N. 510 ORDINANZA (Atto di promovimento) 25 maggio 1992

                                N. 510
 Ordinanza emessa il 14 aprile 1989 e il 25 maggio 1992 dal pretore di
                                Bologna
   nel procedimento civile vertente tra Pedrielli Tiziano e Mac Due
                                S.r.l.
 Lavoro (tutela del) - Lavoratori dipendenti dalle piccole imprese
    (occupanti  meno  di  quindici  dipendenti  per   singola   unita'
    produttiva  o  meno di trentacinque dipendenti complessivamente) -
    Licenziamento senza giusta causa o giustificato  motivo  -  Omessa
    previsione   di   qualsiasi   forma  di  tutela  -  Ingiustificata
    disparita' di trattamento  a  seconda  dell'elemento  dimensionale
    dell'impresa  -  Violazione  del  principio  secondo  cui lo Stato
    tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni - Questione
    gia' decisa con l'ordinanza n. 575/1990 di restituzione  atti  per
    ius  superveniens  (legge 11 maggio 1990, n. 108) e riproposta dal
    giudice rimettente sul presupposto del permanere della rilevanza.
 (Legge 15 luglio 1966, n. 604, art. 11).
 (Cost., artt. 3 e 35).
(GU n.40 del 23-9-1992 )
                              IL PRETORE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza.
    Vista l'ordinanza n. 575, in data 12-28 dicembre 1990, della Corte
 costituzionale, che disponeve la restituzione  degli  atti  a  questo
 pretore  per  il  riesame,  in  relazione all'intervenuta abrogazione
 della norma oggetto di dubbio di legittimita', riesaminati gli atti e
 documenti di causa;
    Sentiti in contraddittorio i difensori delle  parti  dell'udienza,
 appositamente fissata, del 19 maggio 1992;
    Esaminate le modifiche intervenute nella legislazione con la nuova
 legge  11  maggio  1990,  n.  108,  sia per il disposto delle singole
 norme, sia a livello di ricostruzione dei principi generali, e,  piu'
 ampiamente, per le ripercussioni sull'intero sistema;
                             O S S E R V A
    1.  - Va premesso in linea di principio che possono essere oggetto
 di  sindacato  di  costituzionalita',  come  del  resto  e'  avvenuto
 sistematicamente    nella    giurisprudenza    di    codesta    Corte
 costituzionale, anche norme non piu' in vigore, ma tuttora  rilevanti
 per  la  risoluzione  delle  singole  controversie  di  merito:  vale
 ricordare in proposito, per tutte, la sentenza 27 gennaio 1959, n. 4,
 ove  viene  affermato  espressamente  che  "in  via astratta non puo'
 escludersi  l'ammissibilita'  di  una   questione   di   legittimita'
 costituzionale,  in  ordine  ad una norma di cui sia stata dichiarata
 l'abrogazione, potendo permanere situazioni tali la cui rilevanza sul
 piano costituzionale giustifichi la proponibilita' del giudizio".
    2. - Il licenziamento oggetto  della  causa  di  merito  e'  stato
 intimato   dalla   societa'  Mac  Due  S.r.l.,  senza  una  specifica
 motivazione, al dipendente Pedrielli Tiziano con raccomandata in data
 29 settembre 1989, cioe' in un'epoca nella  quale  era  pienamente  e
 sicuramente   in   vigore   la   norma   oggetto  della  denunzia  di
 incostituzionalita', e che consentiva, nelle strutture in  cui  erano
 occupati   meno   di   trentacinque   dipendenti,   di   procedere  a
 licenziamenti senza motivazione.
    3. - L'assetto legislativo in materia di licenziamenti individuali
 e' stato modificato con l'entrata in vigore  della  legge  11  maggio
 1990,  n.  108,  che,  per  quanto interessa specificamente in questa
 sede, all'art. 6 ha abrogato  la  norma  oggetto  della  denunzia  di
 incostituzionalita',  vale  a  dire il primo comma dell'art. 11 della
 legge 15 luglio 1966, n. 604.
    4. - La nuova legge n. 108/1990 e'  entrata  in  vigore  in  epoca
 successiva   al   fatto  materiale  del  licenziamento  intimato  con
 raccomandata del 29 settembre 1989 ed oggetto del giudizio di merito.
    5. - Prescindendo in questa sede da ogni problematica  sui  limiti
 entro  i  quali  una  legge  puo'  essere  retroattiva,  o anche solo
 interpretativa, appare certo che  la  retroattivita'  di  una  norma,
 oppure  la sua funzione interpretativa rispetto a norme preesistenti,
 costituiscano fenomeni eccezionali e debbano essere  manifeste;  come
 infatti  dispone  l'art.  11,  primo  comma, delle disposizioni sulla
 legge in generale "la legge non dispone che per l'avvenire: essa  non
 ha efficacia retroattiva".
    6. - La stessa legge n. 108/1990 non ha carattere retroattivo, ne'
 carattere  interpretativo  rispetto  alla normativa preesistente; non
 solo non e' espressamente ne' retroattiva ne' interpretativa, ma  non
 lo e' neppure implicitamente.
    7.   -   E'  anzi,  espressamente,  modificativa  della  normativa
 preesistente, e percio' sembra  potersi  escludere  un  suo  riflesso
 anche  soltanto  sull'interpretazione di tale normativa preesistente,
 come  pure  a  livello  di  ricostruzione   dei   principi   generali
 dell'assetto generale del sistema.
    8. - Va percio' escluso che la normativa successiva possa incidere
 in  qualsiasi  modo sulla valutazione del fatto materiale oggetto del
 giudizio di merito, vale a dire sul licenziamento irrogato in data 29
 settembre 1989 al ricorrente Pedrielli Tiziano.
    9. - Questo presupposto di fatto non puo' essere valutato e deciso
 se non sulla base della legislazione vigente in quel momento  (tranne
 che,    naturalmente,    ne    venga    dichiarata   l'illegittimita'
 costituzionale,  in   parte   qua,   da   codesta   onorevole   Corte
 costituzionale).
    10.   -  Si  deve  ritenere  che  pertanto  che  la  questione  di
 legittimita' costituzionale,  sollevata  con  ordinanza  in  data  14
 aprile  1990,  sia  tuttora  attuale in quanto tuttora il giudizio di
 merito non puo' essere  deciso  indipendentemente  dalla  risoluzione
 della  questione  di  costituzionalita'  stessa, che assume carattere
 pregiudiziale.
    11.  -  Permane  pertanto  quel requisito di "rilevanza" richiesto
 dall'art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87.
    12. - Percio' questo pretore non puo' che confermare integralmente
 l'eccezione di legittimita' costituzionale, sollevata  con  ordinanza
 in  data  14  aprile  1990,  dell'art. 11 della legge 15 luglio 1966,
 nella parte in cui escludeva dall'applicazione della legge  stessa  i
 datori  di  lavoro che occupavano fino a trentacinque dipendenti, per
 contrasto con l'art. 3, primo e secondo comma, e con l'art. 35, primo
 comma, della Costituzione.
    13. - Per quato attiene  al  merito  sostanziale  della  questione
 sollevata,  il  pretore  di  riporta alle argomentazioni svolte nella
 stessa gia' ordinanza 14 aprile 1989, che conferma, anche esse, nella
 loro interezza.
                               P. Q. M.
    Ritenuta  tuttora  attuale  e  pregiudiziale  alla  decisione  del
 giudizio   di   merito,   conferma   integralmente   l'eccezione   di
 legittimita' costituzionale,  sollevata  con  ordinanza  in  data  14
 aprile  1990, dell'art. 11 della legge 15 luglio 1966, nella parte in
 cui escludeva dall'applicazione della legge stessa i datori di lavoro
 che occupavano fino a  trentacinque  dipendenti,  per  contrasto  con
 l'art.  3,  primo e secondo comma e con l'art. 35, primo comma, della
 Costituzione.
      Bologna, addi' 25 maggio 1992
                          Il pretore: MONACI
                                 -----
    1. - Con ricorso depositato in cancelleria il 25 novembre 1989  il
 ricorrente  Pedrielli  Tiziano  conveniva in giudizio la societa' Mac
 Due S.r.l., della quale era stato  dipendente,  chiedendo  che  fosse
 dichiarato illegittimo ed ingiustificato il licenziamento intimatogli
 con raccomandata 29 settembre 1989, e che la societa' convenuta fosse
 dichiarata  tenuta e condannata, visto l'art. 8 della legge 15 luglio
 1966, n. 604, a riassumerlo a corrispondergli una  somma  pari  a  12
 mensilita' dell'ultima retribuzione.
    A tal fine il ricorrente chiedeva che previamente fosse dichiarata
 la   non   manifesta   infondatezza  dell'eccezione  di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 11 della legge 15 luglio 1966, n.  604,  per
 contrasto  con  l'art.  3  della  Costituzione,  nella  parte  in cui
 limitava l'applicazione della normativa protettiva ai  dipendenti  da
 datori di lavoro che contino almeno 35 dipendenti, e non estendeva la
 tutela ad ogni lavoratore, con conseguente remissione degli atti alla
 Corte costituzionale.
    In  linea di fatto il ricorrente premetteva che la Mac Due era una
 ditta del settore industriale con dodici dipendenti, e che  lo  aveva
 assunto  a  far  data  dal  26  giugno 1989 senza previsione di alcun
 periodo di prova.
    Successivamente, appunto con raccomandata 29  settembre  1989,  la
 ditta  gli  aveva  comunicato  il  suo  recesso,  con  preavviso, dal
 rapporto di lavoro.
    Il licenziamento  era  stato  impugnato  tramite  l'organizzazione
 sindacale  di  categoria, e la ditta aveva risposto che il dipendente
 era stato licenziato in quanto non si era inserito nel lavoro perche'
 non idoneo; aveva anzi  allontanato  il  dipedendente  dal  posto  di
 lavoro prima che fosse terminato il periodo di prova.
    Tanto  premesso,  il ricorrente affermava la propria intenzione di
 ottenere un sindacato giurisdizionale sui motivi  del  licenziamento,
 che  affermava  illegittimo,  ed il risarcimento dei danni per la sua
 illegittimita'.
    Sostenva in proposito che questo risarcimento non  poteva  trovare
 ostacolo  nell'art.  11  della  legge  15 luglio 1966, n. 604, di cui
 denunziava  appunto  l'incostituzionalita'  proponendo  la   relativa
 eccezione.
    Si  costituiva  in  giudizio la convenuta societa' Mac Due S.r.l.,
 opponendosi alla domanda.   Sosteneva  che  si  era  trattato  di  un
 licenziamento  ad  nutum,  e  che  la  norma  che  lo  consentiva  ad
 imprenditori di  modeste  dimensioni,  quali  appunto  la  convenuta,
 doveva   ritenersi  pienamente  legittima,  mentre  doveva  ritenersi
 infondata   l'eccezione   di   incostituzionalita'   proposta   dalla
 controparte.
    Sosteneva  inoltre  che l'eccezione era irrilevante sia perche' il
 licenziamento era stato impugnato nei termini da  un  soggetto  (Fim,
 Fiom,  Uilm)  che  non era tecnicamente una organizzazione sindacale,
 sia  perche,  mancava  la  prova  della  preventiva  iscrizione   del
 Pedrielli  ad  una  delle tre organizzazioni sindacali.  La convenuta
 societa' Mac Due chiedeva pertanto  respingersi  il  ricorso,  previa
 declaratoria di manifesta infondatezza e comunque di inammissibilita'
 ed  improponibilita',  anche  sotto il profilo della rilevanza, della
 questione di costituzionalita'.   In via subordinata,  per  l'ipotesi
 che  la  norma  impugnata  fosse stata riconosciuta illegittima dalla
 Corte costituzionale, chiedeva di dimostrare testimonialmente che  il
 licenziamento  era  legittimo  in quanto il ricorrente non si sarebbe
 inserito nell'organizzazione del lavoro nonostante  gli  insegnamenti
 impartitigli.
    All'udienza  il  pretore  impostava tentativo di conciliazione che
 non dava esito positivo.  Invitava allora i procuratori delle parti a
 discutere la questione preliminare attinente alla proposta  eccezione
 di  illegittimita'  costituzionale, ed al termine di tale discussione
 tratteneva la causa in riserva.
    2. - Poiche' e' stata ipotizzata una fattispecie di illegittimita'
 costituzionale, deve essere esaminato in questa sede se sussistono  i
 due  requisiti,  necessari  per sottoporla alla Corte costituzionale,
 della  non  manifesta  infondatezza  e  della  rilevanza  in   causa.
 Considerazioni  di  razionalita'  di  metodo  impongono di verificare
 innanzi tutto la rilevanza della questione ai  fini  della  soluzione
 della  causa.    E'  stata ipotizzata l'illegittimita' costituzionale
 dell'art. 11 della legge 15 luglio 1966, n. 604,  per  contrasto  con
 l'art.  3 della Costituzione nella parte in cui limita l'applicazione
 della legge stessa ai lavoratori dipendenti da  imprese  che  contino
 almeno trentacinque dipendenti.  Nel caso di specie entrambe le parti
 concordano  nelle  loro  difese  processuali  nel  senso  che  quello
 intimato dalla Mac Due  al  Pedrielli  sarebbe  un  licenziamento  ad
 nutum, un recesso ai sensi dell'art. 2118 del c.c. da un contratto di
 lavoro  a tempo indeterminato.  Il giudice non puo' che prendere atto
 delle affermazioni, sostanzialmente concordi, delle parti  in  questo
 senso e considerarlo un dato acquisito ai fini del presente giudizio,
 ancorche',   per  la  verita',  la  difesa  dell'azienda  nella  fase
 stragiudiziale ipotizzi piuttosto un licenziamento per  giusta  causa
 soggettiva   (del   prestatore)  consistita  in  un  asserito  scarso
 rendimento lavorativo.
    Difatti  di  fronte all'impugnativa del licenziamento da parte del
 sindacato, e, soprattutto, alla richiesta,  da  parte  del  sindacato
 stesso  dei  motivi  del  licenziamento  (con raccomandata 11 ottobre
 1989, agli atti di parte ricorrente, doc. n. 5), la  ditta  convenuta
 non  si  e'  limitata  ad  affermare un proprio diritto di licenziare
 senza dare spiegazioni, ma ha risposto che il lavoratore,  nonostante
 tutti gli sforzi di istruirlo, non si era inserito nel lavoro perche'
 non  idoneo  (cfr.  raccomandata  16 ottobre 1989, agli atti di parte
 ricorrente, doc. n. 6).  Questa problematica di fatto non esclude  la
 rilevanza  della questione di costituzionalita' ipotizzata, in quanto
 la situazione legislativa in atto con il mantenimento della norma  di
 cui  si lamenta l'asserita illegittimita' costituzionale non potrebbe
 che condurre alla reiezione  della  domanda  del  ricorrente,  mentre
 soltanto  l'eliminazione  dal  contesto  normativo  di  questa  norma
 potrebbe  comportare  l'analisi  in  fatto  della   fattispecie,   e,
 pertanto,  la  verifica  della  validita'  e  della sufficienza delle
 motivazioni posta dalla ditta alla base del licenziamento e riportate
 appunto nella lettera del 16 ottobre 1989.
    Sotto un altro profilo non rilevano, nel senso  che  non  appaiono
 risolutive  della causa prima ed indipendentemente dalla questione di
 costituzionalita', le due eccezioni proposte da  parte  convenuta  in
 ordine alle modalita' di impugnazione del licenziamento.
    Come e' noto infatti, un licenziamento puo' essere impugnato anche
 attraverso  l'intervento dell'organizzazione sindacale (art. 6, primo
 comma, della legge n. 604/1966); questo  termine  di  "organizzazione
 sindacale",  dato  il  fine  della  norma,  non  va  inteso  in senso
 ristretto, ma piuttosto in senso ampio, ricomprendendovi non solo  le
 organizzazioni  sindacali  singole,  ma anche quelle associate tra di
 loro, come la "triplice" sindacale Fim-Cisl Fiom-Cgil e Uilm-Uil.  Ed
 e' stata  appunto  questa  "triplice"  sindacale  ad  impugnare,  con
 raccomandata  3 ottobre 1989 (agli atti del ricorrente, doc. n. 3) il
 licenziamento intimato al Pedrielli il 29 settembre 1989.  Del resto,
 successivamente, a breve distanza di tempo,  e  comunque  all'interno
 del  termine  di  sessanta  giorni  di  decadenza  dall'impugnazione,
 l'impugnazione stessa e' stata ribadita dalla CGIL  con  raccomandata
 11  ottobre  1989  (agli  atti di parte ricorrente doc.   n. 5).  Ne'
 occorre, per la validita' dell'impugantiva da  parte  sindacale,  che
 sia   dimostrata   preventivamente  l'iscrizione  del  lavoratore  al
 sindacato impugnante; la legge non lo richiede e, d'altra  parte,  il
 lavoratore  puo'  rilasciare  al sindacato, a questi fini, un mandato
 anche orale.
    Non va dimenticato che  l'impugnativa  di  un  licenziamento  deve
 essere fatta necessariamente per iscritto (art. 6, primo comma, della
 legge   n.   604/1966),  e  che  deve  essere  data  possibilita'  di
 effettuarla senza eccessive formalita' e soverchie difficolta'  anche
 ai lavoratori analfabeti: di qui appunto la necessaria ammissibilita'
 di  un  mandato  orale  al  sindacato  da  parte di un lavoratore per
 impugnare un licenziamento.
    L'esistenza di questo mandato orale, ed in genere  l'adesione  del
 lavoratore   al   sindacato  (anche  al  di  la'  del  fatto  formale
 dell'iscrizione) possono del resto desumersi anche  da  comportamenti
 concludenti,  ed in particolare dal fatto stesso che, e' avvenuto nel
 caso di specie, un sindacato impugni il licenziamento di  lavoratore,
 e   successivamente  l'interessato  faccia  propria  e  coltivi  tale
 impugnazione,  esperendo  un  giudizio  diretto  all'annullamento del
 licenziamento.  Percio' le eccezioni proposte in proposito dalla  Mac
 Due non appaioni risolutive della causa.
    Quest'ultima  in  realta' non puo' essere decisa indipendentemente
 dall'applicazione  della   norma   controversa   che   appare   cosi'
 sicuramente  rilevante,  ed  anzi  decisiva,  ai fini della decisione
 della causa.
    3. - Occorre a questo  punto  verificare  la  sussistenza  o  meno
 dell'altro   requisito,   quello  della  non  manifesta  infondatezza
 dell'eccezione.  Va rilevato innanzi tutto che nel nostro ordinamento
 coesistono attualmente due diverse normative che pongono dei  vincoli
 al  potere  di  recesso del datore di lavoro dai rapporti di lavoro a
 tempo indeterminato, e che entrambe fanno riferimento,  per  la  loro
 applicazione,   all'entita'   dimensionale   dell'impresa,  calcolata
 diversamente, ma sempre con  riferimento  al  numero  degli  addetti.
 Soprattutto diversa e' la tutela assicurata dai due sistemi normativi
 concorrenti.    Brevemente,  e  limitando  l'analisi  a  quanto  puo'
 rilevare in questa sede, la legge n. 604/1966, che "non si applica ai
 datori di lavoro che occupano fino a trentacinque  dipendenti"  (art.
 11),   prevede,  per  il  caso  di  riconosciuta  illegittimita'  del
 licenziamento, una duplice obbligazione, a sua scelta, a  carico  del
 datore,  che "e' tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il
 termine di tre giorni, o in mancanza, a risarcire il  danno  versando
 una  indennita'  da  un  minimo  di  cinque  ad  un massimo di dodici
 mensilita' dell'ultima retribuzione" (art. 8).
    In altri termini il datore di lavoro che abbia posto in essere  un
 licenziamento  illegittimo e' tenuto, in via pricnipale, a riassumere
 il lavoratore, ma non puo' essere obbligato a farlo, ed anzi si  puo'
 liberare  dall'obbligazione  principale  soddisfacendo l'obbligazione
 sostitutiva (che invece e' suscettibile di  esecuzione  forzata)  del
 pagamento  di  una  somma  di denaro come indennizzo.   E' il sistema
 della cosidetta "stabilita' obbligatoria".   Invece con la  legge  n.
 300/1970,  che si applica alle imprese industriali e commerciali, che
 occupano piu' di quindici dipendenti in "ciascuna sede, stabilimento,
 filiale, ufficio  o  reparto  autonomo",  oppure  "nell'ambito  dello
 stesso  comune",  nonche'  alle  imprese  agricole  che  nelle stesse
 condizioni occupano piu' di  cinque  dipendenti  (art.  35,  primo  e
 secondo  comma),  e'  stato  introdotto  il  sistema  della cosidetta
 "stabilita' reale",  in  base  al  quale,  in  caso  di  riconosciuta
 illegittimita' di un licenziamento, il datore di lavoro e' tenuto sia
 al  risarcimento del danno, in una cifra calcolata in un certo numero
 di mensilita' dell'ultima retribuzione, sia alla  reintegrazione  del
 lavoratore   nel   posto  di  lavoro,  e  non  si  puo'  liberare  da
 quest'ultima obbligazione con il semplice pagamento di una  somma  di
 denaro,  tanto e' vero che il lavoratore ha diritto alla retribuzione
 maturata nell'eventuale periodo intermedio tra la sentenza che ordina
 la reintegrazione e la reintegrazione medesima.    Il  ricorrente  ha
 sviluppato  l'eccezione di illegittimita' costituzionale soltanto con
 riferimento ad una  di  queste  normative,  quella  della  stabilita'
 obbligatoria, trascurando quello della stabilita' reale.
    In realta' la coesistenza dei due complessi normativi pone innanzi
 tutto  due  problemi  da risolvere preliminarmente.   In primo luogo,
 poiche' - evidentemente - puo' essere oggetto di  eventuale  giudizio
 di  illegittimita' costituzionale soltanto una norma in vigore, e non
 una  norma  gia'  abrogata  nel  momento  in  cui si e' verificata la
 fattispecie concreto oggetto di esame, occorre verificare se la norma
 impugnata, cioe' l'art. 11 della legge n.   604/1966,  ed  in  genere
 tutto  il  sistema  di  stabilita'  obbligatoria  disegnato da questa
 legge, siano  sopravvissuti,  anche  nella  parte  in  cui  non  sono
 richiamati,  espressamente o implicitamente, dalla legge n. 300/1970,
 al nuovo sistema di stabilita' reale introdotto  con  tale  legge,  o
 debbano   invece   ritenersi   abrogati  dalla  nuova  normativa  per
 incompatibilita', o perche' comunque quest'ultima regola diversamente
 l'intera materia (cfr. art. 15 delle preleggi).
    In altri termini, bisogna verificare se pur  dopo  l'introduzione,
 con  l'art.  18 della legge n. 300/1970, del rimedio della stabilita'
 reale siano residuate  ipotesi  di  applicazione  del  rimedio  della
 stabilita'  obbligatoria,  di  cui  alla legge n. 604/1966.   Occorre
 stabilire  inoltre  se   un'eventuale   eccezione   di   legittimita'
 costituzionale  in ordine al sistema della stabilita' obbligatoria, o
 piu' esattamente, ai  limiti  dimensionali,  riferiti  al  datore  di
 lavoro,  che  ne condizionano l'applicabilita', debba necessariamente
 ed inevitabilmente coinvolgere anche il sistema della stabilita'  re-
 ale,  o,  piu' esattamente, i limiti dimensionali, riferiti al datore
 di lavoro, che condizionano l'applicabilita' anche di questa forma di
 tutela.
    Al primo di questi due quesiti deve darsi risposta positiva.    La
 normativa   della   legge  n.  604/1966  nel  suo  complesso,  ed  in
 particolare, per quanto qui interessa, l'art. 11  la'  dove  fissa  i
 limiti dimensionali delle imprese come criterio di applicazione della
 tutela,  non  possono  considerarsi  abrogati  e risultano tuttora in
 vigore.
    Sussiste infatti un'area,  sia  pure  relativamente  limitata,  di
 applicazione  della  sola  legge  del  1966, e non dell'art. 18 della
 legge n. 300/1970, della sola tutela obbligatoria e non di quella re-
 ale, tutte le volte in cui l'impresa datrice  di  lavori  occupi  nel
 complesso  piu'  di  trentacinque  dipendenti  (e rientri cosi' nella
 previsione dell'art. 11 della legge n. 604/1966), ma  non  ne  occupi
 almeno  quindici,  se industriale o commerciale, oppure cinque, se si
 tratti di un'impresa agricola, in quella stessa  sede,  stabilimento,
 filiale,  ufficio  e reparto autonomo, oppure nello stesso comune, in
 cui e' impiegato il lavoratore (e non rientri cioe' nella  previsione
 dei primi due commi dell'art. 35 della legge n. 300/1970).
    In  altri  termini  la  norma  qui  contestata,  ed, in genere, il
 sistema della stabilita' obbligatoria, e' rimasta in  vigore  per  le
 imprese  di  dimensioni non ampie, ma neppure ridotte, che siano dis-
 perse sul territorio senza costituire nuclei di qualche  consistenza,
 o,  meglio,  la'  dove  esse non costituiscono nuclei di apprezzabile
 consistenza.
    Inoltre,  poiche'  l'art.  35  della  legge  n.  300/1970   sembra
 delimitare  positivamente l'ambito di applicazione delle norme di cui
 al precedente art. 18 e del titolo  terzo,  ed  anche  l'art.  37  fa
 riferimento  specifico, in questo caso per l'applicazione dell'intera
 legge, ad alcune categorie di soggetti (gli enti  pubblici  economici
 ed  in  genere  gli  enti  pubblici  per  i  quali la materia non sia
 regolata diversamente), si deve  ritenere,  per  esclusione,  che  il
 predetto  art.  18,  fondamento del principio della stabilita' reale,
 non  si applichi ai datori di lavoro non contemplati ne' dall'art. 35
 ne' dall'art. 37, a quelli cioe' che non siano ne' imprese  ne'  enti
 pubblici.
    A  quest'ultima  categoria  residuale  di  datori di lavoro non si
 applica quindi il principio della stabilita'  reale,  ma  si  applica
 invece  quello della stabilita' obbligatoria qualora occupino piu' di
 trentacinque dipendenti e rientrino cosi' nella previsione  dell'art.
 11 della legge n. 604/1966, che non pone distinzioni in proposito tra
 differenti  categorie  di datori di lavoro.  Pertanto, per quanto qui
 interessa, la norma in esame deve ritenersi tuttora in vigore.
    4. - Al secondo quesito deve darsi invece risposta negativa.
    E' vero che le argomentazioni svolte dalla difesa  del  ricorrente
 partono  da  due esigenze, quella dell'uguaglianza di posizione tra i
 lavoratori indipendentemente dalle  dimensioni  dell'impresa  in  cui
 lavorano  e quella di un controllo giurisdizionale sui licenziamenti,
 che sembrano postulare l'eliminazione di qualsiasi  limite  frapposto
 al  loro operare, e percio' sia a quelli che si oppongono alla tutela
 meramente obbligatoria sia a quelli che si oppongono alla tutela  re-
 ale.    Cio'  non  di  meno, le due fattispecie normative non possono
 porsi su di uno stesso piano, non solo perche', come e' evidente,  e'
 diversa  la  loro  efficacia  a tutela dei diritti del lavoratore, ma
 anche perche', correlativamente, e' diverso  il  loro  impatto  sulla
 realta'  aziendale.    In  particolare  la  tutela  obbligatoria  pur
 comportando un vincolo economico destinato ad indurre  il  datore  di
 lavoro  alla riassunzione del lavoratore, non rende obbligatoria tale
 riassunzione e percio' non incide in senso proprio sulla liberta' dal
 datore di lavoro e sull'organizzazione dell'impresa.
    Evidentemente quanto piu'  un'impresa  e'  grande  tanto  piu'  e'
 spersonalizzata,   e   puo'  pertanto  assorbire  senza  contraccolpi
 rilevanti anche un ordine di reintegrazione imposto dall'esterno.  In
 un'impresa di dimensioni ridotte o  ridottissime  invece  i  rapporti
 rimangono  essenzialmente personali, e permeati spesso da un elemento
 fiduciario, e pertanto la reintegrazione  forzata  di  un  lavoratore
 licenziato,  se amplia la liberta' del prestatore comprime quella del
 datore di lavoro.
    In realta' alle esigenze poste alla base della richiesta di tutela
 dei lavoratori  dai  licenziamenti  arbitrari  si  contrappongono  in
 questo  caso  altre  esigenze,  proprie  delle  piccole  imprese, che
 sembrano pure non irragionevoli, e che sono state valutate come  tali
 dal  legislatore,  come quella di non incidere sul vincolo fiduciario
 che normalmente intercorre tra datore e prestatore all'interno di  un
 ambiente  ristretto,  e  quella  di  prevenire tensioni difficilmente
 riassorbibili pure in un ambiente  di  lavoro  ristretto,  nel  quale
 datore e prestatore lavorino a contatto diretto: e' di tutta evidenza
 a  questo  proposito  come in un'impresa di dimensioni non ridotte vi
 sia un certo margine di manovra, che  manca  invece  nell'impresa  di
 dimensioni modeste, per evitare, con opportuni spostamenti, e pur nel
 rispetto  di  un ordine di reintegrazione, frizioni eccessive.  Sotto
 questi  profili  dell'esistenza  di  un   rapporto   fiduciario   tra
 prestatore  e  datore,  e  della necessita' di evitare tensioni in un
 ambiente lavorativo ristretto, la posizione dei lavoratori dipendenti
 da una piccola impresa e la loro conseguente esclusione dal beneficio
 della stabilita' reale appaiono sostanzialmente assimilabili a quelle
 dei dirigenti, che come e' noto, sono esclusi  dall'applicazione  sia
 della legge del 1966 che dell'art. 18 della legge n. 300/1970, ma nei
 cui  confronti  opera  (quanto meno a favore dei dirigenti di impresa
 industriali) una forma di  tutela,  introdotta  dalla  contrattazione
 collettiva,  contro  i  licenziamenti  non giustificati, assai simile
 alla stabilita' obbligatoria della legge del 1966, e che  risulta  in
 concreto assai onerosa per le imprese.
    In  realta' la reintegrazione di un lavoratore in un'impresa media
 o grande,  sostanzialmente  spersonalizzata,  ed  una  reintegrazione
 invece  in  un'impresa  di  dimensioni  ridotte o ridottissime, nella
 quale l'elemento personale, ed i rapporti  interpersonali,  rimangono
 ancora  fondamentali, assumono caratteri sensibilmente diversi, e non
 appare corretto assimilarle semplicemente senza tener conto di queste
 differenze.   Percio' il  sistema  della  stabilita'  obbligatoria  e
 quello  della  stabilita'  reale  non possono in realta' essere posti
 sullo stesso piano ai  fini  di  una  eventuale  valutazione  di  non
 manifesta  infondatezza  dei  limiti  dimensionali  che  ne  regolano
 l'applicazione:  il fatto che la stabilita' reale incida  in  maniera
 diretta  sulla  liberta' delle imprese, e percio' sulla liberta', non
 soltanto  economica,  degli   imprenditori,   integra   un   elemento
 discriminante   che   sembra   idoneo   a   configurare  diversamente
 l'apposizione di limiti dimensionali all'operare  del  sistema  della
 stabilita'  reale  rispetto  a quella prevista invece per la semplice
 stabilita' obbligatoria.
    Se ne deve concludere che l'eventuale non  manifesta  infondatezza
 dell'art. 11 della legge n. 604/1966 non trascina necessariamente con
 se'  quello  dei primi due commi dell'art. 35 della legge n. 300/1970
 in relazione all'art. 18 della stessa legge.  In altri  termini,  per
 quanto   attiene  alla  stabilita'  reale,  la  differenza  oggettiva
 conseguente alle diverse caratteristiche dell'impresa piccola  o  non
 piccola,  rende non irrazionale la scelta legislativa che ha disposto
 un  diverso  trattamento  in  relazione  alla  differente  grandezza,
 calcolata  in base al numero degli addetti, dell'impresa stessa.  Per
 questa stessa  ragione,  il  Pretore  non  ritiene  di  sollevare  di
 ufficio,  come  sarebbe  stato  astrattamente possibile, questione di
 costituzionalita',  per  eventuale  contrasto  con  l'art.  3   della
 Costituzione,  appunto  dell'art.  35  in relazione all'art. 18 della
 legge n. 300/1970.
    5. - Vi sono dunque alcuni argomenti contrari all'estensione della
 tutela contro i licenziamenti ad nutum, alcune ragioni giustificative
 dell'esclusione da essa dei lavoratori occupati presso le imprese  di
 dimensioni  piu'  ridotte  e  presso i datori di lavoro che non siano
 imprese, che valgono pero' soltanto  nei  confronti  della  cosidetta
 tutela  reale,  che  porta  alla effettiva reintegrazione all'interno
 dell'impresa  del  lavoratore  ingiustificatamente   licenziato   con
 ricostituzione  forzata  del  rapporto  di  lavoro,  ma  che  non  si
 estendono invece alla semplice tutela obbligatoria  che  permette  in
 ogni  caso al datore di lavoro di evitare la reintegrazione effettiva
 con il versamento di una somma di denaro prefissata, senza con questo
 lasciare il lavoratore all'arbitrio del datore.
    Si tratta, come  si  e'  visto,  delle  motivazioni  attinenti  al
 carattere  fiduciario che permea il rapporto di lavoro in una piccola
 impresa,   e   all'esigenza   di   evitare   tensioni   difficilmente
 riassorbibili  all'interno  di  un ambiente lavorativo ristretto.  In
 realta' peraltro la principale  ragione  giustificativa  del  diverso
 trattamento  nei  confronti  dei  dipendenti  da piccole imprese, per
 escluderli dalla tutela contro il rischio di licenziamenti arbitrari,
 viene normalmente rinvenuto  nella  necessita'  di  non  caricare  le
 piccole  imprese, strutturalmente piu' deboli, di oneri economici che
 non sarebbero in grado di sopportare.
    Si  tratta  di  un   argomentazione   astrattamente   valida   per
 l'esclusione  sia  dal  rimedio  della stabilita' reale che da quello
 della stabilita' obbligatoria, anzi in realta'  dell'unico  argomento
 astrattamente  idoneo  a  giustificare quest'ultima esclusione, ma si
 tratta per la verita' di un argomento fallace.
    In  realta'  il  criterio  dimensionale  basato  sul  numero   dei
 dipendenti  non  appare  affatto idoneo, in particolare nell'attualel
 momento storico e nell'attuale stato  di  evoluzione  delle  tecniche
 produttive,  a valutare la capacita' di un impresa a sopportare oneri
 economici.  Innanzi tutto, per opportuna chiarezza, vanno distinti  i
 due  concetti  di  oneri  economici  in  senso  assoluto,  e di oneri
 economici per lavoratore addetto.
    Puo' essere vero,  come  linea  di  tendenza,  che  un'impresa  di
 maggiori dimensioni ha un maggior potenziale economico e finanziario,
 ma proprio perche' ha un maggior numero di dipendenti, il suo rischio
 di  dover  sopportare  gli  oneri  conseguenti  ad  un  licenziamento
 annullato, e pertanto il suo onere finanziario, e'  proporzionale  al
 numero  dei  dipendenti stessi.   Invece l'impresa di dimensioni piu'
 piccole ha forse  (sempre  come  linea  di  tendenza)  un  potenziale
 economico-finanziario  complessivo  minore,  ma  e'  soggetta anche a
 minori oneri di questo tipo, proprio perche' ha un  minor  numero  di
 dipendenti.
    Quello  che  puo' rilevare ai fini in esame percio' non e' l'onere
 finanziario complessivo, ma piuttosto l'onere finanziario per  unita'
 lavorativa impiegata.  Questo appare essere l'unico criterio corretto
 di comparazione.
    Chiarito  questo,  non puo' dirsi che, in particolare nell'attuale
 assetto produttivo, esista una debolezza  strutturale  delle  piccole
 imprese  rispetto a quelle piu' grandi, e, tanto meno, che una simile
 asserita debolezza  economico-finanziaria  giustifichi  razionalmente
 una  particolare legislazione in favore delle piccole imprese diretta
 a non sottoporle agli oneri conseguenti  ad  eventuali  licenziamenti
 illegittimi.
    Sotto un primo profilo, sul piano legislativo, si puo' notare come
 interventi  dello  Stato  con  apposite disposizioni di sostegno e di
 riequilibrio in favore delle piccole imprese siano in atto  in  altre
 sedi  piu'  proprie,  in  campo  fiscale  (in  particolare per quanto
 attiene agli adempimenti fiscali), previdenziale, di facilitazioni di
 accesso a crediti agevolati, ecc.  ecc.  Di fronte a questo complesso
 di interventi, che hanno appunto funzioni  di  riequilibrio,  ma  che
 rimangono  a  carico,  sostanzialmente,  della  finanza pubblica, non
 sembra aver ragion  d'essere  un'ulteriore  legislazione  di  favore,
 quella  appunto  che  esenta  le imprese minori da ogni controllo sui
 licenziamenti,  ed  il  cui  onere,  in  realta',  resta  a   carico,
 addirittura, dei lavoratori dipendenti dalle stesse imprese minori.
    Sotto   il   profilo   strutturale,   poi,  la  pretesa  debolezza
 strutturale delle imprese minori corrispondeva ad  un  periodo  ormai
 sorpassato  della  rivoluzione  industriale,  quando,  per  quel  che
 concerne l'aspetto strettamente industriale, soltanto una  produzione
 di massa, con ingente impiego di capitali e di manodopera, consentiva
 l'accesso   a  sistemi  produttivi  piu'  moderni  e  razionali,  con
 moltiplicazione piu'  che  proporzionale  delle  unita'  prodotte,  e
 diminuzione  dei  costi di produzione per unita' di prodotto, mentre,
 per quel che concerne l'aspetto commerciale, solo  la  produzione  di
 massa  ed  ingenti  investimenti di capitali consentivano l'accesso a
 mercati adeguati.   Di qui,  in  quell'epoca  ed  in  quel  contesto,
 un'effettiva debolezza strutturale delle imprese minori, e l'esigenze
 di  agevolarle.    Ma  ormai  in  realta'  la  situazione  e'  mutata
 profondamente.
    L'ulteriore sviluppo delle tecniche  produttive,  e  delle  stesse
 modalita'  di  commercializzazione, ha inciso in vario modo, che vale
 esaminare sommariamente, e senza pretesa di esaustivita', e  che  del
 resto  si  intersecano e si sommano in vario modo tra di loro.  Da un
 lato  in  molti  settori  le  tecniche  produttive  moderne  si  sono
 modificate in modo tale da poter essere applicate anche ad imprese di
 dimensioni  ridotte  con  accesso  anche di queste ultime ai processi
 produttivi piu' razionali ed efficaci.
    D'altro lato, la sempre crescente utilizzazione di  macchinari,  e
 di  forme  di  automazione  sempre  piu'  complessa,  con progressiva
 sostituzione dell'attivita' delle macchine  al  lavoro  umano,  rende
 possibile   l'esistenza,   ed   il   continuo  sviluppo,  di  imprese
 caratterizzate  da  un  elevato  impiego  di  capitali,  una  ingente
 produzione,  un  alto  valore  aggiunto,  ma  con  modesto impiego di
 manodopera.  Si tratta in realta', dal punto  di  vista  economico  e
 finanziario,   di   realta'  economiche  non  piccole,  ma  divengono
 "piccole" soltanto se esaminati in base ad un indice  di  riferimento
 improprio   quale   e'  quello  relativo  al  numero  dei  dipendenti
 (evidentemente criteri distintivi  piu'  adeguati  potrebbero  essere
 altri,  del resto impiegati ad altri fini, che si basino, ad esempio,
 sull'entita' del fatturato, o del capitale impiegato, ecc. ecc.).
    Sotto un terzo profilo lo stesso progresso tecnologico che, in  un
 determinato  contesto  storico,  ha  richiesto la concentrazione e la
 unificazione dei procedimenti produttivi, favorisce ora,  o,  almeno,
 consente,  la  loro  separazione,  talvolta  (ma  non  sempre)  anche
 geografica, in singole fasi  distinte,  e  da  svolgersi  in  singole
 unita'  produttive altamente specializzate.  Di qui lo svilupparsi di
 singole  unita'  produttive  che  eseguono   solo   una   parte   del
 procedimento  produttivo,  con  ridotto  impiego  di  manodopera,  ma
 all'interno di un procedimento produttivo complessivo  caratterizzato
 dall'uso delle tecniche piu' moderne e sofisticate.
    Questo  rende  possibile  la  frantumazione  delle  imprese,  resa
 appetibile  non  tanto  da  esigenze  strettamente  produttive  (anzi
 probabilmente   irrazionale   dal   punto   di   vista   strettamente
 "aziendalistico"), ma  proprio  dall'opportunita'  di  usufruire  del
 diverso  regime  stabilito in materia di licenziamenti per le piccole
 imprese.
    Sotto  un'ulteriore  profilo,  quello  strettamente   commerciale,
 l'utilizzazione  di  piu'  moderne forme distributive, e di strutture
 consorziali per la promozione delle vendite,  consentono  anche  alle
 imprese   minori   l'accesso   ai  mercati  esteri.     Di  fronte  a
 quest'imponente serie di modificazioni, del resto soltanto accennate,
 appare antistorico continuare a sostenere che le imprese minori hanno
 carattere  marginale,  di  debolezza economica strutturale, e che per
 questo debbono essere sostenute con  un  regime  piu'  favorevole  in
 materia di licenziamenti.
    E'  vero piuttosto che, secondo le circostanze, si possono trovare
 in condizioni  di  debolezza  strutturale  sia  imprese  piccole  che
 imprese  meno  piccole,  e  che  il  legislatore, se lo ritiene, puo'
 agevolare in altro  modo  (come  del  resto  avviene  effettivamente)
 singole  categorie di imprese in condizioni di debolezza strutturale,
 ma addossando, in vario modo, gli oneri  di  questi  interventi  allo
 Stato, cioe' alla collettivita', non ai singoli lavoratori.
    Del  resto,  al di la' di un problema di risparmio di costi (che -
 ovviamente - non si pone per l'imprenditore che,  ancorche'  piccolo,
 correttamente  non  ponga in essere licenziamenti ingiustificati, con
 il risultato paradossale che l'attuale legislazione viene a vantaggio
 soltanto dell'imprenditore "piccolo" che faccia un uso arbitrario del
 proprio potere di licenziamento)  non  esiste  un  nesso  logico  fra
 debolezza   strutturale   di  un'impresa  e  non  sindacabilita'  dei
 licenziamenti che trovassero la  loro  ragione  determinante  proprio
 nella    debolezza    dell'impresa,   per   esempio   per   una   sua
 ristrutturazione, sono sorretti da un giustificato  motivo  oggettivo
 pienamente  valutabile  come  tale.    Pertanto  l'asserita debolezza
 economica e finanziaria delle imprese minori in realta' non  sussiste
 come  tale  e,  comunque, non costituirebbe un elemento discriminante
 razionale per giustificare il diverso regime cui sono assoggettate in
 materia di licenziamenti.   Piuttosto questo  diverso  regime,  lungi
 dall'essere  razionale,  appare  sotto  diversi  profili, addirittura
 irrazionale.
    L'opportunita'  di  usufruire  del  regime  di  favore  della  non
 sindacabilita'  dei licenziamenti, con la conseguente "necessita'" di
 non superare il numero di dipendenti adottato dalla legge come indice
 di   riferimento,   comprime   la   crescita   fino   a    dimensioni
 strutturalmente  ottimali  sia  delle  imprese  in  quanto  tali  che
 dell'occupazione nelle singole  imprese,  oppure,  come  gia'  si  e'
 osservato,  favorisce forme di frammentazione non sempre giustificate
 sotto il profilo produttivo, ed agisce pertanto, in questi modi, come
 elemento frenante per l'economia nel suo complesso.   Parimenti,  non
 appare  sempre  giustificato  il regime di privilegio in favore delle
 imprese "piccole", al  di  sotto  del  limite  di  riferimento,  che,
 incidendo  sui  costi  e percio' sui meccanismi della concorrenza, si
 risolve in un danno per le imprese "non piccole",  al  di  sopra  del
 limite  di  riferimento,  ed  agisce  in  questo  modo  come elemento
 frenante rispetto allo sviluppo dell'occupazione nel suo complesso.
    6.  -  Anche  sotto  un  altro  profilo  il  limite,  legato  alle
 dimensioni  aziendali  misurate  in  base al numero degli addetti, di
 applicazione dell'art. 11 della legge n. 604/1966 appare irrazionale,
 e tale anzi da comportare  una  ancor  piu'  evidente  ingiustificata
 difformita'  di  trattamento.    Per  effetto  del diverso sistema di
 computo  stabilito  dall'art.  11  stesso,  che  contempla  l'insieme
 complessivo   dei  lavoratori  impiegati  in  un'impresa,  ed  invece
 dall'art. 35 della legge n. 300/1970, che al contrario fa riferimento
 agli addetti impiegati nella stessa unita' produttiva, o nello stesso
 comune, puo' avvenire che una stessa impresa non raggiunga  i  limiti
 dimensionali  complessivi richiesti per l'applicazione della legge n.
 604/1966, ma sia formata da due o piu' unita'  produttive,  una  sola
 delle  quali  superi il limite di 15 dipendenti previsto dall'art. 35
 della legge n. 300/1970.  In una simile fattispecie lo stesso  datore
 di  lavoro  potrebbe licenziare immotivatamente un dipendente addetto
 ad una delle unita' produttive minori,  mentre  sarebbe  soggetto  ad
 impugnazione  in  sede giudiziaria, e all'eventuale reintegrazione ai
 sensi dell'art. 18 della legge n. 300/1970, in caso di  licenziamento
 di un lavoratore addetto all'unita' produttiva maggiore.
    Allo  stesso  modo  sarebbe soggetto sia al controllo da parte del
 giudice sui licenziamenti che all'eventuale reintegrazione un  datore
 di  lavoro  che  impiegasse  sedici  dipendenti  in  un'unica  unita'
 produttiva  accentrata,  mentre  non  sarebbe   soggetto   ad   alcun
 controllo, e ad alcuna sanzione, un datore di lavoro che ne occupasse
 molti  di piu', ma meno di trentacinque, purche' in unita' produttive
 decentrate nessuna di entita' tale da raggiungere i quindici addetti.
 Simili esempi  dimostrano  non  solo  l'assoluta  irrazionalita'  dei
 limiti  dimensionali  in  esame,  ma  altresi' la loro incapacita' ad
 esprimere la dimensione maggiore o minore di un'impresa.
    Anche partendo, in via di ipotesi di lavoro, dal  presupposto,  in
 realta'  inesatto,  che  il  numero  dei  lavoratori addetti valga ad
 esprimere la dimensione di un'impresa, il fatto stesso  che  esistano
 situazioni  in cui e' soggetto ad impugnazione in sede giudiziaria un
 licenziamento intimato da un'impresa di minori dimensioni mentre  non
 lo  e'  quello  intimato da un'impresa di dimensioni maggiori, oppure
 che i licenziamenti effettuati da una medesima impresa siano, o meno,
 sindacabili, in base a  fattori  sostanzialmente  accidentali,  rende
 evidente  sia  la  sostanziale irrazionalita' dei limiti dimensionali
 vigenti  in  proposito,  sia  il  fatto  che  esso   crea   ulteriori
 irrazionali   ed  ingiustificate  differenze  di  trattamento  tra  i
 lavoratori, con ulteriore sospetto  di  violazione,  sotto  un  nuovo
 profilo  non dedotto in giudizio (e, per la verita', non rilevante ai
 fini della soluzione della fattispecie oggetto di causa), dell'art. 3
 della Costituzione.
    7.  -  Ricapitolando  l'analisi  fin  qui   condotta,   mentre   i
 licenziamenti intimati da imprese non piccole sono soggetti a riesame
 in   sede  giudiziaria,  con  il  risultato,  in  caso  di  accertata
 illegittimita', secondo i casi, o di un obbligo di  riassunzione  cui
 pero'  il datore di lavoro puo' sottrarsi adempiendo all'obbligazione
 sostitutiva del pagamento di una somma prefissata di denaro  (sistema
 della  cosidetta  "stabilita'  obbligatoria",  di  cui  alla legge n.
 604/1966), o di un'obbligo di reintegrazione nel posto di lavoro  con
 ricostituzione  del  rapporto, oltre al risarcimento del danno in una
 somma prefissata di denaro (sistema della cosidetta  "stabilita'  re-
 ale",  di  cui  all'art.  18 della legge n. 300/1970), nessuna tutela
 protegge dai licenziamenti  ingiustificati  i  lavoratori  dipendenti
 dalle  imprese  minori,  quelle  di  dimensioni  inferiori  ai limiti
 dimensionali previsti per la loro applicazione dalle due leggi  sopra
 citate.    Mentre  in base ad un esame comparativo delle contrapposte
 esigenze dei lavoratori dipendenti e delle  piccole  imprese  da  cui
 essi   dipendono,   possono  sussistere  motivi  giustificativi,  non
 irragionevoli, ed attinenti sia al rapporto fiduciario esistente  tra
 datore  e  prestatore  in  una realta' produttiva ristretta, sia alla
 necessita' di evitare  tensioni  difficilmente  riassorbibili  in  un
 ambiente  lavorativo  limitato  anche  fisicamente, per non estendere
 anche  ai  lavoratori  delle  piccole   imprese   la   reintegrazione
 obbligatoria propria della tutela reale, non sussistono invece validi
 motivi  per  non  estendere  anche  ad  essi  la piu' ridotta, ma non
 irrilevante, tutela obbligatoria prevista dalla legge del 1966.
    In particolare  l'asserita  maggior  debolezza  strutturale  delle
 piccole  imprese,  addotta  come motivo a questi fini, in realta' non
 sussiste, in quanto nell'attuale  contesto  economico  e  sociale  le
 imprese  di  dimensioni  ridotte  non  si  trovano necessariamente, e
 neppure nella normalita' dei  casi,  in  condizioni  di  precarieta',
 mentre  eventuali  fasce di imprese piu' deboli (che esistono sia tra
 quelle piccole che tra quelle meno piccole) possono essere agevolate,
 quando il legislatore lo  ritenga  necessario,  in  altri  modi  piu'
 propri  (cosi'  come, del resto, le piccole imprese vengono agevolate
 in concreto), non comprimendo le posizioni dei lavoratori dipendenti.
 La differenza di trattamento imposta ai lavoratori  dipendenti  dalle
 piccole   imprese  al  di  sotto  dei  quindici  dipendenti  (perche'
 altrimenti si applicherebbe loro l'art. 18 della legge  n.  300/1970)
 nel  privarli  di qualsiasi tutela contro eventuali licenziamenti non
 sorretti da una giusta causa o da un giustificato motivo, e  pertanto
 arbitrari,  appare pertanto priva di qualsiasi giustificazione valida
 e razionale.
    Ne' si tratta di una differenza di trattamento di limitato rilievo
 in quanto dal lavoro (sul quale, per l'art.  1,  primo  comma,  della
 Costituzione,  e' fondata la nostra Repubblica e che, per l'art. 4 di
 essa, ogni cittadino ha il diritto ed il  dovere  di  svolgere)  ogni
 lavoratore trae non solo i mezzi per il sostentamento proprio e della
 propria  famiglia,  ma  lo  sviluppo  della  propria personalita', il
 rispetto di se' stesso, la dignita' di fronte agli altri membri della
 comunita'.
    8.  -  L'insicurezza  sul  lavoro,  della  propria  posizione   di
 lavoratore, inevitabilmente connaturata nella condizione umana di chi
 sa   di   poter  essere  espulso,  con  minime  formalita',  e  senza
 spiegazioni,  dal  proprio  posto  di  lavoro,  e'  al  tempo  stesso
 insicurezza della vita, e non solo in senso materiale, anche in senso
 morale.    Percio'  una  normativa che consente, senza fornire alcuna
 forma  di  tutela,  licenziamenti  ingiustificati  sembra  porsi   in
 contrasto con diversi principi dalla Costituzione.
    Il  fatto  stesso  della irrazionale disparita' di trattamento tra
 diverse categorie di  cittadini  e  di  lavoratori,  quelli  tutelati
 contro  eventuali  licenziamenti  illegittimi  e quelli non tutelati,
 sembra confliggere con l'art. 3,  primo  comma,  della  Costituzione,
 secondo  il  quale  "tutti  i cittadini hanno pari dignita' sociale e
 sono uguali dinnanzi alla  legge,  senza  distinzione  di  sesso,  di
 razza, di lingua, di religione, di opinioni personali e sociali".  In
 questo  caso una differenza di trattamento, che per di piu' coinvolge
 un momento fondamentale della  vita  personale  e  sociale  quale  e'
 appunto  il  lavoro,  viene  fatta  discendere,  senza nessuna valida
 ragione giustificativa, da  un  elemento  estrinseco  ed  accidentale
 quale  e'  appunto  l'entita'  dimensionale  dell'impresa  datrice di
 lavoro.
    In realta' in questo caso l'art. 3,  primo  comma,  viene  violato
 anche  sotto un altro profilo, oltre che sotto quello, denunziato dal
 ricorrente, della differenza di  trattamento  di  fronte  alla  legge
 poiche'  nel  nostro  sistema  democratico  che,  in  forza del passo
 iniziale della Costituzione, e' fondato appunto sul lavoro, il lavoro
 stesso  e'  fattore  di  dignita'  personale, una normativa che ponga
 distinzioni ingiustificate tra categorie di cittadini e di lavoratori
 per quanto attiene alla tutela del loro lavoro  che  renda  meramente
 precaria  la  posizione  di  alcuni,  e di essi soltanto, sul proprio
 lavoro, contrasta non solo con il  loro  diritto  all'uguaglianza  di
 fronte alla legge ma viola anche la loro dignita' sociale.
    Ma,  sotto un'ulteriore profilo, la norma in esame sembra porsi in
 contrasto anche con il  secondo  comma  dello  stesso  art.  3  della
 Costituzione, per il quale "e' compito della Repubblica rimuovere gli
 ostacoli  di  ordine  economico e sociale, che, limitando di fatto la
 liberta' e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo
 della personalita' umana e  l'effettiva  partecipazione  di  tutti  i
 lavoratori  all'organizzazione  politica,  economica  e  sociale  del
 Paese".   Una legislazione come  quella  in  esame  che  priva  certe
 categorie  di  lavoratori  di  ogni  tutela  in  ordine  ai motivi di
 cessazione del loro  rapporto  di  lavoro,  lungi  dall'adempiere  ai
 compiti  indicati  dalla norma costituzionale sopra riportata, sembra
 diretta a produrre effetti esattamente contrari, di  frapporre  nuovi
 ostacoli di ordine economico e sociale, di limitare di fatto non solo
 l'uguaglianza  ma  la stessa liberta' sostanziale di quelle categorie
 di lavoratori mantenuti in una permanente situazione  di  precarieta'
 dalla    mancanza    di   qualsiasi   tutela   contro   licenziamenti
 ingiustificati,  di  impedire  loro  il  pieno  sviluppo,   possibile
 soltanto  in  una  condizione  di  liberta'  sostanziale,  della loro
 personalita' umana, di contrastare la loro piena  partecipazione,  se
 non   all'attivita'  politica  in  senso  stretto,  almeno  a  quella
 sindacale che ne e' una parte.   Infine la norma  in  esame,  appunto
 perche'   limita  soltanto  ad  alcune  categorie  di  lavoratori  la
 possibilita' di  sottoporre  ad  un  riesame  da  parte  del  giudice
 eventuali  licenziamenti  ingiustificati, priva in realta' coloro che
 ne sono esclusi da ogni tutela su questo  piano,  e  sembra  pertanto
 porsi  in  contrasto  con l'art. 35, primo comma, della Costituzione,
 che dispone che "la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme
 ed applicazioni".
    9. -  Concludendo  dunque  si  deve  ritenere  non  manifestamente
 infondata  la  questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 11
 della legge 15 luglio 1966,  n.  604,  nella  parte  in  cui  esclude
 dall'applicazione  della legge stessa i datori di lavoro che occupano
 fino a trentacinque dipendenti, per contrasto con l'art. 3,  primo  e
 secondo comma, e dell'art. 35, primo comma, della Costituzione.
    La  questione  d'altra  parte, appare rilevante, anzi decisiva, ai
 fini della decisione del presente giudizio.   Poiche' la  difesa  del
 ricorrente   aveva  prospettato  la  questione  di  costituzionalita'
 soltanto in termini di contrasto  con  l'art.  3,  essa  deve  essere
 sollevata  in  questi  termini  in accoglimento della domanda, mentre
 deve essere sollevata di ufficio per contrasto anche con  l'art.  35,
 primo comma.
    Pertanto, ritenuto che la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  11  della legge 15 luglio 1966, n. 604, nella parte in cui
 esclude dall'applicazione della legge stessa i datori di  lavoro  che
 occupano  fino a trentacinque dipendenti, per contrasto con l'art. 3,
 primo  e  secondo  comma,  e  con  l'art.  35,  primo  comma,   della
 Costituzione,   sia   rilevante   ai   fini  della  decisione  e  non
 manifestamente   infondata,   si   solleva   dinnanzi   alla    Corte
 costituzionale,  ai  sensi degli artt. 1 della legge costituzionale 9
 febbraio 1948, n. 1, e 23 della  legge  11  marzo  1953,  n.  87,  la
 questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 11 della legge 15
 luglio 1966, n. 604, nella parte  in  cui  esclude  dall'applicazione
 della   legge   stessa  i  datori  di  lavoro  che  occupano  fino  a
 trentacinque dipendenti,  sia,  in  accoglimento  della  domanda  del
 ricorrente,  per contrasto con l'art. 3, primo e secondo comma, della
 Costituzione sia, di ufficio, per  contrasto  con  l'art.  35,  primo
 comma,  della  Costituzione.    Il giudizio deve essere interrotto in
 questa  sede,  con  immediata  trasmissione  degli  atti  alla  Corte
 costituzionale.
    Ai sensi dell'art. 23, ultimo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
 87,  va  disposto  che  la  presente  ordinanza  venga,  a cura della
 cancelleria, notificata al Presidente del Consiglio dei  Ministri  ed
 alle  parti  costituite,  e comunicata ai Presidenti delle due Camere
 del Parlamento.
                               P. Q. M.
    Visti gli artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio  1948,  n.
 1, e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Solleva  dinnanzi  alla  Corte  costituzionale,  la  questione  di
 legittimita' costituzionale dell'art. 11 della legge 15 luglio  1966,
 n.  604,  nella  parte  in  cui esclude dall'applicazione della legge
 stessa  i  datori  di  lavoro  che  occupano  fino   a   trentacinque
 dipendenti,  per contrasto con l'art. 3, primo e secondo comma, e con
 l'art. 35, primo comma, della Costituzione;
    Dispone l'interruzione del  giudizio  e  l'immediata  trasmissione
 degli atti alla Corte costituzionale;
    Dispone che la presente ordinanza venga, a cura della cancelleria,
 notificata  al  Presidente  del  Consiglio dei Ministri ed alle parti
 costituite,  e  comunicata  ai  Presidenti  delle  due   Camere   del
 Parlamento.
      Bologna, addi' 14 aprile 1989
                          Il pretore: MONACI

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