N. 550 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 giugno 1992

                                N. 550
  Ordinanza emessa il 10 giugno 1992 dal tribunale di sorveglianza di
                                Firenze
    nel procedimento di sorveglianza nei confronti di Giove Giacomo
 Ordinamento penitenziario - Divieto di concessione di benefici per
    gli appartenenti alla criminalita' organizzata o per condannati di
    taluni  delitti  -  Richiesta  di   liberazione   condizionale   -
    Ammissibilita' per coloro che collaborano con la giustizia a norma
    dell'art.   58-ter   della   legge   n.   354/1975  -  Conseguente
    impossibilita' per coloro che non possono offrire collaborazione -
    Lamentata mancata considerazione del  percorso  rieducativo  e  di
    risocializzazione  del condannato - Violazione del principio della
    finalita' rieducativa della pena -  Compressione  del  diritto  di
    difesa,  in  particolare  al  riesame  degli effetti rieducativi e
    riabilitativi  dell'esecuzione  della  pena   -   Violazione   del
    principio  di  irretroattivita'  della legge penale, nella specie:
    regime della pena.
 (Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 4-bis, primo comma, parte prima,
    modificato dal d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, art.  15,  convertito,
    con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356).
 (Cost., artt. 24, secondo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo
    comma).
(GU n.41 del 30-9-1992 )
                     IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
    A  scioglimento  della riserva espressa nell'udienza del 10 giugno
 1992;
    Visti ed esaminati gli atti della  procedura  di  sorveglianza  in
 materia  di  liberazione  condizionale nei confronti di Giove Giacomo
 nato il 5 aprile 1927  a  Palagiano  (Taranto)  detenuto  nella  casa
 reclusione Portoazzurro;
    Verificata la regolarita' degli atti sotto il profilo processuale;
                             O S S E R V A
    Nella    procedura    suindicata    si    solleva   eccezione   di
 incostituzionalita',  per  la  quale  si  rimanda  alla   motivazione
 contenuta nei fogli allegati.
 P. Q. M.
   Visto l'art. 23, della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Pronunciando  nella  procedura  suindicata  nei confronti di Giove
 Giacomo:
      dichiara  non   manifestamente   infondata   la   questione   di
 illegittimita'  costituzionale cosi' come dettagliatamente indicata e
 articolata al n. 6 della motivazione allegata;
      sospende la procedura di sorveglianza in corso in relazione alla
 istanza avanzata dall'interessato di liberazione condizionale;
      dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per
 la decisione in merito alla questione sollevata;
      manda la cancelleria per le notificazioni, le comunicazioni e le
 forme di pubblicita' in genere previste dall'art. 23,  quarto  comma,
 della legge 11 marzo 1953, n. 87.
       Firenze, addi' 10 giugno 1992
                    I giudici: (firme illeggibili)
    Depositato in cancelleria il 22 giugno 1992.
                        Il cancelliere: SORTINO
                        MOTIVI DELLA DECISIONE
    1. - L'interessato ha chiesto la liberazione condizionale ai sensi
 art.  176  del  c.p.  (sulla rilevanza della normativa che si esamina
 nelle pagine che seguono in materia di liberazione  condizionale,  v.
 oltre al n. 5).
    Sulla   ammissione  a  tale  concessione  incide  il  nuovo  testo
 dell'art. 4- bis della legge penitenziaria (26 luglio 1975, n.  354),
 cosi'  come  modificato dall'art. 15 del d.-l. 8 giugno 1992, n. 306,
 che dispone: " .. le misure alternative previste dal capo sesto della
 legge 26 luglio 1975, n. 354, possono essere concesse ai detenuti  ..
 per  delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art.
 416- bis del codice penale, ovvero al fine di  agevolare  l'attivita'
 delle  associazioni  previste  dallo  stesso  articolo, nonche' per i
 delitti di cui agli articoli 416- bis  e  630  del  codice  penale  e
 all'art.  74  del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, solo nei casi in cui
 tali detenuti .. collaborano con la giustizia a norma  dell'art.  58-
 ter".
    L'interessato e' condannato per il delitto di cui all'art. 630 del
 c.p. ed altri reati e detenuto per effetto di tale condanna.
    Questo tribunale, per gli aspetti e le considerazioni che seguono,
 ritiene     non    manifestamente    infondato    il    rilievo    di
 incostituzionalita' della nuova normativa ora introdotta.
    2. - Rilievo di incostituzionalita' della nuova normativa  di  cui
 alla  prima  parte  del  primo  comma dell'art. 4- bis della legge 26
 luglio 1975, n. 354, cosi' come modificato dall'art. 15 del  d.-l.  8
 giugno  1992, n. 306, per contrasto con l'art. 27, terzo comma, della
 Costituzione.
    2 a). - Si ricorda  quanto  chiarito  dalla  Corte  costituzionale
 nella  sentenza  n.  204/1974  circa il senso e la portata del citato
 art. 27, terzo comma, della Costituzione. In detta sentenza si  legge
 che,  sulla  base del precetto di cui alla norma ora citata "sorge il
 diritto  per  il  condannato a che, verificandosi le condizioni poste
 dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della  realizzazione
 della  pretesa  punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in
 effetti  la  quantita'  di  pena  espiata  abbia   o   meno   assolto
 positivamente  al suo fine rieducativo"; diritto questo - nota ancora
 la sentenza citata - che "deve  trovare  nella  legge  una  valida  e
 ragionevole garanzia giurisdizionale".
    Questi  precisi  significato  e portata della norma costituzionale
 sono  richiamati  anche  in  piu'  recenti  decisioni   della   Corte
 costituzionale:  si  veda  la  sentenza  n.  343/1987 (motivazione in
 diritto, n. 7, in fine); si veda ancora la sentenza n. 282/1989,  che
 al  n.  8  della motivazione in diritto riporta proprio i passi della
 sentenza n. 204/1974 sopra richiamati e si riporta  agli  stessi;  si
 veda  infine la recentissima sentenza n. 125/1992, che, al n. 4 della
 motivazione in  diritto  torna  a  citare  e  confermare  i  principi
 suindicati.
    2  b).  -  Premesso  quanto sopra, non si puo' non ritenere che il
 diritto del condannato a vedere riesaminato se "la quantita' di  pena
 espiata  abbia  o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo"
 sia messo radicalmente in crisi e contestato quando viene subordinato
 al  verificarsi  di  una  condizione  che  prescinda   dal   percorso
 rieducativo-risocializzativo compiuto dall'interessato.
    Nel caso della nuova normativa di cui al citato art. 4- bis, senza
 la  "collaborazione  con  la  giustizia"  ivi  indicata,  il percorso
 rieducativo-riabilitativo che si deve  accompagnare  alla  esecuzione
 della  pena e' reso irrilevante, frustrando pertanto quella finalita'
 della pena che l'art. 27 stabilisce e l'esercizio del  diritto  sopra
 indicato, che ne deriva.
    Sara' bene chiarire due punti.
    Il  primo. La "collaborazione con la giustizia" di cui all'art. 4-
 bis  citato  e'  quella  che   si   puo'   chiamare   "collaborazione
 processuale"  e  che viene esplicitamente descritta dall'art. 58-ter,
 cui l'art. 4- bis rinvia. Sono considerati "collaboratori" coloro che
 "si sono adoperati per evitare che l'attivita' delittuosa sia portata
 a  conseguenze   ulteriori   ovvero   hanno   aiutato   concretamente
 l'autorita'  di  polizia  o l'autorita' giudiziaria nella raccolta di
 elementi  decisivi   per   la   ricostruzione   dei   fatti   e   per
 l'individuazione o la cattura degli autori dei reati".
    Il   secondo   e   conseguente.   La   sede   naturale  di  questa
 collaborazione e' nel processo, prima della sentenza di condanna.  E'
 vero   che   l'art.  58-  ter  prevede  la  ipotesi  di  condotta  di
 collaborazione (con le stesse  caratteristiche  suindicate)  prestata
 dopo  la  sentenza  di  condanna,  ma  l'attivita' in questione resta
 confinata  nel  momento  dell'accertamento  dei  reati  e  dei   vari
 interventi  in  ordine  agli  stessi  e  alle  loro  conseguenze.  Un
 intervento dopo la  condanna  ha  ancora  queste  caratteristiche  ed
 evidentemente  sara' possibile solo se non vi sia gia' stato l'intero
 chiarimento sullo svolgimento dei fatti e l'intero  intervento  sugli
 effetti degli stessi.
    Non  sembra  dubbio allora che la "collaborazione" in questione e'
 prestata di norma prima che inizi il  processo  di  esecuzione  della
 pena  e,  quando  interviene  a  processo  di esecuzione iniziato, si
 ricollega sempre alla situazione processuale di cognizione dei  fatti
 e deriva la sua possibilita' (o impossibilita') dalle caratteristiche
 di quella situazione.
    Dunque:   e'   tale   "collaborazione",   posta   di  norma  prima
 dell'esecuzione o, se e quando possibile, riferita  a  quel  momento,
 che  decide  se  la esecuzione della pena potra' essere finalizzata a
 costruire un percorso di rieducazione-riabilitazione, nell'ambito del
 quale il condannato potra' fare valere quel diritto al riesame  degli
 effetti  della  esecuzione,  di cui la citata sentenza n. 204/1974 ha
 parlato.
    2  c).  -  Sara'  bene   chiarire   ulteriormente   il   contenuto
 sostanzialmente   mistificatorio   del   collegamento  che  si  vuole
 verosimilmente  stabilire  fra  "collaborazione"  e  svolgimento  del
 percorso  rieducativo-riabilitativo  di  cui  l'art. 27, terzo comma,
 parla.
    La  "collaborazione"  e'  un  opzione  pratica  che  nasce   dalla
 valutazione   della   convenienza   processuale   ed   e'  fortemente
 condizionata dall'andamento delle indagini e del processo. Il cammino
 della rieducazione-riabilitazione che deve caratterizzare il processo
 di esecuzione  della  pena  corrisponde  invece  ad  un  percorso  di
 rivisitazione  dei propri valori, delle proprie condizioni di vita ed
 alla creazione, nella fase riabilitativa, di valori e condizioni  che
 favoriscano un corretto reinserimento sociale.
    Chiariamo quindi che:
      di puo' "collaborare" senza interessarsi a compiere quel cammino
 di cui si e' ora detto;
      si  puo'  non  essere  nelle  condizioni per collaborare per una
 serie di ragioni e situazioni, che ora si cerchera'  di  dettagliare:
 eppure, in tal caso, si puo' invece compiere correttamente il cammino
 di rieducazione-riabilitazione di cui si e' parlato.
    Chiariamo  allora  le situazioni relative alla possibilita' e alla
 praticabilita' della "collaborazione":
       a) non si puo' ignorare il caso di chi non sia responsabile del
 delitto  per  cui  e'  stato  condannato:  caso  che  si  puo'  anche
 considerare  estremo,  ma  che  non  si pone fuori dal nostro sistema
 giuridico se viene previsto e regolato  nelle  sue  conseguenze  agli
 artt.  643  e  647  del  c.p.p.  E  si  puo'  aggiungere che l'errore
 giudiziario regolato e'  quello  verificato  processualmente  con  la
 revisione,  mentre  vi  puo'  anche  essere  un errore non verificato
 eppure egualmente sussistente. E' in questo caso, quando la revisione
 non cancella il giudicato e la pena sopravvive in base a questo,  che
 si verifica una situazione in cui la "collaborazione" di cui si parla
 e' impossibile.
    Si  puo'  aggiungere,  per  vero, che, in tale caso, ci sarebbe da
 discutere anche sulla  possibilita'  dei  percorso  di  rieducazione-
 riabilitazione,  di  cui  si  e'  parlato,  il  quale potra' comunque
 consistere, al di la' di quanto avvenuto e commesso  o  non  commesso
 dall'interessato, nella dimostrazione da parte sua della capacita' di
 rispettare   le   regole   di   convivenza   generale  e  di  sapersi
 correttamente  reintegrare  dal  carcere  nell'ambiente  sociale.  Si
 ripete,  pero': non si puo' chiedere la "collaborazione" in questione
 a chi non e' autore dei fatti per cui e' stato condannato;
       b)  ne'  la collaborazione e', all'opposto, possibile quando le
 indagini hanno, fin dall'inizio, per la flagrante  constatazione  dei
 fatti  o  comunque  per  la  loro  rapida  ricostruzione, chiarito le
 responsabilita' e rimosse le conseguenze dirette dei reati commessi;
       c) e inoltre, rispetto alla "collaborazione" in parola, possono
 essere decisive, e  ostative,  le  specifiche  posizioni  di  singoli
 concorrenti, posizioni riferite ai fatti o al processo.
    E, infatti:
      il  partecipe  di  secondo  piano  puo' non conoscere che il suo
 collegamento  con   il   livello   superiore:   riconosciuto   questo
 collegamento dalle indagini o dalla ammissione del partecipe di grado
 superiore,  nessuna "collaborazione" e' possibile per quello di grado
 inferiore. Si entra insomma in un ordine di concetti, che puo'  anche
 essere  accettabile  sul  piano  della  efficacia processuale, ma che
 diviene francamente inaccettabile quando e' in giuoco, diciamo cosi',
 il "merito penitenziario": l'ordine dei concetti e' che e'  favorito,
 nel  prestare  la  "collaborazione", il piu' responsabile rispetto al
 modesto e secondario partecipe;
      e ancora: secondo l'andamento del processo, vi puo'  essere  chi
 e' raggiunto dallo stesso quando cio' che poteva dire o su cui poteva
 incidere    e'    gia'    stato    detto    o   fatto:   anche   qui,
 "collaborazione"impossibile.
    Se ci si stacca, poi, dalla osservazione relativa al  momento  dei
 fatti  e  si  pensa a quali e quanti possono esserne gli sviluppi nel
 tempo (tanti piu' quanto piu' lungo e' il  tempo  trascorso),  ci  si
 rende  conto  di  come,  in  particolare,  la  richiesta  oggi  della
 "collaborazione processuale" che allora non ci fu  puo'  non  trovare
 risposte  possibili,  attendibili,  verificabili.  Ci  possono essere
 situazioni in cui qualcosa sia ancora possibile, ma in molti,  troppi
 casi, cio' non accadra' ed e' verosimile che non possa accadere.
    A  questo  riguardo,  sembra  inevitabile  una  riflessione: se la
 norma, introdotta, nella sua generalita' e  genericita',  si  applica
 indifferentemente  in tutte le situazioni, ignorando quelle in cui e'
 impraticabile, la norma stessa appare, cosi'  com'e',  inaccettabile.
 La stessa si risolve, nei fatti e ciecamente (per le diversita' della
 casistica),  in  una  inammissibilita'  pura e semplice al sistema di
 interventi penitenziari alternativi  alla  detenzione.  Il  che  vuol
 dire:  inammissibilita' al rilievo (e, in sostanza: allo svolgimento)
 del percorso  rieducativo-riabilitativo  essenziale  alla  esecuzione
 della  pena;  inammissibilita'  al  riesame  dello  sviluppo  di quel
 percorso, finalizzato alla ricognizione che  la  pena  abbia  o  meno
 raggiunto  il fine che le e' proprio: riesame e ricognizione che sono
 un "diritto" dell'interessato, secondo quanto  indicato  dalla  Corte
 costituzionale  nella  sentenza  n.  204/1974 e in quelle successive,
 sopra citate.
    Ed allora il contrasto della nuova normativa con l'art. 27,  terzo
 comma,  della  Costituzione  puo'  essere ragionevolmente ritenuto: o
 ritenuta,  comunque,  non  manifestamente  infondata   la   questione
 relativa.
    2  d).  -  In  margine  alla conclusione su questo punto, si crede
 utile una ulteriore riflessione. La nuova  normativa  si  basa  sulla
 convinzione   che  particolari  delitti  sono  commessi  da  soggetti
 strettamente inseriti in organizzazioni  criminali,  dalle  quali  e'
 improbabile o anche impossibile il distacco.
    Se  cio'  e'  indubbiamente  vero,  non  e'  un  valido sistema di
 individuazione di questi  autori  quello  della  tipizzazione  basata
 sulla  astratta  previsione dei titoli di reato, sistema cui ha fatto
 ricorso la nuova normativa in esame.  Infatti,  la  casistica,  molto
 varia,  che  i  delitti  in questione presentano rivela che il legame
 degli autori con organizzazioni criminali, in  molti  casi,  non  era
 presente all'epoca dei fatti e tantomeno lo e' oggi.
    Cosi',  vi  sono  casi  di  sequestro  di  persona (a cui parrebbe
 appartenere quello commesso dall'interessato in questa procedura)  in
 cui  vi  e'  stata  una  aggregazione  occasionale  e estemporanea di
 persone,  che  non   sembrano   affatto   operare   nel   quadro   di
 organizzazioni  criminali.  Del  pari  e'  a dirsi per l'associazione
 finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, che e'  stata,  in
 vari  casi,  riconosciuta  nei  confronti di gruppi di persone legate
 dalla tossicodipendenza, che gestivano in comune l'approvvigionamento
 delle sostanze, con contatti, verosimilmente, ma senza inserimenti in
 associazioni  criminali,  cosi'  che  la  scoperta  dei  fatti  e  la
 celebrazione  del  processo  hanno  determinato  il dissolversi della
 aggregazione del gruppo. E anche per il piu' significativo  dei  tipi
 di  reato  richiamati  nella  prima  parte  del nuovo testo dell'art.
 4-bis, l'associazione a delinquere di cui all'art. 416- bis del c.p.,
 se  si  vuole  esaminare  la  situazione  razionalmente  e  senza   i
 condizionamenti   indotti   dalla   gravita'   degli  attacchi  della
 criminalita' organizzata, si deve rilevare che,  accanto  a  casi  di
 permanente  e  incontestabile  pericolosita', ve ne sono altri (tanto
 piu' frequenti quanto piu' si allontana nel tempo  il  periodo  della
 aggregazione criminale) in cui la dissoluzione del gruppo particolare
 in cui il soggetto era inserito, la sua partecipazione di secondo pi-
 ano,  il  distacco  da  persone  e  ambienti,  che  puo' essere stato
 agevolato da particolari storie personali; tutte queste  circostanze,
 insomma,  possono  rendere  possibile  la  dissociazione  dal  gruppo
 criminale di passata appartenenza.
    La tipizzazione per titoli  di  reato,  operata  dal  nuovo  testo
 dell'art. 4- bis, accomuna dunque situazioni eterogenee e prevede per
 tutte  la stessa disciplina, impedendo ogni distinzione a seconda del
 loro rilievo e della loro pericolosita'. E' questo appunto  l'aspetto
 negativo di una disciplina normativa che conduce ad una inaccettabile
 inammissibilita'  ai  benefici di tutti i casi, mentre, al contrario,
 una disciplina flessibile potrebbe consentire di escludere i casi che
 siano espressione di permanente  pericolosita',  ammettendo,  invece,
 gli  altri  ad  un esame nel merito. Disciplina, questa, che potrebbe
 essere compatibile con il precetto dell'art. 27, terzo  comma,  della
 Costituzione,  cosi'  come  interpretato  dalla Corte costituzionale,
 secondo quanto precisato in precedenza. Il  che,  per  quanto  si  e'
 detto,  non  avviene con la attuale previsione normativa del ripetuto
 art. 4-bis.
    3. - Rilievo di incostituzionalita' della nuova normativa  di  cui
 alla  prima  parte  del  primo  comma dell'art. 4- bis della legge 26
 luglio 1975, n. 354, cosi' come modificato dall'art. 15 del  d.-l.  8
 giugno  1992,  n.  306,  per  contrasto con l'art. 24, secondo comma,
 della Costituzione.
    3- a). - La norma costituzionale ora  citata  cosi'  dispone:  "La
 difesa   e'   diritto   inviolabile   in   ogni  stato  e  grado  del
 procedimento".
    La Corte costituzionale ha chiarito (sentenza 27 novembre 1979, n.
 267) che la garanzia costituzionale del diritto di difesa va riferita
 ai procedimenti giurisdizionali che abbiano contenuto decisorio. Tale
 e'  il  procedimento  di  sorveglianza  in  cui  e'  sollevata questa
 eccezione, secondo la giurisprudenza per la  quale  il  provvedimento
 conclusivo  di  tale  procedimento ha natura di sentenza e produce il
 normale effetto del giudicato (v. Cass. 24 ottobre 1979, in Foro it.,
 1980, II, 164; nonche' Cass. 21 febbraio 1983, in  Cass.  pen.  1984,
 2054).
    E'  utile  un  altro  chiarimento  che  viene dalla giurisprudenza
 costituzionale. Nella stessa si precisa (v.  per  tutte:  sentenza  8
 giugno  1983,  n.  149)  che  il diritto di difesa comporta, in primo
 luogo, la garanzia di contraddittorio: il che e' quanto dire che quel
 diritto e' assicurato nella misura in cui si dara' all'interessato la
 possibilita' di partecipare ad una effettiva dialettica processuale.
    Sembra chiaro pertanto che  il  diritto  di  difesa  non  concerne
 soltanto  la  disponibilita'  degli  strumenti  con  cui la difesa si
 realizza, ma anche, per  cosi'  dire,  il  merito  della  difesa,  la
 scelta,  cioe', di una linea difensiva piuttosto di un'altra. Nessuna
 linea di difesa puo' essere imposta, anche se  e'  pacifico  che  una
 certa  linea  difensiva  puo'  comportare, attraverso altri riscontri
 processuali,  valutazioni  particolari  (ed  anche  sfavorevoli)  nei
 confronti  del soggetto interessato. Il che, pero', deve essere detto
 senza dimenticare che si deve distinguere fra verita'  processuale  e
 verita' reale e che una certa valutazione della linea difensiva di un
 soggetto puo' essere in regola con la prima e non con la seconda.
    Orbene:  la  normativa  in  esame, condizionando un vero e proprio
 diritto del soggetto (cosi' come chiarito nelle pagine precedenti: il
 diritto, cioe', al riesame  degli  effetti  rieducativi-riabilitativi
 prodotti  dalla  esecuzione  della  pena) alla c.d. "collaborazione",
 vincola il soggetto  medesimo  ad  una  linea  difensiva,  negandogli
 pertanto  la  liberta'  di  scelta  garantita  costituzionalmente. E'
 chiaro  che  stabilire  che,  per  coloro  che  sono   detenuti   per
 particolari  reati,  nessun beneficio e' possibile se non nei casi in
 cui  "tali  detenuti  collaborano  con  la  giustizia  ..",  equivale
 puramente   e   semplicemente  a  costringere  gli  interessati  alla
 "collaborazione processuale" e, quindi, ad una particolare  linea  di
 difesa  (equivalente  alla  confessione  piena  e incondizionata) per
 essere  ammissibili  (ammissibili  in  astratto  e  non  ammessi)  ai
 benefici penitenziari.
    Due  precisazioni.  La prima. E' chiaro che qui non si fa derivare
 da un particolare atteggiamento difensivo una valutazione  di  merito
 sul  soggetto: gli si preclude, a causa della mancata collaborazione,
 l'accesso alla fruzione di un diritto (quale si e' sopra  precisato).
 E  si  ricordi cio' che si e' rilevato sub 2 c): che in molti casi la
 "collaborazione processuale" richiesta dalla legge non e' possibile.
    Seconda precisazione. Per  quanto  gia'  detto  e  ora  ricordato,
 quella  "collaborazione"  non va confusa con il percorso rieducativo-
 riabilitativo richiesto dalla legge per la concessione  dei  benefici
 penitenziari,  essendo  la  "collaborazione"  un  dato ben distinto e
 diverso e, in molti casi (come si e' detto poche  righe  sopra),  del
 tutto  impraticabile (v. sempre le gia' citate considerazioni sub 2 c
 circa la impossibilita' della collaborazione  in  molte  situazioni),
 anche in presenza di un percorso rieducativo compiuto.
    3  b).  -  Una  riflessione  va  fatta.  Cio' che si chiede con la
 normativa in discussione e' la "collaborazione processuale", come  si
 e' piu' volte ripetuto: cioe', una certa condotta difensiva, riferita
 alla  sede  del  processo  di  cognizione.  Qui  siamo  pero'  in  un
 procedimento  diverso:  e'  rilevabile  allora,  in  questa  sede  il
 sacrificio del diritto di difesa che si e' individuato?
    Una  prima  considerazione  e'  possibile.  Se poi consideriamo la
 normativa in esame (come e' inevitabile  fare)  come  quella  che  ha
 stabilmente modificato il regime penitenziario per coloro che vengono
 condannati  per  determinati  reati, deriva da essa il sacrificio del
 diritto di difesa proprio nell'ambito del procedimento di cognizione:
 nel quale, l'imputato sapra' che solo una certa  linea  difensiva  (e
 nessun  altra)  gli dara' una prospettiva in sede di esecuzione della
 pena. E' pero' da ritenere che in sede di procedimento di cognizione,
 non sia  possibile  sottoporre  ad  esame  di  costituzionalita'  una
 normativa  che  non regola quel procedimento, ma una fase successiva,
 se si vuole, futura e incerta.
    Ma, se quella fase si realizza, proprio questa, proprio il momento
 della esecuzione, e quel suo particolare aspetto che e' la  procedura
 di  sorveglianza,  diviene quello in cui il sacrificio del diritto di
 difesa in sede di cognizione puo' essere fatto valere. E cio'  potra'
 essere  fatto  non solo da coloro che scelsero di non collaborare, ma
 anche e soprattutto da coloro che non  avrebbero  potuto  collaborare
 anche  se  lo  avessero  voluto (v. i casi di cui sub 2 c) e che oggi
 vedono sanzionata la mancata prestazione di  una  collaborazione  che
 non avrebbero potuto prestare.
    Comunque  -  ed e' questa la seconda considerazione - esiste anche
 un diritto di difesa nella fase di esecuzione  e  in  particolare  in
 questa procedura di sorveglienza. Anche in questa fase, l'interessato
 ha  diritto  a  mantenere  un  certo  atteggiamento rispetto ai fatti
 giudicati e a scegliere una linea difensiva piuttosto  che  un'altra.
 Ed  anche  questo  diritto  di  difesa  e' colpito dalla normativa in
 discussione: ed e'  particolarmente  colpito  in  quei  casi  in  cui
 nessuna  collaborazione  e' ormai piu' possibile. In questi casi ogni
 dialettica processuale si chiude e l'interessato e' consegnato, senza
 potere fare nulla, alla passiva esclusione da ogni beneficio.
    4. - Rilievo di incostituzionalita' della nuova normativa  di  cui
 alla  prima  parte  del  primo  comma dell'art. 4- bis della legge 26
 luglio 1975, n. 354, cosi' come modificato dall'art. 15 del  d.-l.  8
 giugno  1992,  n.  306,  per constrasto con l'art. 25, secondo comma,
 della Costituzione.
    La norma  costituzionale  ora  citata  stabilisce:  "Nessuno  puo'
 essere  punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore
 prima del fatto commesso".
    L'irretroattivita' della legge costituisce un  principio  generale
 del   nostro   ordinamento   (art.   11   preleggi)  (sentenza  Corte
 costituzionale 4 aprile 1990, n. 155), che, nella materia  penale  e'
 stato  garantito  costituzionalmente  (v.  la giurisprudenza uniforme
 della Corte costituzionale in proposito).
    Tale principio, nella materia penale, riguarda sia  la  previsione
 legale  della  fattispecie  di  reato, sia la previsione legale della
 pena.
    Ora,  nella  situazione  in  discussione,  come  si  e' cercato di
 chiarire nel rilievo di incostituzionalita' ex art. 27 (v. sub 2 a  e
 segg.),  e'  un  nuovo e profondamente incisivo regime della pena che
 viene introdotto.
    Si  e'  chiarito,  in  sostanza,  che   condizionare   alla   c.d.
 "collaborazione"  l'ammissibilita' ai benefici penitenziari (e farlo,
 in particolare, in modo generale e generico, cosi' da intervenire  in
 tutte   le   situazioni,   ignorando   anche   quelle   in   cui   la
 "collaborazione"  non  e'  praticabile)   equivale   a   determinare:
 inammissibilita'  al  rilievo  (e, in sostanza, allo svolgimento) del
 percorso rieducativo-riabilitativo, essenziale alla esecuzione  della
 pena;  inammissibilita'  al  riesame dello sviluppo di quel percorso,
 finalizzato alla ricognizione che la pena abbia o meno  raggiunto  il
 fine  che  le  e' proprio: riesame e ricognizione che sono un diritto
 dell'interessato, secondo quanto indicato dalla Corte  costituzionale
 nella sentenza n. 204/1974 e in quelle successive sopra citate.
    Se   e'  cosi',  l'intervento  normativo  in  discussione,  cambia
 profondamente il regime della pena nei confronti  di  coloro  che  vi
 sono gia' sottoposti.
    Tale  normativa  opera in modo retroattivo, cosi' profondamente da
 prevedere, nel secondo comma dell'art. 15 del d.-l. 8 giugno 1992, n.
 306, addirittura la revoca dei benefici gia' in corso da  tempo.  Non
 solo,  pertanto,  non  contiene alcuna clausola che escluda l'effetto
 retroattivo, ma lo afferma e lo dichiara in modo esplicito fino  alle
 estreme conseguenze.
    Non  sembra  davvero  manifestamente  infondato  affermare  che la
 normativa  in  questione   viola   quella   costituzionale   indicata
 all'inizio di questo numero.
    5.  -  Dopo  avere svolto le considerazioni che precedono circa il
 rilievo di incostituzionalita' presentato dalla normativa  del  d.-l.
 n. 306/1992 si ritengono utili le seguenti precisazioni.
    La prima. La normativa in parola fa riferimento alle misure alter-
 native  previste  dal capo sesto della legge 26 luglio 1975, n.  354.
 Si deve ritenere che la espressione  dell'art.  4-bis,  primo  comma,
 faccia  riferimento a tutte le misure previste da detto capo, esclusa
 la remissione del debito, ed  includa  quindi  anche  la  liberazione
 anticipata.  La  giurisprudenza  della Cassazione si e' gia' espressa
 sul precedente testo dell'art. 4- bis nel senso ora indicato.
    La seconda  precisazione  riguarda  la  liberazione  condizionale.
 L'art.  4-  bis non fa diretto riferimento alla stessa, ma tale norma
 e' applicabile anche in materia di liberazione condizionale ai  sensi
 art.  2 del d.-l. 13 maggio 1991, n. 152, conv. nella legge 12 luglio
 1991, n. 203, che dispone: "I condannati per i delitti  indicati  nel
 primo  comma  dell'art.  4-  bis  della legge 26 luglio 1975, n. 354,
 possono  essere  ammessi  alla  liberazione  condizionale   solo   se
 ricorrono  i  relativi presupposti previsti dallo stesso comma per la
 concessione dei benefici indicati".
    E' indubbia pertanto la rilevanza della normativa  in  discussione
 in  riferimento  al  tipo  di  misura cui la istanza dell'interessato
 tende a che forma oggetto della presente procedura di sorveglianza.
    6.  -  Riepilogando:  si  ritiene  di  sollevare,  nella  presente
 procedura, eccezione di costituzionalita' sotto i seguenti profili:
       a)  incostituzionalita' della nuova normativa di cui alla prima
 parte del primo comma dell'art. 4- bis della legge 26 luglio 1975, n.
 354, cosi' come modificato dall'art. 15 del d.-l. 8 giugno  1992,  n.
 306, per contrasto con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione;
       b)  incostituzionalita' della nuova normativa di cui alla prima
 parte del primo comma dell'art. 4- bis della legge 26 luglio 1975, n.
 354, cosi' come modificato dall'art. 15 del d.-l. 8 giugno  1992,  n.
 306, per contrasto con l'art. 24, secondo comma, della Costituzione;
       c)  incostituzionalita' della nuova normativa di cui alla prima
 parte del primo comma dell'art. 4- bis della legge 26 luglio 1975, n.
 354, cosi' come modificato dall'art. 15 del d.-l. 8 giugno  1992,  n.
 306, per contrasto con l'art. 25, secondo comma, della Costituzione.
 92C1078