N. 510 ORDINANZA (Atto di promovimento) 25 maggio 1992
N. 510 Ordinanza emessa il 14 aprile 1989 e il 25 maggio 1992 dal pretore di Bologna nel procedimento civile vertente tra Pedrielli Tiziano e Mac Due S.r.l. Lavoro (tutela del) - Lavoratori dipendenti dalle piccole imprese (occupanti meno di quindici dipendenti per singola unita' produttiva o meno di trentacinque dipendenti complessivamente) - Licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo - Omessa previsione di qualsiasi forma di tutela - Ingiustificata disparita' di trattamento a seconda dell'elemento dimensionale dell'impresa - Violazione del principio secondo cui lo Stato tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni - Questione gia' decisa con l'ordinanza n. 575/1990 di restituzione atti per ius superveniens (legge 11 maggio 1990, n. 108) e riproposta dal giudice rimettente sul presupposto del permanere della rilevanza. (Legge 15 luglio 1966, n. 604, art. 11). (Cost., artt. 3 e 35).(GU n.40 del 23-9-1992 )
IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza. Vista l'ordinanza n. 575, in data 12-28 dicembre 1990, della Corte costituzionale, che disponeve la restituzione degli atti a questo pretore per il riesame, in relazione all'intervenuta abrogazione della norma oggetto di dubbio di legittimita', riesaminati gli atti e documenti di causa; Sentiti in contraddittorio i difensori delle parti dell'udienza, appositamente fissata, del 19 maggio 1992; Esaminate le modifiche intervenute nella legislazione con la nuova legge 11 maggio 1990, n. 108, sia per il disposto delle singole norme, sia a livello di ricostruzione dei principi generali, e, piu' ampiamente, per le ripercussioni sull'intero sistema; O S S E R V A 1. - Va premesso in linea di principio che possono essere oggetto di sindacato di costituzionalita', come del resto e' avvenuto sistematicamente nella giurisprudenza di codesta Corte costituzionale, anche norme non piu' in vigore, ma tuttora rilevanti per la risoluzione delle singole controversie di merito: vale ricordare in proposito, per tutte, la sentenza 27 gennaio 1959, n. 4, ove viene affermato espressamente che "in via astratta non puo' escludersi l'ammissibilita' di una questione di legittimita' costituzionale, in ordine ad una norma di cui sia stata dichiarata l'abrogazione, potendo permanere situazioni tali la cui rilevanza sul piano costituzionale giustifichi la proponibilita' del giudizio". 2. - Il licenziamento oggetto della causa di merito e' stato intimato dalla societa' Mac Due S.r.l., senza una specifica motivazione, al dipendente Pedrielli Tiziano con raccomandata in data 29 settembre 1989, cioe' in un'epoca nella quale era pienamente e sicuramente in vigore la norma oggetto della denunzia di incostituzionalita', e che consentiva, nelle strutture in cui erano occupati meno di trentacinque dipendenti, di procedere a licenziamenti senza motivazione. 3. - L'assetto legislativo in materia di licenziamenti individuali e' stato modificato con l'entrata in vigore della legge 11 maggio 1990, n. 108, che, per quanto interessa specificamente in questa sede, all'art. 6 ha abrogato la norma oggetto della denunzia di incostituzionalita', vale a dire il primo comma dell'art. 11 della legge 15 luglio 1966, n. 604. 4. - La nuova legge n. 108/1990 e' entrata in vigore in epoca successiva al fatto materiale del licenziamento intimato con raccomandata del 29 settembre 1989 ed oggetto del giudizio di merito. 5. - Prescindendo in questa sede da ogni problematica sui limiti entro i quali una legge puo' essere retroattiva, o anche solo interpretativa, appare certo che la retroattivita' di una norma, oppure la sua funzione interpretativa rispetto a norme preesistenti, costituiscano fenomeni eccezionali e debbano essere manifeste; come infatti dispone l'art. 11, primo comma, delle disposizioni sulla legge in generale "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha efficacia retroattiva". 6. - La stessa legge n. 108/1990 non ha carattere retroattivo, ne' carattere interpretativo rispetto alla normativa preesistente; non solo non e' espressamente ne' retroattiva ne' interpretativa, ma non lo e' neppure implicitamente. 7. - E' anzi, espressamente, modificativa della normativa preesistente, e percio' sembra potersi escludere un suo riflesso anche soltanto sull'interpretazione di tale normativa preesistente, come pure a livello di ricostruzione dei principi generali dell'assetto generale del sistema. 8. - Va percio' escluso che la normativa successiva possa incidere in qualsiasi modo sulla valutazione del fatto materiale oggetto del giudizio di merito, vale a dire sul licenziamento irrogato in data 29 settembre 1989 al ricorrente Pedrielli Tiziano. 9. - Questo presupposto di fatto non puo' essere valutato e deciso se non sulla base della legislazione vigente in quel momento (tranne che, naturalmente, ne venga dichiarata l'illegittimita' costituzionale, in parte qua, da codesta onorevole Corte costituzionale). 10. - Si deve ritenere che pertanto che la questione di legittimita' costituzionale, sollevata con ordinanza in data 14 aprile 1990, sia tuttora attuale in quanto tuttora il giudizio di merito non puo' essere deciso indipendentemente dalla risoluzione della questione di costituzionalita' stessa, che assume carattere pregiudiziale. 11. - Permane pertanto quel requisito di "rilevanza" richiesto dall'art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87. 12. - Percio' questo pretore non puo' che confermare integralmente l'eccezione di legittimita' costituzionale, sollevata con ordinanza in data 14 aprile 1990, dell'art. 11 della legge 15 luglio 1966, nella parte in cui escludeva dall'applicazione della legge stessa i datori di lavoro che occupavano fino a trentacinque dipendenti, per contrasto con l'art. 3, primo e secondo comma, e con l'art. 35, primo comma, della Costituzione. 13. - Per quato attiene al merito sostanziale della questione sollevata, il pretore di riporta alle argomentazioni svolte nella stessa gia' ordinanza 14 aprile 1989, che conferma, anche esse, nella loro interezza. P. Q. M. Ritenuta tuttora attuale e pregiudiziale alla decisione del giudizio di merito, conferma integralmente l'eccezione di legittimita' costituzionale, sollevata con ordinanza in data 14 aprile 1990, dell'art. 11 della legge 15 luglio 1966, nella parte in cui escludeva dall'applicazione della legge stessa i datori di lavoro che occupavano fino a trentacinque dipendenti, per contrasto con l'art. 3, primo e secondo comma e con l'art. 35, primo comma, della Costituzione. Bologna, addi' 25 maggio 1992 Il pretore: MONACI ----- 1. - Con ricorso depositato in cancelleria il 25 novembre 1989 il ricorrente Pedrielli Tiziano conveniva in giudizio la societa' Mac Due S.r.l., della quale era stato dipendente, chiedendo che fosse dichiarato illegittimo ed ingiustificato il licenziamento intimatogli con raccomandata 29 settembre 1989, e che la societa' convenuta fosse dichiarata tenuta e condannata, visto l'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, a riassumerlo a corrispondergli una somma pari a 12 mensilita' dell'ultima retribuzione. A tal fine il ricorrente chiedeva che previamente fosse dichiarata la non manifesta infondatezza dell'eccezione di legittimita' costituzionale dell'art. 11 della legge 15 luglio 1966, n. 604, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui limitava l'applicazione della normativa protettiva ai dipendenti da datori di lavoro che contino almeno 35 dipendenti, e non estendeva la tutela ad ogni lavoratore, con conseguente remissione degli atti alla Corte costituzionale. In linea di fatto il ricorrente premetteva che la Mac Due era una ditta del settore industriale con dodici dipendenti, e che lo aveva assunto a far data dal 26 giugno 1989 senza previsione di alcun periodo di prova. Successivamente, appunto con raccomandata 29 settembre 1989, la ditta gli aveva comunicato il suo recesso, con preavviso, dal rapporto di lavoro. Il licenziamento era stato impugnato tramite l'organizzazione sindacale di categoria, e la ditta aveva risposto che il dipendente era stato licenziato in quanto non si era inserito nel lavoro perche' non idoneo; aveva anzi allontanato il dipedendente dal posto di lavoro prima che fosse terminato il periodo di prova. Tanto premesso, il ricorrente affermava la propria intenzione di ottenere un sindacato giurisdizionale sui motivi del licenziamento, che affermava illegittimo, ed il risarcimento dei danni per la sua illegittimita'. Sostenva in proposito che questo risarcimento non poteva trovare ostacolo nell'art. 11 della legge 15 luglio 1966, n. 604, di cui denunziava appunto l'incostituzionalita' proponendo la relativa eccezione. Si costituiva in giudizio la convenuta societa' Mac Due S.r.l., opponendosi alla domanda. Sosteneva che si era trattato di un licenziamento ad nutum, e che la norma che lo consentiva ad imprenditori di modeste dimensioni, quali appunto la convenuta, doveva ritenersi pienamente legittima, mentre doveva ritenersi infondata l'eccezione di incostituzionalita' proposta dalla controparte. Sosteneva inoltre che l'eccezione era irrilevante sia perche' il licenziamento era stato impugnato nei termini da un soggetto (Fim, Fiom, Uilm) che non era tecnicamente una organizzazione sindacale, sia perche, mancava la prova della preventiva iscrizione del Pedrielli ad una delle tre organizzazioni sindacali. La convenuta societa' Mac Due chiedeva pertanto respingersi il ricorso, previa declaratoria di manifesta infondatezza e comunque di inammissibilita' ed improponibilita', anche sotto il profilo della rilevanza, della questione di costituzionalita'. In via subordinata, per l'ipotesi che la norma impugnata fosse stata riconosciuta illegittima dalla Corte costituzionale, chiedeva di dimostrare testimonialmente che il licenziamento era legittimo in quanto il ricorrente non si sarebbe inserito nell'organizzazione del lavoro nonostante gli insegnamenti impartitigli. All'udienza il pretore impostava tentativo di conciliazione che non dava esito positivo. Invitava allora i procuratori delle parti a discutere la questione preliminare attinente alla proposta eccezione di illegittimita' costituzionale, ed al termine di tale discussione tratteneva la causa in riserva. 2. - Poiche' e' stata ipotizzata una fattispecie di illegittimita' costituzionale, deve essere esaminato in questa sede se sussistono i due requisiti, necessari per sottoporla alla Corte costituzionale, della non manifesta infondatezza e della rilevanza in causa. Considerazioni di razionalita' di metodo impongono di verificare innanzi tutto la rilevanza della questione ai fini della soluzione della causa. E' stata ipotizzata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 11 della legge 15 luglio 1966, n. 604, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione nella parte in cui limita l'applicazione della legge stessa ai lavoratori dipendenti da imprese che contino almeno trentacinque dipendenti. Nel caso di specie entrambe le parti concordano nelle loro difese processuali nel senso che quello intimato dalla Mac Due al Pedrielli sarebbe un licenziamento ad nutum, un recesso ai sensi dell'art. 2118 del c.c. da un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Il giudice non puo' che prendere atto delle affermazioni, sostanzialmente concordi, delle parti in questo senso e considerarlo un dato acquisito ai fini del presente giudizio, ancorche', per la verita', la difesa dell'azienda nella fase stragiudiziale ipotizzi piuttosto un licenziamento per giusta causa soggettiva (del prestatore) consistita in un asserito scarso rendimento lavorativo. Difatti di fronte all'impugnativa del licenziamento da parte del sindacato, e, soprattutto, alla richiesta, da parte del sindacato stesso dei motivi del licenziamento (con raccomandata 11 ottobre 1989, agli atti di parte ricorrente, doc. n. 5), la ditta convenuta non si e' limitata ad affermare un proprio diritto di licenziare senza dare spiegazioni, ma ha risposto che il lavoratore, nonostante tutti gli sforzi di istruirlo, non si era inserito nel lavoro perche' non idoneo (cfr. raccomandata 16 ottobre 1989, agli atti di parte ricorrente, doc. n. 6). Questa problematica di fatto non esclude la rilevanza della questione di costituzionalita' ipotizzata, in quanto la situazione legislativa in atto con il mantenimento della norma di cui si lamenta l'asserita illegittimita' costituzionale non potrebbe che condurre alla reiezione della domanda del ricorrente, mentre soltanto l'eliminazione dal contesto normativo di questa norma potrebbe comportare l'analisi in fatto della fattispecie, e, pertanto, la verifica della validita' e della sufficienza delle motivazioni posta dalla ditta alla base del licenziamento e riportate appunto nella lettera del 16 ottobre 1989. Sotto un altro profilo non rilevano, nel senso che non appaiono risolutive della causa prima ed indipendentemente dalla questione di costituzionalita', le due eccezioni proposte da parte convenuta in ordine alle modalita' di impugnazione del licenziamento. Come e' noto infatti, un licenziamento puo' essere impugnato anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale (art. 6, primo comma, della legge n. 604/1966); questo termine di "organizzazione sindacale", dato il fine della norma, non va inteso in senso ristretto, ma piuttosto in senso ampio, ricomprendendovi non solo le organizzazioni sindacali singole, ma anche quelle associate tra di loro, come la "triplice" sindacale Fim-Cisl Fiom-Cgil e Uilm-Uil. Ed e' stata appunto questa "triplice" sindacale ad impugnare, con raccomandata 3 ottobre 1989 (agli atti del ricorrente, doc. n. 3) il licenziamento intimato al Pedrielli il 29 settembre 1989. Del resto, successivamente, a breve distanza di tempo, e comunque all'interno del termine di sessanta giorni di decadenza dall'impugnazione, l'impugnazione stessa e' stata ribadita dalla CGIL con raccomandata 11 ottobre 1989 (agli atti di parte ricorrente doc. n. 5). Ne' occorre, per la validita' dell'impugantiva da parte sindacale, che sia dimostrata preventivamente l'iscrizione del lavoratore al sindacato impugnante; la legge non lo richiede e, d'altra parte, il lavoratore puo' rilasciare al sindacato, a questi fini, un mandato anche orale. Non va dimenticato che l'impugnativa di un licenziamento deve essere fatta necessariamente per iscritto (art. 6, primo comma, della legge n. 604/1966), e che deve essere data possibilita' di effettuarla senza eccessive formalita' e soverchie difficolta' anche ai lavoratori analfabeti: di qui appunto la necessaria ammissibilita' di un mandato orale al sindacato da parte di un lavoratore per impugnare un licenziamento. L'esistenza di questo mandato orale, ed in genere l'adesione del lavoratore al sindacato (anche al di la' del fatto formale dell'iscrizione) possono del resto desumersi anche da comportamenti concludenti, ed in particolare dal fatto stesso che, e' avvenuto nel caso di specie, un sindacato impugni il licenziamento di lavoratore, e successivamente l'interessato faccia propria e coltivi tale impugnazione, esperendo un giudizio diretto all'annullamento del licenziamento. Percio' le eccezioni proposte in proposito dalla Mac Due non appaioni risolutive della causa. Quest'ultima in realta' non puo' essere decisa indipendentemente dall'applicazione della norma controversa che appare cosi' sicuramente rilevante, ed anzi decisiva, ai fini della decisione della causa. 3. - Occorre a questo punto verificare la sussistenza o meno dell'altro requisito, quello della non manifesta infondatezza dell'eccezione. Va rilevato innanzi tutto che nel nostro ordinamento coesistono attualmente due diverse normative che pongono dei vincoli al potere di recesso del datore di lavoro dai rapporti di lavoro a tempo indeterminato, e che entrambe fanno riferimento, per la loro applicazione, all'entita' dimensionale dell'impresa, calcolata diversamente, ma sempre con riferimento al numero degli addetti. Soprattutto diversa e' la tutela assicurata dai due sistemi normativi concorrenti. Brevemente, e limitando l'analisi a quanto puo' rilevare in questa sede, la legge n. 604/1966, che "non si applica ai datori di lavoro che occupano fino a trentacinque dipendenti" (art. 11), prevede, per il caso di riconosciuta illegittimita' del licenziamento, una duplice obbligazione, a sua scelta, a carico del datore, che "e' tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni, o in mancanza, a risarcire il danno versando una indennita' da un minimo di cinque ad un massimo di dodici mensilita' dell'ultima retribuzione" (art. 8). In altri termini il datore di lavoro che abbia posto in essere un licenziamento illegittimo e' tenuto, in via pricnipale, a riassumere il lavoratore, ma non puo' essere obbligato a farlo, ed anzi si puo' liberare dall'obbligazione principale soddisfacendo l'obbligazione sostitutiva (che invece e' suscettibile di esecuzione forzata) del pagamento di una somma di denaro come indennizzo. E' il sistema della cosidetta "stabilita' obbligatoria". Invece con la legge n. 300/1970, che si applica alle imprese industriali e commerciali, che occupano piu' di quindici dipendenti in "ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo", oppure "nell'ambito dello stesso comune", nonche' alle imprese agricole che nelle stesse condizioni occupano piu' di cinque dipendenti (art. 35, primo e secondo comma), e' stato introdotto il sistema della cosidetta "stabilita' reale", in base al quale, in caso di riconosciuta illegittimita' di un licenziamento, il datore di lavoro e' tenuto sia al risarcimento del danno, in una cifra calcolata in un certo numero di mensilita' dell'ultima retribuzione, sia alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, e non si puo' liberare da quest'ultima obbligazione con il semplice pagamento di una somma di denaro, tanto e' vero che il lavoratore ha diritto alla retribuzione maturata nell'eventuale periodo intermedio tra la sentenza che ordina la reintegrazione e la reintegrazione medesima. Il ricorrente ha sviluppato l'eccezione di illegittimita' costituzionale soltanto con riferimento ad una di queste normative, quella della stabilita' obbligatoria, trascurando quello della stabilita' reale. In realta' la coesistenza dei due complessi normativi pone innanzi tutto due problemi da risolvere preliminarmente. In primo luogo, poiche' - evidentemente - puo' essere oggetto di eventuale giudizio di illegittimita' costituzionale soltanto una norma in vigore, e non una norma gia' abrogata nel momento in cui si e' verificata la fattispecie concreto oggetto di esame, occorre verificare se la norma impugnata, cioe' l'art. 11 della legge n. 604/1966, ed in genere tutto il sistema di stabilita' obbligatoria disegnato da questa legge, siano sopravvissuti, anche nella parte in cui non sono richiamati, espressamente o implicitamente, dalla legge n. 300/1970, al nuovo sistema di stabilita' reale introdotto con tale legge, o debbano invece ritenersi abrogati dalla nuova normativa per incompatibilita', o perche' comunque quest'ultima regola diversamente l'intera materia (cfr. art. 15 delle preleggi). In altri termini, bisogna verificare se pur dopo l'introduzione, con l'art. 18 della legge n. 300/1970, del rimedio della stabilita' reale siano residuate ipotesi di applicazione del rimedio della stabilita' obbligatoria, di cui alla legge n. 604/1966. Occorre stabilire inoltre se un'eventuale eccezione di legittimita' costituzionale in ordine al sistema della stabilita' obbligatoria, o piu' esattamente, ai limiti dimensionali, riferiti al datore di lavoro, che ne condizionano l'applicabilita', debba necessariamente ed inevitabilmente coinvolgere anche il sistema della stabilita' re- ale, o, piu' esattamente, i limiti dimensionali, riferiti al datore di lavoro, che condizionano l'applicabilita' anche di questa forma di tutela. Al primo di questi due quesiti deve darsi risposta positiva. La normativa della legge n. 604/1966 nel suo complesso, ed in particolare, per quanto qui interessa, l'art. 11 la' dove fissa i limiti dimensionali delle imprese come criterio di applicazione della tutela, non possono considerarsi abrogati e risultano tuttora in vigore. Sussiste infatti un'area, sia pure relativamente limitata, di applicazione della sola legge del 1966, e non dell'art. 18 della legge n. 300/1970, della sola tutela obbligatoria e non di quella re- ale, tutte le volte in cui l'impresa datrice di lavori occupi nel complesso piu' di trentacinque dipendenti (e rientri cosi' nella previsione dell'art. 11 della legge n. 604/1966), ma non ne occupi almeno quindici, se industriale o commerciale, oppure cinque, se si tratti di un'impresa agricola, in quella stessa sede, stabilimento, filiale, ufficio e reparto autonomo, oppure nello stesso comune, in cui e' impiegato il lavoratore (e non rientri cioe' nella previsione dei primi due commi dell'art. 35 della legge n. 300/1970). In altri termini la norma qui contestata, ed, in genere, il sistema della stabilita' obbligatoria, e' rimasta in vigore per le imprese di dimensioni non ampie, ma neppure ridotte, che siano dis- perse sul territorio senza costituire nuclei di qualche consistenza, o, meglio, la' dove esse non costituiscono nuclei di apprezzabile consistenza. Inoltre, poiche' l'art. 35 della legge n. 300/1970 sembra delimitare positivamente l'ambito di applicazione delle norme di cui al precedente art. 18 e del titolo terzo, ed anche l'art. 37 fa riferimento specifico, in questo caso per l'applicazione dell'intera legge, ad alcune categorie di soggetti (gli enti pubblici economici ed in genere gli enti pubblici per i quali la materia non sia regolata diversamente), si deve ritenere, per esclusione, che il predetto art. 18, fondamento del principio della stabilita' reale, non si applichi ai datori di lavoro non contemplati ne' dall'art. 35 ne' dall'art. 37, a quelli cioe' che non siano ne' imprese ne' enti pubblici. A quest'ultima categoria residuale di datori di lavoro non si applica quindi il principio della stabilita' reale, ma si applica invece quello della stabilita' obbligatoria qualora occupino piu' di trentacinque dipendenti e rientrino cosi' nella previsione dell'art. 11 della legge n. 604/1966, che non pone distinzioni in proposito tra differenti categorie di datori di lavoro. Pertanto, per quanto qui interessa, la norma in esame deve ritenersi tuttora in vigore. 4. - Al secondo quesito deve darsi invece risposta negativa. E' vero che le argomentazioni svolte dalla difesa del ricorrente partono da due esigenze, quella dell'uguaglianza di posizione tra i lavoratori indipendentemente dalle dimensioni dell'impresa in cui lavorano e quella di un controllo giurisdizionale sui licenziamenti, che sembrano postulare l'eliminazione di qualsiasi limite frapposto al loro operare, e percio' sia a quelli che si oppongono alla tutela meramente obbligatoria sia a quelli che si oppongono alla tutela re- ale. Cio' non di meno, le due fattispecie normative non possono porsi su di uno stesso piano, non solo perche', come e' evidente, e' diversa la loro efficacia a tutela dei diritti del lavoratore, ma anche perche', correlativamente, e' diverso il loro impatto sulla realta' aziendale. In particolare la tutela obbligatoria pur comportando un vincolo economico destinato ad indurre il datore di lavoro alla riassunzione del lavoratore, non rende obbligatoria tale riassunzione e percio' non incide in senso proprio sulla liberta' dal datore di lavoro e sull'organizzazione dell'impresa. Evidentemente quanto piu' un'impresa e' grande tanto piu' e' spersonalizzata, e puo' pertanto assorbire senza contraccolpi rilevanti anche un ordine di reintegrazione imposto dall'esterno. In un'impresa di dimensioni ridotte o ridottissime invece i rapporti rimangono essenzialmente personali, e permeati spesso da un elemento fiduciario, e pertanto la reintegrazione forzata di un lavoratore licenziato, se amplia la liberta' del prestatore comprime quella del datore di lavoro. In realta' alle esigenze poste alla base della richiesta di tutela dei lavoratori dai licenziamenti arbitrari si contrappongono in questo caso altre esigenze, proprie delle piccole imprese, che sembrano pure non irragionevoli, e che sono state valutate come tali dal legislatore, come quella di non incidere sul vincolo fiduciario che normalmente intercorre tra datore e prestatore all'interno di un ambiente ristretto, e quella di prevenire tensioni difficilmente riassorbibili pure in un ambiente di lavoro ristretto, nel quale datore e prestatore lavorino a contatto diretto: e' di tutta evidenza a questo proposito come in un'impresa di dimensioni non ridotte vi sia un certo margine di manovra, che manca invece nell'impresa di dimensioni modeste, per evitare, con opportuni spostamenti, e pur nel rispetto di un ordine di reintegrazione, frizioni eccessive. Sotto questi profili dell'esistenza di un rapporto fiduciario tra prestatore e datore, e della necessita' di evitare tensioni in un ambiente lavorativo ristretto, la posizione dei lavoratori dipendenti da una piccola impresa e la loro conseguente esclusione dal beneficio della stabilita' reale appaiono sostanzialmente assimilabili a quelle dei dirigenti, che come e' noto, sono esclusi dall'applicazione sia della legge del 1966 che dell'art. 18 della legge n. 300/1970, ma nei cui confronti opera (quanto meno a favore dei dirigenti di impresa industriali) una forma di tutela, introdotta dalla contrattazione collettiva, contro i licenziamenti non giustificati, assai simile alla stabilita' obbligatoria della legge del 1966, e che risulta in concreto assai onerosa per le imprese. In realta' la reintegrazione di un lavoratore in un'impresa media o grande, sostanzialmente spersonalizzata, ed una reintegrazione invece in un'impresa di dimensioni ridotte o ridottissime, nella quale l'elemento personale, ed i rapporti interpersonali, rimangono ancora fondamentali, assumono caratteri sensibilmente diversi, e non appare corretto assimilarle semplicemente senza tener conto di queste differenze. Percio' il sistema della stabilita' obbligatoria e quello della stabilita' reale non possono in realta' essere posti sullo stesso piano ai fini di una eventuale valutazione di non manifesta infondatezza dei limiti dimensionali che ne regolano l'applicazione: il fatto che la stabilita' reale incida in maniera diretta sulla liberta' delle imprese, e percio' sulla liberta', non soltanto economica, degli imprenditori, integra un elemento discriminante che sembra idoneo a configurare diversamente l'apposizione di limiti dimensionali all'operare del sistema della stabilita' reale rispetto a quella prevista invece per la semplice stabilita' obbligatoria. Se ne deve concludere che l'eventuale non manifesta infondatezza dell'art. 11 della legge n. 604/1966 non trascina necessariamente con se' quello dei primi due commi dell'art. 35 della legge n. 300/1970 in relazione all'art. 18 della stessa legge. In altri termini, per quanto attiene alla stabilita' reale, la differenza oggettiva conseguente alle diverse caratteristiche dell'impresa piccola o non piccola, rende non irrazionale la scelta legislativa che ha disposto un diverso trattamento in relazione alla differente grandezza, calcolata in base al numero degli addetti, dell'impresa stessa. Per questa stessa ragione, il Pretore non ritiene di sollevare di ufficio, come sarebbe stato astrattamente possibile, questione di costituzionalita', per eventuale contrasto con l'art. 3 della Costituzione, appunto dell'art. 35 in relazione all'art. 18 della legge n. 300/1970. 5. - Vi sono dunque alcuni argomenti contrari all'estensione della tutela contro i licenziamenti ad nutum, alcune ragioni giustificative dell'esclusione da essa dei lavoratori occupati presso le imprese di dimensioni piu' ridotte e presso i datori di lavoro che non siano imprese, che valgono pero' soltanto nei confronti della cosidetta tutela reale, che porta alla effettiva reintegrazione all'interno dell'impresa del lavoratore ingiustificatamente licenziato con ricostituzione forzata del rapporto di lavoro, ma che non si estendono invece alla semplice tutela obbligatoria che permette in ogni caso al datore di lavoro di evitare la reintegrazione effettiva con il versamento di una somma di denaro prefissata, senza con questo lasciare il lavoratore all'arbitrio del datore. Si tratta, come si e' visto, delle motivazioni attinenti al carattere fiduciario che permea il rapporto di lavoro in una piccola impresa, e all'esigenza di evitare tensioni difficilmente riassorbibili all'interno di un ambiente lavorativo ristretto. In realta' peraltro la principale ragione giustificativa del diverso trattamento nei confronti dei dipendenti da piccole imprese, per escluderli dalla tutela contro il rischio di licenziamenti arbitrari, viene normalmente rinvenuto nella necessita' di non caricare le piccole imprese, strutturalmente piu' deboli, di oneri economici che non sarebbero in grado di sopportare. Si tratta di un argomentazione astrattamente valida per l'esclusione sia dal rimedio della stabilita' reale che da quello della stabilita' obbligatoria, anzi in realta' dell'unico argomento astrattamente idoneo a giustificare quest'ultima esclusione, ma si tratta per la verita' di un argomento fallace. In realta' il criterio dimensionale basato sul numero dei dipendenti non appare affatto idoneo, in particolare nell'attualel momento storico e nell'attuale stato di evoluzione delle tecniche produttive, a valutare la capacita' di un impresa a sopportare oneri economici. Innanzi tutto, per opportuna chiarezza, vanno distinti i due concetti di oneri economici in senso assoluto, e di oneri economici per lavoratore addetto. Puo' essere vero, come linea di tendenza, che un'impresa di maggiori dimensioni ha un maggior potenziale economico e finanziario, ma proprio perche' ha un maggior numero di dipendenti, il suo rischio di dover sopportare gli oneri conseguenti ad un licenziamento annullato, e pertanto il suo onere finanziario, e' proporzionale al numero dei dipendenti stessi. Invece l'impresa di dimensioni piu' piccole ha forse (sempre come linea di tendenza) un potenziale economico-finanziario complessivo minore, ma e' soggetta anche a minori oneri di questo tipo, proprio perche' ha un minor numero di dipendenti. Quello che puo' rilevare ai fini in esame percio' non e' l'onere finanziario complessivo, ma piuttosto l'onere finanziario per unita' lavorativa impiegata. Questo appare essere l'unico criterio corretto di comparazione. Chiarito questo, non puo' dirsi che, in particolare nell'attuale assetto produttivo, esista una debolezza strutturale delle piccole imprese rispetto a quelle piu' grandi, e, tanto meno, che una simile asserita debolezza economico-finanziaria giustifichi razionalmente una particolare legislazione in favore delle piccole imprese diretta a non sottoporle agli oneri conseguenti ad eventuali licenziamenti illegittimi. Sotto un primo profilo, sul piano legislativo, si puo' notare come interventi dello Stato con apposite disposizioni di sostegno e di riequilibrio in favore delle piccole imprese siano in atto in altre sedi piu' proprie, in campo fiscale (in particolare per quanto attiene agli adempimenti fiscali), previdenziale, di facilitazioni di accesso a crediti agevolati, ecc. ecc. Di fronte a questo complesso di interventi, che hanno appunto funzioni di riequilibrio, ma che rimangono a carico, sostanzialmente, della finanza pubblica, non sembra aver ragion d'essere un'ulteriore legislazione di favore, quella appunto che esenta le imprese minori da ogni controllo sui licenziamenti, ed il cui onere, in realta', resta a carico, addirittura, dei lavoratori dipendenti dalle stesse imprese minori. Sotto il profilo strutturale, poi, la pretesa debolezza strutturale delle imprese minori corrispondeva ad un periodo ormai sorpassato della rivoluzione industriale, quando, per quel che concerne l'aspetto strettamente industriale, soltanto una produzione di massa, con ingente impiego di capitali e di manodopera, consentiva l'accesso a sistemi produttivi piu' moderni e razionali, con moltiplicazione piu' che proporzionale delle unita' prodotte, e diminuzione dei costi di produzione per unita' di prodotto, mentre, per quel che concerne l'aspetto commerciale, solo la produzione di massa ed ingenti investimenti di capitali consentivano l'accesso a mercati adeguati. Di qui, in quell'epoca ed in quel contesto, un'effettiva debolezza strutturale delle imprese minori, e l'esigenze di agevolarle. Ma ormai in realta' la situazione e' mutata profondamente. L'ulteriore sviluppo delle tecniche produttive, e delle stesse modalita' di commercializzazione, ha inciso in vario modo, che vale esaminare sommariamente, e senza pretesa di esaustivita', e che del resto si intersecano e si sommano in vario modo tra di loro. Da un lato in molti settori le tecniche produttive moderne si sono modificate in modo tale da poter essere applicate anche ad imprese di dimensioni ridotte con accesso anche di queste ultime ai processi produttivi piu' razionali ed efficaci. D'altro lato, la sempre crescente utilizzazione di macchinari, e di forme di automazione sempre piu' complessa, con progressiva sostituzione dell'attivita' delle macchine al lavoro umano, rende possibile l'esistenza, ed il continuo sviluppo, di imprese caratterizzate da un elevato impiego di capitali, una ingente produzione, un alto valore aggiunto, ma con modesto impiego di manodopera. Si tratta in realta', dal punto di vista economico e finanziario, di realta' economiche non piccole, ma divengono "piccole" soltanto se esaminati in base ad un indice di riferimento improprio quale e' quello relativo al numero dei dipendenti (evidentemente criteri distintivi piu' adeguati potrebbero essere altri, del resto impiegati ad altri fini, che si basino, ad esempio, sull'entita' del fatturato, o del capitale impiegato, ecc. ecc.). Sotto un terzo profilo lo stesso progresso tecnologico che, in un determinato contesto storico, ha richiesto la concentrazione e la unificazione dei procedimenti produttivi, favorisce ora, o, almeno, consente, la loro separazione, talvolta (ma non sempre) anche geografica, in singole fasi distinte, e da svolgersi in singole unita' produttive altamente specializzate. Di qui lo svilupparsi di singole unita' produttive che eseguono solo una parte del procedimento produttivo, con ridotto impiego di manodopera, ma all'interno di un procedimento produttivo complessivo caratterizzato dall'uso delle tecniche piu' moderne e sofisticate. Questo rende possibile la frantumazione delle imprese, resa appetibile non tanto da esigenze strettamente produttive (anzi probabilmente irrazionale dal punto di vista strettamente "aziendalistico"), ma proprio dall'opportunita' di usufruire del diverso regime stabilito in materia di licenziamenti per le piccole imprese. Sotto un'ulteriore profilo, quello strettamente commerciale, l'utilizzazione di piu' moderne forme distributive, e di strutture consorziali per la promozione delle vendite, consentono anche alle imprese minori l'accesso ai mercati esteri. Di fronte a quest'imponente serie di modificazioni, del resto soltanto accennate, appare antistorico continuare a sostenere che le imprese minori hanno carattere marginale, di debolezza economica strutturale, e che per questo debbono essere sostenute con un regime piu' favorevole in materia di licenziamenti. E' vero piuttosto che, secondo le circostanze, si possono trovare in condizioni di debolezza strutturale sia imprese piccole che imprese meno piccole, e che il legislatore, se lo ritiene, puo' agevolare in altro modo (come del resto avviene effettivamente) singole categorie di imprese in condizioni di debolezza strutturale, ma addossando, in vario modo, gli oneri di questi interventi allo Stato, cioe' alla collettivita', non ai singoli lavoratori. Del resto, al di la' di un problema di risparmio di costi (che - ovviamente - non si pone per l'imprenditore che, ancorche' piccolo, correttamente non ponga in essere licenziamenti ingiustificati, con il risultato paradossale che l'attuale legislazione viene a vantaggio soltanto dell'imprenditore "piccolo" che faccia un uso arbitrario del proprio potere di licenziamento) non esiste un nesso logico fra debolezza strutturale di un'impresa e non sindacabilita' dei licenziamenti che trovassero la loro ragione determinante proprio nella debolezza dell'impresa, per esempio per una sua ristrutturazione, sono sorretti da un giustificato motivo oggettivo pienamente valutabile come tale. Pertanto l'asserita debolezza economica e finanziaria delle imprese minori in realta' non sussiste come tale e, comunque, non costituirebbe un elemento discriminante razionale per giustificare il diverso regime cui sono assoggettate in materia di licenziamenti. Piuttosto questo diverso regime, lungi dall'essere razionale, appare sotto diversi profili, addirittura irrazionale. L'opportunita' di usufruire del regime di favore della non sindacabilita' dei licenziamenti, con la conseguente "necessita'" di non superare il numero di dipendenti adottato dalla legge come indice di riferimento, comprime la crescita fino a dimensioni strutturalmente ottimali sia delle imprese in quanto tali che dell'occupazione nelle singole imprese, oppure, come gia' si e' osservato, favorisce forme di frammentazione non sempre giustificate sotto il profilo produttivo, ed agisce pertanto, in questi modi, come elemento frenante per l'economia nel suo complesso. Parimenti, non appare sempre giustificato il regime di privilegio in favore delle imprese "piccole", al di sotto del limite di riferimento, che, incidendo sui costi e percio' sui meccanismi della concorrenza, si risolve in un danno per le imprese "non piccole", al di sopra del limite di riferimento, ed agisce in questo modo come elemento frenante rispetto allo sviluppo dell'occupazione nel suo complesso. 6. - Anche sotto un altro profilo il limite, legato alle dimensioni aziendali misurate in base al numero degli addetti, di applicazione dell'art. 11 della legge n. 604/1966 appare irrazionale, e tale anzi da comportare una ancor piu' evidente ingiustificata difformita' di trattamento. Per effetto del diverso sistema di computo stabilito dall'art. 11 stesso, che contempla l'insieme complessivo dei lavoratori impiegati in un'impresa, ed invece dall'art. 35 della legge n. 300/1970, che al contrario fa riferimento agli addetti impiegati nella stessa unita' produttiva, o nello stesso comune, puo' avvenire che una stessa impresa non raggiunga i limiti dimensionali complessivi richiesti per l'applicazione della legge n. 604/1966, ma sia formata da due o piu' unita' produttive, una sola delle quali superi il limite di 15 dipendenti previsto dall'art. 35 della legge n. 300/1970. In una simile fattispecie lo stesso datore di lavoro potrebbe licenziare immotivatamente un dipendente addetto ad una delle unita' produttive minori, mentre sarebbe soggetto ad impugnazione in sede giudiziaria, e all'eventuale reintegrazione ai sensi dell'art. 18 della legge n. 300/1970, in caso di licenziamento di un lavoratore addetto all'unita' produttiva maggiore. Allo stesso modo sarebbe soggetto sia al controllo da parte del giudice sui licenziamenti che all'eventuale reintegrazione un datore di lavoro che impiegasse sedici dipendenti in un'unica unita' produttiva accentrata, mentre non sarebbe soggetto ad alcun controllo, e ad alcuna sanzione, un datore di lavoro che ne occupasse molti di piu', ma meno di trentacinque, purche' in unita' produttive decentrate nessuna di entita' tale da raggiungere i quindici addetti. Simili esempi dimostrano non solo l'assoluta irrazionalita' dei limiti dimensionali in esame, ma altresi' la loro incapacita' ad esprimere la dimensione maggiore o minore di un'impresa. Anche partendo, in via di ipotesi di lavoro, dal presupposto, in realta' inesatto, che il numero dei lavoratori addetti valga ad esprimere la dimensione di un'impresa, il fatto stesso che esistano situazioni in cui e' soggetto ad impugnazione in sede giudiziaria un licenziamento intimato da un'impresa di minori dimensioni mentre non lo e' quello intimato da un'impresa di dimensioni maggiori, oppure che i licenziamenti effettuati da una medesima impresa siano, o meno, sindacabili, in base a fattori sostanzialmente accidentali, rende evidente sia la sostanziale irrazionalita' dei limiti dimensionali vigenti in proposito, sia il fatto che esso crea ulteriori irrazionali ed ingiustificate differenze di trattamento tra i lavoratori, con ulteriore sospetto di violazione, sotto un nuovo profilo non dedotto in giudizio (e, per la verita', non rilevante ai fini della soluzione della fattispecie oggetto di causa), dell'art. 3 della Costituzione. 7. - Ricapitolando l'analisi fin qui condotta, mentre i licenziamenti intimati da imprese non piccole sono soggetti a riesame in sede giudiziaria, con il risultato, in caso di accertata illegittimita', secondo i casi, o di un obbligo di riassunzione cui pero' il datore di lavoro puo' sottrarsi adempiendo all'obbligazione sostitutiva del pagamento di una somma prefissata di denaro (sistema della cosidetta "stabilita' obbligatoria", di cui alla legge n. 604/1966), o di un'obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro con ricostituzione del rapporto, oltre al risarcimento del danno in una somma prefissata di denaro (sistema della cosidetta "stabilita' re- ale", di cui all'art. 18 della legge n. 300/1970), nessuna tutela protegge dai licenziamenti ingiustificati i lavoratori dipendenti dalle imprese minori, quelle di dimensioni inferiori ai limiti dimensionali previsti per la loro applicazione dalle due leggi sopra citate. Mentre in base ad un esame comparativo delle contrapposte esigenze dei lavoratori dipendenti e delle piccole imprese da cui essi dipendono, possono sussistere motivi giustificativi, non irragionevoli, ed attinenti sia al rapporto fiduciario esistente tra datore e prestatore in una realta' produttiva ristretta, sia alla necessita' di evitare tensioni difficilmente riassorbibili in un ambiente lavorativo limitato anche fisicamente, per non estendere anche ai lavoratori delle piccole imprese la reintegrazione obbligatoria propria della tutela reale, non sussistono invece validi motivi per non estendere anche ad essi la piu' ridotta, ma non irrilevante, tutela obbligatoria prevista dalla legge del 1966. In particolare l'asserita maggior debolezza strutturale delle piccole imprese, addotta come motivo a questi fini, in realta' non sussiste, in quanto nell'attuale contesto economico e sociale le imprese di dimensioni ridotte non si trovano necessariamente, e neppure nella normalita' dei casi, in condizioni di precarieta', mentre eventuali fasce di imprese piu' deboli (che esistono sia tra quelle piccole che tra quelle meno piccole) possono essere agevolate, quando il legislatore lo ritenga necessario, in altri modi piu' propri (cosi' come, del resto, le piccole imprese vengono agevolate in concreto), non comprimendo le posizioni dei lavoratori dipendenti. La differenza di trattamento imposta ai lavoratori dipendenti dalle piccole imprese al di sotto dei quindici dipendenti (perche' altrimenti si applicherebbe loro l'art. 18 della legge n. 300/1970) nel privarli di qualsiasi tutela contro eventuali licenziamenti non sorretti da una giusta causa o da un giustificato motivo, e pertanto arbitrari, appare pertanto priva di qualsiasi giustificazione valida e razionale. Ne' si tratta di una differenza di trattamento di limitato rilievo in quanto dal lavoro (sul quale, per l'art. 1, primo comma, della Costituzione, e' fondata la nostra Repubblica e che, per l'art. 4 di essa, ogni cittadino ha il diritto ed il dovere di svolgere) ogni lavoratore trae non solo i mezzi per il sostentamento proprio e della propria famiglia, ma lo sviluppo della propria personalita', il rispetto di se' stesso, la dignita' di fronte agli altri membri della comunita'. 8. - L'insicurezza sul lavoro, della propria posizione di lavoratore, inevitabilmente connaturata nella condizione umana di chi sa di poter essere espulso, con minime formalita', e senza spiegazioni, dal proprio posto di lavoro, e' al tempo stesso insicurezza della vita, e non solo in senso materiale, anche in senso morale. Percio' una normativa che consente, senza fornire alcuna forma di tutela, licenziamenti ingiustificati sembra porsi in contrasto con diversi principi dalla Costituzione. Il fatto stesso della irrazionale disparita' di trattamento tra diverse categorie di cittadini e di lavoratori, quelli tutelati contro eventuali licenziamenti illegittimi e quelli non tutelati, sembra confliggere con l'art. 3, primo comma, della Costituzione, secondo il quale "tutti i cittadini hanno pari dignita' sociale e sono uguali dinnanzi alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni personali e sociali". In questo caso una differenza di trattamento, che per di piu' coinvolge un momento fondamentale della vita personale e sociale quale e' appunto il lavoro, viene fatta discendere, senza nessuna valida ragione giustificativa, da un elemento estrinseco ed accidentale quale e' appunto l'entita' dimensionale dell'impresa datrice di lavoro. In realta' in questo caso l'art. 3, primo comma, viene violato anche sotto un altro profilo, oltre che sotto quello, denunziato dal ricorrente, della differenza di trattamento di fronte alla legge poiche' nel nostro sistema democratico che, in forza del passo iniziale della Costituzione, e' fondato appunto sul lavoro, il lavoro stesso e' fattore di dignita' personale, una normativa che ponga distinzioni ingiustificate tra categorie di cittadini e di lavoratori per quanto attiene alla tutela del loro lavoro che renda meramente precaria la posizione di alcuni, e di essi soltanto, sul proprio lavoro, contrasta non solo con il loro diritto all'uguaglianza di fronte alla legge ma viola anche la loro dignita' sociale. Ma, sotto un'ulteriore profilo, la norma in esame sembra porsi in contrasto anche con il secondo comma dello stesso art. 3 della Costituzione, per il quale "e' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la liberta' e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della personalita' umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Una legislazione come quella in esame che priva certe categorie di lavoratori di ogni tutela in ordine ai motivi di cessazione del loro rapporto di lavoro, lungi dall'adempiere ai compiti indicati dalla norma costituzionale sopra riportata, sembra diretta a produrre effetti esattamente contrari, di frapporre nuovi ostacoli di ordine economico e sociale, di limitare di fatto non solo l'uguaglianza ma la stessa liberta' sostanziale di quelle categorie di lavoratori mantenuti in una permanente situazione di precarieta' dalla mancanza di qualsiasi tutela contro licenziamenti ingiustificati, di impedire loro il pieno sviluppo, possibile soltanto in una condizione di liberta' sostanziale, della loro personalita' umana, di contrastare la loro piena partecipazione, se non all'attivita' politica in senso stretto, almeno a quella sindacale che ne e' una parte. Infine la norma in esame, appunto perche' limita soltanto ad alcune categorie di lavoratori la possibilita' di sottoporre ad un riesame da parte del giudice eventuali licenziamenti ingiustificati, priva in realta' coloro che ne sono esclusi da ogni tutela su questo piano, e sembra pertanto porsi in contrasto con l'art. 35, primo comma, della Costituzione, che dispone che "la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni". 9. - Concludendo dunque si deve ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 11 della legge 15 luglio 1966, n. 604, nella parte in cui esclude dall'applicazione della legge stessa i datori di lavoro che occupano fino a trentacinque dipendenti, per contrasto con l'art. 3, primo e secondo comma, e dell'art. 35, primo comma, della Costituzione. La questione d'altra parte, appare rilevante, anzi decisiva, ai fini della decisione del presente giudizio. Poiche' la difesa del ricorrente aveva prospettato la questione di costituzionalita' soltanto in termini di contrasto con l'art. 3, essa deve essere sollevata in questi termini in accoglimento della domanda, mentre deve essere sollevata di ufficio per contrasto anche con l'art. 35, primo comma. Pertanto, ritenuto che la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 11 della legge 15 luglio 1966, n. 604, nella parte in cui esclude dall'applicazione della legge stessa i datori di lavoro che occupano fino a trentacinque dipendenti, per contrasto con l'art. 3, primo e secondo comma, e con l'art. 35, primo comma, della Costituzione, sia rilevante ai fini della decisione e non manifestamente infondata, si solleva dinnanzi alla Corte costituzionale, ai sensi degli artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 11 della legge 15 luglio 1966, n. 604, nella parte in cui esclude dall'applicazione della legge stessa i datori di lavoro che occupano fino a trentacinque dipendenti, sia, in accoglimento della domanda del ricorrente, per contrasto con l'art. 3, primo e secondo comma, della Costituzione sia, di ufficio, per contrasto con l'art. 35, primo comma, della Costituzione. Il giudizio deve essere interrotto in questa sede, con immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ai sensi dell'art. 23, ultimo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, va disposto che la presente ordinanza venga, a cura della cancelleria, notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri ed alle parti costituite, e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
P. Q. M. Visti gli artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Solleva dinnanzi alla Corte costituzionale, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 11 della legge 15 luglio 1966, n. 604, nella parte in cui esclude dall'applicazione della legge stessa i datori di lavoro che occupano fino a trentacinque dipendenti, per contrasto con l'art. 3, primo e secondo comma, e con l'art. 35, primo comma, della Costituzione; Dispone l'interruzione del giudizio e l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Dispone che la presente ordinanza venga, a cura della cancelleria, notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri ed alle parti costituite, e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Bologna, addi' 14 aprile 1989 Il pretore: MONACI 92C1037