oggetti osceni di  qualsiasi  specie",  il
 Pretore  di  Macerata  -  Sezione  distaccata  di  Civitanova Marche,
 accertato che le videocassette in oggetto erano collocate in  un  lo-
 cale  separato  da quello destinato alla vendita alla generalita' dei
 clienti, in modo  da  assicurarne  la  cessione  esclusivamente  alla
 clientela  che  ne  avesse fatto richiesta, ha sollevato questione di
 legittimita' costituzionale della predetta  norma  incriminatrice  in
 riferimento  al combinato disposto formato dagli artt. 2, 3, 13 e 25,
 secondo comma, nonche' in riferimento  agli  artt.  21  e  27,  terzo
 comma, della Costituzione.
    Piu' precisamente, il giudice a quo, muovendo dalla considerazione
 che  in  un  sistema democratico il concetto penalistico di buon cos-
 tume,  assunto  dalla  Costituzione  come  limite  alla  liberta'  di
 manifestazione   del   pensiero,   non  puo'  identificarsi  con  una
 determinata dottrina etica, ma deve coniugarsi  con  la  liberta'  di
 ciascuno  in  materia sessuale, ritiene che il "comune sentimento del
 pudore" possa tradursi in norma incriminatrice soltanto nella  misura
 in  cui  la  detenzione  di materiale pornografico comporti un limite
 intollerabile  alla  liberta'  dalle  molestie  provocate  dal  dover
 assistere,  contro  la propria volonta', ad atti o a rappresentazioni
 di contenuto osceno. Sulla base di tale premessa, lo  stesso  giudice
 ritiene  che l'art. 528 del codice penale, nella parte in cui punisce
 qualsiasi forma di detenzione di materiale pornografico  a  scopo  di
 farne  commercio, si ponga in contrasto sia con il combinato disposto
 formato dagli artt. 2, 3, 13 e 25, secondo comma, della  Costituzione
 (per  il fatto di contenere un eccesso di tutela della liberta' della
 persona umana nei confronti di una condotta che soltanto in  determi-
 nate ipotesi puo' considerarsi offensiva del sentimento del pudore di
 chi   non   voglia   assistere   a   rappresentazioni   di  carattere
 pornografico), sia con l'art. 21 della Costituzione (per il fatto  di
 costituire   un   limite  irragionevole  alla  liberta'  di  pensiero
 allorche' estende la protezione del "buon costume" anche  a  condotte
 prive  di  offensivita' sociale rispetto ai valori costituzionalmente
 tutelati con il "buon costume" stesso),  sia  con  l'art.  27,  terzo
 comma,  della  Costituzione  (per  il  fatto  che  non potrebbe darsi
 funzione rieducativa della pena tutte le volte  che  il  trasgressore
 non   possa   percepire   precisamente  quali  beni  giuridici  siano
 effettivamente tutelati dalla norma penale).
    2. - Nei limiti e nei sensi appresso indicati, la questione non e'
 fondata.
    Premesso che, nei termini in cui sono state proposte dal giudice a
 quo,  le  questioni  di  legittimita'  costituzionale  sollevate  con
 l'ordinanza  indicata  in  epigrafe  non hanno prima d'ora costituito
 oggetto di giudizi di costituzionalita', occorre precisare che, sotto
 il profilo logico, e' pregiudiziale  l'esame  della  consistenza  del
 valore  del  "buon costume", che l'art. 21 della Costituzione prevede
 come  limite  rispetto  al   diritto   fondamentale,   di   carattere
 inviolabile,  concernente  la  liberta'  di  ognuno di manifestare il
 pensiero.
    Sin dalla sentenza n. 9 del  1965,  questa  Corte  ha  chiaramente
 affermato  che "il buon costume risulta da un insieme di precetti che
 impongono  un  determinato  comportamento  nella  vita   sociale   di
 relazione,  l'inosservanza  dei  quali  comporta  in  particolare  la
 violazione del pudore sessuale, sia fuori sia soprattutto nell'ambito
 della famiglia, della dignita' personale che con esso si congiunge, e
 del sentimento morale dei giovani, ed apre la via  al  contrario  del
 buon  costume,  al  mal  costume  e,  come e' stato anche detto, puo'
 comportare la perversione dei costumi, il prevalere, cioe', di regole
 e di comportamenti contrari ed opposti". Successivamente,  la  stessa
 Corte   ha  pure  affermato  che,  rientrando  tra  i  concetti  "non
 suscettibili di una categorica definizione",  il  "buon  costume"  e'
 dotato  di  una  relativita'  storica,  dovuta  al  fatto  che "varia
 notevolmente,  secondo  le  condizioni  storiche  d'ambiente   e   di
 cultura".  Ma  tale relativita', ha precisato la Corte, non impedisce
 che il suo significato  sia  sufficientemente  determinato,  poiche',
 trattandosi  di  un concetto diffuso e generalmente compreso, in base
 ad esso e' ragionevolmente possibile che, in un  determinato  momento
 storico,  si  sia  "in  grado di valutare quali comportamenti debbano
 considerarsi osceni secondo il comune senso del pudore, nel  tempo  e
 nelle  circostanze  in  cui  essi si realizzano" (v. sent. n. 191 del
 1970). Oltre a cio',  occorre  tener  presente  che,  soprattutto  in
 relazione  a concetti di tale natura, l'interprete della Costituzione
 - insieme al legislatore in sede di attuazione del bilanciamento  dei
 valori  costituzionali  attraverso  le proprie scelte discrezionali -
 deve attenersi all'imprescindibile criterio ermeneutico secondo  cui,
 poiche'  "la  Carta fondamentale accoglie e sottolinea il principio (
 ..) per il quale il di piu' di liberta' soppressa costituisce abuso",
 ne consegue che si puo' "limitare la liberta'  solo  per  quel  tanto
 strettamente  necessario  a  garantirla"  (v.  spec. sent. n. 487 del
 1989).
   Considerato che  si  tratta  di  un  limite  che  l'art.  21  della
 Costituzione  contrappone  alla  liberta'  dei  singoli individui, il
 "buon costume", contrariamente a quel che sembra supporre il  giudice
 a  quo,  non  e'  diretto  ad  esprimere  semplicemente  un valore di
 liberta' individuale o, piu' precisamente, non e' soltanto rivolto  a
 connotare  un'esigenza  di  mera  convivenza  fra le liberta' di piu'
 individui,  ma  e',  piuttosto,  diretto  a  significare  un   valore
 riferibile  alla  collettivita'  in generale, nel senso che denota le
 condizioni essenziali che, in relazione ai contenuti  morali  e  alle
 modalita'  di  espressione  del  costume  sessuale  in un determinato
 momento  storico,  siano  indispensabili  per  assicurare,  sotto  il
 profilo  considerato,  una  convivenza  sociale  conforme ai principi
 costituzionali inviolabili della tutela della dignita'  umana  e  del
 rispetto reciproco tra le persone (art. 2 della Costituzione).
    Cio'  significa,  come ha precisato la piu' recente giurisprudenza
 di    legittimita',    che    "l'osceno     attinge     il     limite
 dell'antigiuridicita'  penale,  quindi  della sua stessa punibilita',
 solo  quando  sia  destinato  a  raggiungere  la   percezione   della
 collettivita',  il  cui  sentimento  del pudore puo' solo in tal modo
 essere posto in pericolo o subire  offesa".  In  altri  termini,  per
 riprendere  ancora  i  concetti  espressi  dallo  stesso  giudice, la
 contrarieta' al sentimento del pudore non dipende  dall'oscenita'  di
 atti  o  di  oggetti  in  se'  considerata,  ma  dall'offesa che puo'
 derivarne al pudore sessuale, considerato il contesto e le  modalita'
 in  cui quegli atti e quegli oggetti sono compiuti o esposti: sicche'
 non puo' riconoscersi tale capacita' offensiva ad atti o  ad  oggetti
 che,  pur  avendo  in se' un significato osceno, si esauriscono nella
 sfera privata e non costituiscono oggetto di comunicazione  verso  un
 numero  indeterminato  di persone ovvero sono destinati a raggiungere
 gli altri soggetti con  modalita'  e  cautele  particolari,  tali  da
 assicurare  la necessaria riservatezza e da prevenire ragionevolmente
 il pericolo  di  offesa  al  sentimento  del  pudore  dei  terzi  non
 consenzienti o della collettivita' in generale.
    3. - Se, dunque, la "pubblicita'" - intesa come reale o potenziale
 percezione  da  parte  della  collettivita',  o comunque di terzi non
 consenzienti, del messaggio trasmesso per mezzo di scritti,  disegni,
 immagini   o  rappresentazioni  -  si  configura  come  un  requisito
 essenziale della nozione del "buon costume", considerato quale limite
 costituzionale al diritto fondamentale di libera  manifestazione  del
 proprio pensiero, non v'e' dubbio che da cio' derivi un vincolo anche
 per  chi  sia chiamato a interpretare le leggi ordinarie attuative di
 quel  valore  costituzionale,  nel  senso  che  questi  e'  tenuto  a
 determinarne  il  significato adeguandone il senso ai principi appena
 ricordati. Sicche' il giudice che si  trovi  ad  applicare  la  norma
 contenuta nell'art. 528 del codice penale, la quale punisce chiunque,
 allo  scopo  di  farne  commercio  o  distribuzione, detiene scritti,
 disegni, immagini od altri oggetti osceni di qualsiasi  specie,  deve
 aver  presente,  come  ha  precisamente  avvertito  la  piu'  recente
 giurisprudenza  di  legittimita',  che  la   misura   di   illiceita'
 dell'osceno  e'  data  dalla  capacita' offensiva di questo verso gli
 altri, considerata in relazione alle modalita' di espressione e  alle
 circostanze in cui l'osceno e' manifestato. E tale capacita', come ha
 precisato  lo  stesso  giudice,  non  puo'  certo  riscontrarsi nelle
 ipotesi in  cui  l'accesso  alle  immagini  o  alle  rappresentazioni
 pornografiche  non sia indiscriminatamente aperto al pubblico, ma sia
 riservato soltanto alle persone adulte che ne facciano richiesta.
    Ne' si puo' sostenere, come ha fatto il  pretore  rimettente,  che
 rispetto  a tale interpretazione "adeguatrice" sia preferibile, sotto
 il profilo dell'osservanza dei precetti costituzionali, una pronuncia
 di accoglimento. Questa Corte ha,  infatti,  costantemente  affermato
 che  il  principio di conservazione dei valori giuridici - tanto piu'
 in casi  in  cui  la  dichiarazione  d'illegittimita'  costituzionale
 comporterebbe,  quantomeno  per  qualche  tempo, l'impunita' anche di
 comportamenti che il legislatore  considera  inequivocabilmente  come
 illeciti  penali  -  impone  il  mantenimento in vita di una norma di
 legge quando a questa possa essere riconosciuto almeno un significato
 conforme a Costituzione (v. ad esempio, ordd. nn. 279, 356 e 362  del
 1990;  sent.  n.  559  del  1990).  La  soluzione contraria si impone
 soltanto nelle ipotesi in cui il tentativo di adeguare il significato
 di norme incriminatrici ai precetti costituzionali dia  luogo  a  una
 vaghezza  e  indeterminatezza  tali  da impedire logicamente di poter
 discernere il confine fra il  lecito  e  l'illecito  penale  (v.,  ad
 esempio, sent. n. 120 del 1968). Ma questo non e' sicuramente il caso
 offerto dalla questione di costituzionalita' in discussione.
    4.  -  Le  suesposte  considerazioni  fanno  venir  meno  anche il
 presupposto interpretativo sul quale si basano  le  restanti  censure
 sollevate  dal giudice a quo. Le relative questioni devono, pertanto,
 considerarsi assorbite.
                           PER QUESTI MOTIVI
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni
 di legittimita' costituzionale sollevate, con l'ordinanza indicata in
 epigrafe, dal Pretore di Macerata - Sezione distaccata di  Civitanova
 Marche, nei confronti dell'art. 528 del codice penale, nella parte in
 cui  punisce chiunque, allo scopo di farne commercio o distribuzione,
 detiene  scritti,  disegni,  immagini  od  altri  oggetti  osceni  di
 qualsiasi  specie,  per violazione dell'art.  21, dell'art. 27, terzo
 comma, nonche' del combinato disposto formato dagli artt. 2, 3, 13  e
 25, secondo comma, della Costituzione.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 9 luglio 1992.
                       Il Presidente: BORZELLINO
                       Il redattore: BALDASSARRE
                       Il cancelliere: DI PAOLA
    Depositata in cancelleria il 27 luglio 1992.
               Il direttore della cancelleria: DI PAOLA
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